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Tra Oriente e Occidente: la cucitura dell'artista coreana Kimsooja al Pac di Milano

di Nicola Davide Angerame

L’arte relazionale e transculturale, che sta segnando l’ultimo decennio con la progressiva affermazione del meticciato metropolitano, trova in Kimsooja (Taegu, 1957) una voce capace di sintetizzare antitesi e antipodi, scorrendo da Oriente a Occidente, dalla campagna alla metropoli, dalle tradizioni nazionali sud-coreane ai linguaggi globali. La pratica artistica di questa newyorkese d’adozione, allevata in una famiglia cattolica in un paese confuciano e buddhista, interpreta il ready made e la performance secondo schemi inusuali. Il buddismo, la sua percezione alternativa di tempo e spazio, la transitorietà dell’esistenza e la desogettivizzazione dell’atto creativo sono alcuni assunti di una poetica che, come in molti "artisti della diaspora", veicola storie, tradizioni e ricordi periferici nel centro dell’Occidente; in un linguaggio artistico che si "glocalizza", resistendo all’omologazione tramite nuove forme di contaminazione fra civiltà, valori e teorie estetiche.

Conditions of Humanity, questo è il titolo della prima italiana di Kimsooja (al PAC di Milano, in festa per il mezzo secolo di vita. Fino al 19 settembre, catalogo Continents Editions), si apre con Mandala (2002), uno sfavillante jukebox scovato in Brooklyn e abbinato dall’artista a preghiere tibetane. Questo "ready made" mostra singolari punti in comune con la narrazione visiva buddista dell’inizio e della fine dell’universo. Parola sanscrita, "mandala" significa letteralmente "ciò che tiene assieme", e rappresenta il senso di tutta l’opera di Kimsooja, fondata in buona parte sul recupero estetico e concettuale del "cucito".

La pratica del rammendo, escamotage rurale contro lo spreco, ha per l’artista la triplice valenza di un ricordo personale, un atto simbolico ed una pratica meditativa. Con esso l’artista lega insieme il molteplice differente, nelle profondità di un gesto che carica l’opera di una processualità e di un vissuto in cui riecheggiano l’interesse di Alighiero Boetti per i tappeti e le performance energetiche di Joseph Beuys. Trasformato in "grande metafora", il cucito comporta implicazioni sociali e culturali, ed esprime il sentimento panico di un artista che, dopo gli studi di pittura parigini segnati dall’interesse per Mondrian, si trasferisce a New York, dove intuisce la propria "diversità", ideando l’opera che sarà la cifra stilistica del lavoro successivo: il bottari. Fagotto tradizionale coreano realizzato in seta preziosa o con patchwork di abiti smessi, il bottari è il luogo in cui confluiscono gli averi del viaggiatore, i doni rituali, ma anche i panni sporchi da portare a lavare. Un’intera esistenza può esservi contenuta. In Lawndry Woman (Donna lavandaia, 2000), Kimsooja li appende come quadri, con disegni beneaugurali e ricami ornamentali. In versione distesa hanno la funzione del "copriletto", elemento tradizionale che accompagna la scansione del quotidiano ed i cicli di vita dei coreani: dal riposo, all’amore, al rito funebre.

In altre opere l’artista ci avvolge i suoi deductives objects: pale, zappe, arcolai e altri utensili, rurali e domestici, che serbano una propria memoria. "Cose già usate", fornite di un’"aura" distinta da quella dei ready made di Duchamp. Qui l’impronta umana, la sua esistenza quotidiana, sostanzia un "minimalismo esistenziale" teso a correggere il minimalismo "troppo massimalista" occidentale. Nelle ultime opere, i bottari vengono accumulati durante lunghe peregrinazioni su furgoni-sculture; emblema di una diaspora e di un nomadismo che si riflette in un’altra idea tipica dell’artista coreana: farsi "ago", divenire strumento di una cucitura antropologica, urbanistica e paesaggistica.

Per la serie di performance videoregistrate, intitolata A Needle Woman (Donna-ago, 1999-2001), Kimsooja cuce insieme Shanghai, Tokio, New York, New Delhi, Il Cairo e Lagos in una esplorazione metropolitana antitetica a quella del flâneur di Baudelaire. In tableau vivant di grande magnetismo si fa statua vivente, bloccandosi in estatica contemplazione nel centro di strada affollate, come una roccia gettata lungo il corso di un fiume in piena. Otto schermi, otto metropoli, otto anonimi e caotici boulevard che convergono nel centro silenzioso del museo. Otto non-luoghi "scandalizzati" dalla fissità anti-moderna dell’artista, e per questo trasformati in altrettanti momenti di "aggregazione" e di comparazione di un largo spettro d’atteggiamenti urbani: dalla "power walk" dei giapponesi, alla curiosità gioiosa dei bambini di Lagos, al divertimento stranito degli abitanti del Cairo. L’artista, di spalle e senza volto, ci invita a prendere il suo posto di fronte a sciami di volti sconosciuti, esponendoci al loro sguardo, alla loro curiosità e indifferenza; miracolo dell’ubiquità e di uno sguardo panico d’artista, che si fa ago per "tenere insieme" il tessuto di una realtà che, come avvertono Paul Virilio e Zygmunt Bauman, accelera vorticosamente e tende a frantumarsi in miliardi di teleschermi sintonizzati sul pensiero unico di un nuovo "individualismo di massa".

Kimsoja è un’artista che mendica anche, come nei video di A Beggar Woman (Donna mendicante 2000 - 2001) oppure contempla paesaggi e fiumi con la sola ambizione di diventare "un individuo senza il bisogno d’essere niente di speciale, ma libero dalle follie e dai desideri umani". Il bagno nel fiume umano di Kimsooja ricorda l’illuminazione del Siddharta di Hermann Hesse, un cammino di liberazione, "per andare oltre se stessi", verso una realtà che sfugge.

Articolo pubblicato il 6 settembre 2004