Arte Povera 1967-2011
Milano - Triennale
Dal 25 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012
A cura di Germano Celant
Dal 25 ottobre 2011 si tiene presso la Triennale di Milano “Arte Povera
1967-2011”. L'esposizione fa parte di “Arte Povera 2011”, la mostra-evento a
cura di Germano Celant, che sarà presentata dall'autunno 2011 fino ad aprile
2012 in diverse istituzioni italiane. Ha come fulcro il movimento nato nel 1967
con gli artisti Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari,
Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino
Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto
Zorio. Presenta su scala nazionale e internazionale, gli sviluppi storici e
contemporanei di questa ricerca, distribuendo le varie fasi e i singoli momenti
linguistici in differenti città e istituzioni. Un insieme di mostre che con la
collaborazione di parte del “sistema museo” italiano e attraverso diverse
situazioni architettoniche e ambientali, mette insieme oltre 200 opere storiche
e recenti e si propone come un viaggio nel tempo dal 1967 a oggi.
La Triennale di Milano che insieme al Castello di Rivoli Museo d'Arte
contemporanea promuove “Arte Povera 2011”, presenta per la prima volta a Milano
una rassegna antologica sul movimento: in uno spazio di circa 3000 metri
quadrati in cui sono esposte oltre cinquanta opere, la mostra vuole
testimoniare l'evoluzione del percorso artistico a partire dal 1967 fino al
2011. L'iniziativa è il frutto della preziosa collaborazione con gli artisti,
gli archivi e le fondazioni loro dedicate ed è stata possibile anche grazie
alla generosa partecipazione di importanti musei italiani e internazionali e
collezioni pubbliche e private.
Sviluppandosi sui due piani dell'edificio progettato da Muzio nel 1931, la
mostra si compone di due parti: la prima, dedicata alle opere storiche
realizzate dal 1967 al 1975 circa e che segnano l'esordio linguistico dei
singoli artisti, è allestita al piano terra, nella Galleria dell'Architettura
disegnata da Gae Aulenti. La seconda, ospitata nei grandi spazi aperti del
primo piano del Palazzo, aspira a documentare lo spirito fluido e spettacolare
delle imponenti opere realizzate dai singoli artisti dal 1975 al 2011, le
quali, poste in dialogo tra loro, si intrecciano a formare un arcipelago di
momenti intensi e contrastanti.
Il termine, usato per la prima volta nel settembre 1967 da Celant in occasione
della mostra “arte povera + Imspazio” a Genova, tende a definire un territorio
aperto di materiali e di espressività, che arrivava a comprendere qualsiasi
manifestazione naturale e artificiale, corporale e meccanica, così da includere
elementi quali animali e vegetali, acqua e fuoco, tela e pietra, tubi
fluorescenti e alberi. Un'attitudine a lasciar esprimere le materie, così che
l'opera d'arte potesse sviluppare dall'interno mutamenti ed energie, non
controllati esteticamente o plasticamente, quanto un muoversi libero
nell'ambito delle immagini e delle tecniche, tradizionalmente artistiche.
In particolare a Milano, in Triennale, il pubblico potrà percepire come tale
ricerca si è modificata nel corso del tempo, passando da una presentazione di
elementi che all'inizio presentavano una grande compressione materica perché
affidata a entità segniche primitive come fuoco e pietre, carbone e igloo,
ghiaccio e vegetale, piombo e gesso, tubo fluorescente e vetro, nylon e
specchio, acqua e stoffa, ad articolazioni complesse e in grande scala dove il
discorso linguistico si sviluppa in un'installazione che avvolge e confronta
l'osservatore e il visitatore così da mettere relazione corpo e oggetto,
movimento e architettura.
Di sala in sala e di piano in piano le persone arriveranno a confrontarsi in
Jannis Kounellis con cumuli di pietre, di carbone e di tele grezze quanto con
una porta murata e una sequenza di superfici metalliche, attraversate da fiori
e da cere, da cotone e da ferro, dove le materie rimandano alla intensità del
tempo compresso e alle gestualità umane primarie, mentre con Mario Merz si
troveranno dinanzi gli intrecci sorprendenti di tele e oggetti, attraversati
dal neon, e l'igloo di vetri e di fascine nonché con l'enorme tavolo a spirale
in cui l'artista ha voluto significare una potenziale coesistenza, quanto un
drammatico scontro tra società artigianale e industriale. A tali momenti di
intensità iconica e energetica, corrispondono la convergenza e la sintonia tra
le articolazioni puriste e formali, ad immagine di cubo e di struttura
ortogonale, in ottone, di Luciano Fabro e le riflessioni sulle icone plastiche,
tipo la colonna e le sue variazioni nello spazio di Giulio Paolini: artisti che
a partire dagli anni ottanta fanno esplodere la loro narrazione plastica
immettendo forti componenti cromatiche e scultoree. A questo arcipelago
contribuisce Michelangelo Pistoletto che sin dall'inizio del suo lavoro si è
impegnato sul tema della pittura come strumento di riflessione e di
moltiplicazione della realtà esterna. Una polarità tra superficie riflettente e
immagine riflessa che si è articolata dall'interno all'esterno e viceversa
portandolo, dal 1965, alla creazione di “oggetti in meno”, perché costruiti
direttamente dall'immaginario cangiante e mutante dell'artista, quanto alla
propagazione infinita di frammenti di materia, dallo specchio allo straccio, e
di idee o di segni con cui costruire un terzo paradiso.
