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Orizzonte nero ed altri sguardi

Di Flavio Arensi

"Tutto ciò che trascorre
rimane come impronta.
Ciò che è inafferrabile
si mostra qui come presenza.
Ciò che è indefinibile
ritrova qui la sua parola.
Ciò che si fa eterno
ci astrae qui dal mondo".

Faust, Johann Wolfang Goethe

Mistero è il nome che imponiamo a ciò che nome non ha: né deve averne. La mistica ebraica comprese l'impossibilità di stabilire una relazione fra la parola, l'immagine e l'essenza del mondo, decidendo di non pronunciare l'appellativo intimo di Dio, il suo tetragramma sacro. Valentino Vago a suo modo mantiene la propensione di raccontare l'ultimo velo teso prima della verità nuda, senza per questo voler in alcun modo scioglierne l'enigma; succede come nei piccoli maestosi monasteri della Bucovina, dove il monaco ortodosso celebra la messa nascosto agli occhi dei fedeli; fra la mensa liturgica e la navata egli frappone la vela templi o la chiusa dell’iconostasi. Nel caso di Vago, procedere oltre certe superfici evaporate, in cui il colore dilegua in forma di una preghiera sincera rivolta a qualcosa pur sempre imperscrutabile, rimane una speranza che non cede alle crisi quotidiane della vita, e forse è la vita stessa. La strada da cui giunge questo gentile pittore milanese comincia dalle terre lombarde tangenti all'Informale (Paesaggio, 1956-1957). La scoperta della materia grassa e ricca della Brianza, con le montagne apposte come angeli custodi convenuti in un abbraccio continuo all'umanità, e il mare che da lontano riecheggia nelle onde irruenti dei fiumi padani, scorre in lunghe pennellate di colore; esse si costruiscono apparentemente in una sorta di sinfonia aerea del territorio, quasi s'invertisse ortogonalmente le coeve prospettive adduane di Ennio Morlotti, distogliendo il panorama dal confronto diretto e orizzontale, invece innalzandosi per cominciare a volare e prendere nota di ciò che accadde sotto.

È negli anni Sessanta che Vago torna in terra, e questa volta echeggia un dialogo perentorio con l'orizzonte, nella modalità di una nuovadialettica con lo spazio aereo. Sono i quadri che qui raccogliamo, le Immagini, le Distensioni, le Presenze. Di questi, il limite invalicabile diviene Orizzonte nero del 1965, nel quale cielo e terra si uniscono ai limiti di una frangia esistenziale che mette in crisi tutto il percorso artistico del pittore, lasciando altresì intendere il raggiungimento di un punto senza altre scappatoie. Non soltanto dunque Kasimir Malevich (1878 - 1935) e la sintesi di un'icona significata da un Quadrato nero su fondo bianco, o addirittura dal Quadrato bianco su fondo bianco, nel trionfo della speranza divina, bensì l'identificazione del limite umano reso forma pittorica. Analizzando il contesto storico in cui egli firma il suo estremo manifesto poetico, con tutta la contraddittorietà e preoccupante incertezza politica degli anni minacciosi della Guerra fredda, s'intende il richiamo a una disperazione che ottenebra il futuro, annottando l'offerta serena del domani. Vago non è mai un pittore cupo, né cerca di tenersi saldo alle vicende storiche, neppure quelle autobiografiche infliggono al lavoro una dimensione più che accidentale. Orizzonte nero prelude infatti ad una svolta proficua che porta la sua arte a scollegare gli ultimi residui di considerazione pratica e terrene: la sottile linea imprigionata fra le due tonalità opposte demarca un paesaggio ormai giunto alla sua efficace semplificazione, a quel metaforico numero primo irriducibile ad altro risultato nel campo razionale. Dunque, a partire da qui comincia la manifestazione dell'irrazionale, da intendersi come una precisa volontà di prevaricazione sulla realtà per aprire le porte di ciò che ancora più grande di essa diventa appunto il campo del mistero. D'altronde, il suicidio di Mark Rothko (1903-1970) dimostra che senza speranza nessuna ricerca oltre il confine del tangibile ha senso, come del resto precisano le ultime battute del Faust goethiano, quel Chorus Mysticus che sembra dileguarsi verso regioni al di là della terra, dove l'uomo può salire non con i suoi sensi ma solo con un volo del cuore; e a quella cifra si riferisce Vago. Si potrebbe persino azzardare l'ipotesi che egli smetta di cercare e si disponga invece per incontrare, con l'indole aperta e meravigliata dei bambini.

Benché la dinamica dei primi lavori degli anni Cinquanta non ravvisi pienamente il progetto poi delineato nel corso della maturazione, l'intento è già denunciato almeno in nuce, nel desiderio di assaporare l'eternità della bellezza, quale forma armonica, non in virtù di un approccio soggettivo ed individuale, bensì come contesto assoluto e perciò indipendente, dunque accessibile pur impronunciabile. Il solco tracciato fra gli anni Sessanta e Settanta determina il decisivo sconvolgimento della prospettiva di sguardo. Non si tratterà più d’ammirare la terra innalzandosi al di sopra dei nembi, o di paragonarsi ad un orizzonte lontano però riflesso, bensì di sollevare gli occhi all'infinità del cielo, e lì, in quello spazio intangibile iniziare a costruire una propria nuova Gerusalemme. Chi l'ha visto impegnato a dipingere la cupola di una chiesa a quaranta metri d'altezza, nel prorompere del suo colore fino alla rarefazione, oppure ha raccolto la vertigine vorticante della Chiesa parrocchiale di Barlassina, comprende la potenza innovativa di questo vista innalzata; riuscirebbe persino ad oltrepassare il nero chiuso delle tele di questo ultimo biennio, elaborate nella notte dolorosa del lutto per la scomparsa della moglie (dal cui nome deriva la loro titolazione). È dall'Orizzonte nero che Vago non utilizza la parola personale per descrivere il mondo, ed è col suo Autoritratto (R4-179 del 2004), riconoscibile soltanto per le due sferzate blu a richiamare i suo occhi, che egli riprende da dove aveva lasciato la descrizione di un travaglio esistenziale, il personale fastidio della quotidianità.

Questo travaglio si ferma però ai piedi del cielo, dove si stendono i campi di grano lasciando andare le proprie alture in direzione di una meta che pare irraggiungibile, invece è già lì, attenta, accogliente (Cielo bianco, 1965). Alle scuole elementari le maestre insegnano ai bambini a trascinare l’azzurro della volta celeste fino al limite della terra, e così Vago porta da sé il suo cielo ogni giorno, e gli basta oltrepassare il vetro della finestra che illumina lo studio, cercando fra un palazzo e l’altro della città lo spiraglio colorato del suo principale ispiratore. Una volta abbiamo visto insieme passare le nuvole lungo la scia sottile del litorale di Rapallo. Il cielo era tutto alto e lontanissimo. Credo che in un istante Vago lo abbia fatto tornare ai bordi del mare. E quel blu intenso è la sua storia. Fino all’Orizzonte nero, fino al nero, dove inizia un altro sguardo. E chissà quale mistero.

Suceava (Romania), maggio 2005


Articolo pubblicato il 28 ottobre 2005