Vittorio Gregotti muore per il coronavirus

Oggi si è spento a Milano l'architetto Vittorio Gregotti, a seguito del coranavirus, Archimagazine vuole ricordarlo con il testo da lui scritto per ''Il MANIFESTO - L'Architettura in 10 punti'' ...

Vittorio Gregotti

Oggi si è spento a Milano l'architetto Vittorio Gregotti, a seguito del coranavirus, Archimagazine vuole ricordarlo con il testo da lui scritto per ''Il MANIFESTO - L'Architettura in 10 punti'' studio promosso nel 2015 dall'Ordine degli Architetti P.P.C. di Caserta e redatto dalla Commissione Cultura dello stesso Ordine. Alla redazione del ''Manifesto'' aderirono i maggiori architetti italiani tra cui lo stesso Gregotti che trattò il IV punto ''Estetica'' che viene oggi riproposto per la sua attualità anche in rapporto all'attuale crisi che l'Italia sta vivendo.

Estetica
Vittorio Gregotti
Nel 1998 ho scritto per l'editore Einaudi un saggio dal titolo L'identità dell'architettura europea e la sua crisi. L'interrogativo che vorrei oggi pormi, che è anche il contenuto del mio ultimo libro dal titolo Il possibile necessario, è che cosa sia cambiato nella cultura architettonica europea rispetto alle ragioni di quella crisi: oggi, dopo quindici anni.
La risposta più sbrigativa è che le crepe di quella crisi si siano ulteriormente allargate e che le speranze provvisorie che erano il contenuto dell'ultimo capitolo di quel libro non hanno avuto seguito. Quelle crepe erano già da quegli anni state da me messe in evidenza come costruite da una presa di potere del capitalismo finanziario neocoloniale e globale, dal mito delle tecnoscienze come unica prospettiva di futuro nel mondo contemporaneo, dalle comunicazioni immateriali che si trasformano in credenze, dalla visibilità mercantile come unico valore, dalle proteste senza proposte, dalla liquefazione dell'idea di classe sociale ed insieme dalla voragine sempre più ampia fra ricchi e poveri.
Le risposte della cultura delle arti sono divenute quasi sempre rispecchiamento dello stato delle cose efficacemente rappresentate dall'ideologia del postmodernismo, in un primo tempo come nostalgia eclettica degli stili storici, poi con un'assunzione formalistica dei linguaggi delle avanguardie private dei loro ideali strutturalmente rivoluzionari, ed infine da un ''accademismo dell'originalità mercantile e temporanea'' fondata su una falsa convinzione dell'assoluta libertà personale dell'espressione del singolo, che è in realtà una sua adesione all'idea della visibilità come unico valore da perseguire.
A tutto questo si aggiunge la mia impressione che l'architettura, in quanto pratica artistica concreta, e specialmente le discussioni sui suoi fondamenti, non interessino più a quasi nessuno e in particolare non interessino né agli architetti né alla politica. Lo si vede di fatto dallo stato disastroso delle nostre città e delle loro periferie, e più in generale dall'incapacità di dare risposte agli sviluppi urbani e infine dalle crisi delle facoltà di architettura e delle riviste di architettura con l'esplosione dell'informazione immateriale globale senza scelte critiche fondate.
Certo l'architettura interessa in quanto industria della costruzione e della speculazione edilizia (nonostante il loro precipitoso calo di iniziative nei nostri anni non solo in Italia). Interessa inoltre alla grande quantità delle diverse e sempre più numerose categorie dei tecnici e degli uomini di marketing in quanto occasione di lavoro, ed agli architetti soprattutto in quanto occasione di aspirazione a successi mediatici personali; tutti alleati dell'attuale vastissima area della comunicazione visuale in funzione mercantile.