Nell'ambito della stessa pluralità di approcci sia concettuali che materiali
all'arte si inseriscono anche gli assemblaggi di piombo e di ghiaccio, di
scritte e di foglie di tabacco prodotti da Pier Paolo Calzolari. Qui la ricerca
è per un equilibrio quasi sublime tra forme e vicende energetiche, che si
legano all'atmosfera dell'ambiente quanto al contesto architettonico. Un
dialogo tra intensità cromatiche e superfici tattili che passano attraverso
l'uso di sale combusto, di piombo e di feltro che innestandosi l'uno nell'altro
producono variazioni epidermiche sottili e fragili, quanto effetti di innesto
sorprendenti e meraviglianti. Il piacere di un racconto personale e intimo,
condotto con materiali fragili come il filo di nylon e le foglie secche, i
frammenti di tronco o la morbida creta segnano il percorso di Marisa Merz che
partita da una scarpetta con cui segnare una distesa di morbida sabbia, nel
tempo, è approdata a storie articolate e complesse, generate dall'incontro di
frammenti di vita e di città. Qualcosa di profondamente vissuto giorno per
giorno che è arrivato alla costruzione di testine decorate con oro e colore, e
alla stesura di ampi cartoni, intrecciati a veline e a ritagli di stoffa e
carta, dove il femminile racconta la sua storia.
La messa in immagine di percorsi effimeri e leggeri accomuna Pino Pascali e Alighiero
Boetti che si sono impegnati in una narrazione iconica del loro mondo
fantastico e avventuroso. Il primo tracciando universi archetipi di animali
preistorici o di momenti naturali primari, come il dinosauro o l'orca, quanto
il mare o i campi arati, mentre il secondo ha continuamente pensato il suo
nomadismo, fisico e filosofico, traducendolo in scritture e oggetti che
riflettessero il flusso della vita e dei luoghi attraversati, spesso magici e
mitici: una serie di frammenti giocosi e felici che mescolano biografia con
storia. Un racconto inventato e mnemonico a cui si contrappone il silenzio e
l'assenza degli standards apprezzati da Emilio Prini che ha sempre indirizzato
la sua attenzione estetica e linguistica sulle componenti primarie ed essenziali,
quasi sempre immateriali, dell'azione e del contesto ambientale in cui la
figura umana, spesso l'artista stesso, si è mossa. Le sue fotografie, quanto le
sue costruzioni rivendicano un'autonomia assoluta e, quasi, solitaria, quasi
entità effimere non tendono a collocarsi né a trovare un luogo, oppure come
tutti gli standard si ripetono e sono ovunque.
Infine le opere di Giovanni Anselmo e di Giuseppe Penone che portano
l'attenzione su motivi cosmici che si rifanno a una crescita arcaica, quanto
naturale dei materiali litici e lignei: un procedere concrentato sulle origini
e sugli itinerari delle sostanze che formano il mondo. Entrambi operano sul
patrimonio, quasi archeologico dello spazio fisico quanto della crescita
floreale del contesto naturale, sia che riguardi l'orientamento zenitale,
quanto la cognizione costruttiva del nucleo fecondante, rigido quanto fluido,
che danno corpo pulsante e fluttuante alla nostra sfera terrestre. Lavori che
mettono in sospensione la posizione perduta di un nido o di una linea di mare,
quanto il canto interiore di una trave che trova all'interno di sé il suono
dell'antico albero che la ospitava. Processi di scultore, in sintonia con il
cosmo, che in Gilberto Zorio si traducono in entità simboliche, come la stella
o il giavellotto, strumenti di collegamento tra cielo e terra, quanto
patrimonio di conoscenza sull'energia che si sviluppa dai rapporti luminosi del
sistema stellare, quanto dall'irruzione in aria di uno strumento il cui
movimento è provocato dall'azione umana.
Una serie di costruzioni che sono invocazioni di una potenza immaginaria
dell'arte, che aspira a rifondare la sua lettura della realtà senza alcuna
costrizione o senza alcuna limitazione. Una processo artistico che crea spazi e
situazioni magnetiche che si inseriscono nello spazio della Triennale, a
Milano, per creare un'ulteriore prova di una ritualità estetica ed energetica,
tipica dell'Arte Povera.
Informazioni
Arte Povera 1967-2011
Luogo: Milano - Triennale
Periodo: dal 25 ottobre 2011 al 29 gennaio 2012
Orari: martedì-domenica 10.30-20.30; giovedì e venerdì 10.30-23.00
Ingresso: 8,00 Euro; 6,50 Euro; 5,50 Euro