È un interesse che possiamo definire come il ''capitalismo della visibilità'' che rappresenta oggi il potere più forte anche nei confronti delle arti ed insieme la ragione strutturale del loro stato di crisi profonda e di impossibilità di uno sguardo critico sulla realtà e le sue contraddizioni che invece è il fondamento di ogni autentico nuovo. Oggi anche l'architettura è divenuta griffe temporanea, necessità che anche l'artista si crei un proprio ''capitale di visibilità'' e che persino il destino del critico diventi quello del ''mediatore'' nei confronti delle esigenze di quello stesso capitale della visibilità anziché di colui che cerca di misurare per mezzo della critica la relazione con la successione delle realtà della storia e delle loro qualità.
Scrivere di una critica dell'architettura che guardi alle contraddizioni del presente suona quindi come un'attività temeraria, forse oggi priva della possibilità di suscitare speranze durevoli e riconoscibili.
Parlare o scrivere di architettura dal punto di vista del suo fare e dei suoi fondamenti come capacità di messa in discussione delle difficoltà del presente, di modificazione positiva dello stato delle cose, sembra interessare ancor meno agli insegnamenti universitari delle nostre facoltà di architettura, a partire dalla progressiva messa a lato dell'insegnamento artigianale del mestiere, privo di ogni senso poetico del dettaglio e sostituito dall'impero del semilavorato che propone un diverso approccio alla forma e persino alla storia della nostra disciplina. Escluse le scarse eccezioni ovviamente.
Perché allora scrivere di architettura, tentare di mettere a disposizione le esperienze come, nel mio caso, quelle del nostro studio di architettura di più di mezzo secolo di lavoro, quando sono proprio le riflessioni intorno alla specificità dell'argomento, alle sue relazioni con gli altri aspetti della cultura ed alle sue particolari prove di proposta di qualche frammento di verità, quando è proprio questo ciò che si rifiuta?
Oggi si ricorre alle forme dell'architettura solo come calligrafia della visibilità mercantile inutilmente bizzarra, oppure nostalgica e temporanea del passato, e persino si imita la tradizione dello stesso Movimento Moderno (privato però dei suoi ideali rivoluzionari politici e linguistici, come vintage) mentre solo il successo mediatico e la ricchezza personale sono gli obbiettivi prioritari.
Proporre un piccolo testo, l'ultimo da me prodotto, dal titolo temerario come il Possibile necessario in quanto stato attuale della cultura architettonica europea e della sua crisi suona quindi come proposta di un ottimismo con scarso fondamento nella realtà del presente e nei suoi valori che sfida la ''complicazione senza complessità'' dello stato di fatto della nostra disciplina. Una disciplina frantumata e sciolta nella nuvola minacciosa ed esclusiva della calligrafia della comunicazione mercantile, dello stato delle cose e dei poteri finanziari globali, di cui è divenuta positivo rispecchiamento, come una sorta di nuovo zdanovismo stalinista dei poteri.
Bisognerebbe concludere che se il mondo globale diventa soprattutto uno spazio espositivo di prodotti in vendita, quando il mito dei mezzi è diventato il solo contenuto da rappresentare (cioè il contenuto anche dell'architettura) forse «l'abitare come essere dell'uomo sulla terra», come scriveva Heidegger, non è più possibile.
Un accumulo di informazioni senza contesto critico non produce di per sé una verità, perché manca la scelta della direzione da assumere, cioè del senso dell'opera. O meglio manca loro il poetico ''nuovo necessario'' che non produce alcuna possibilità di visibilità mercantile, quanto piuttosto una flebile speranza di futuro ragionevole cioè autenticamente nuovo, per l'architettura.
Chi come me ha passato più di sessantacinque anni di vita ad occuparsi di architettura un po' in tutto il mondo pensandola come una nobile pratica artistica, fatica però a rinunciare alla sua possibilità di produrre ancora per suo mezzo qualche frammento poetico di una verità profonda, cioè crede ancora che «il bello sia la luce del vero», come scriveva Plotino molti secoli or sono.

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