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Tre artiste: l’ombra dell’angelo custodisce gioielli di sale

di Mimmo Grasso

Stavolta per i lettori di Archimagazine inizio con un verso che, nella mia pia intenzionalità, vorrebbe sintetizzare, proponendole come un continuum, le esperienze di quattro artiste. Es-per-ienze significative perché esplorano il possibile, il luogo della creatività, accomunate dal lavoro manuale sulla mater-materia. O lettore, il maschile ,con la sua mente di testuggine pigra, ama che tutto sia logico e coerente, in filiera, governabile (è un maschile molto borghese), incasellabile sulla schacchiera che ha sul dorso. Il mio maschile infatti non riuscirà mai a capire che l’angelo, il nunzio (capatosta di un maschio: ho detto nunzio e non "alfiere") ha un’ombra che si chiama linguaggio che (il linguaggio, cocciuto, non il nunzio) custodisce il proprio nascosto custodire (ma ci sono, o mio femminile, equazioni logiche in quello che dici che solo il maschile afferra. Ho detto "afferra" pensando al maniscalco, alla forgia). Quello è possibilmente un angelo marino, sempre ammesso che, come il femminile dichiara, nelle profondità dell’ "acqua" vi siano ombre.

Io-lui:"sono sceso fino -50 m e non ho mai visto un’ombra"
Lei-io: "sceso dove, cucciolotto?"

Igitur lasciamoli al loro battibecco e presentiamo le artiste: Giovanna Riggi, Teresa Mangiacapra, Adriana del Vento, Lucia Gàngàri.
Se vi va di proseguire a leggere questo saggio, provate alla fine a sistemarle in un quadrante, in una specie di rosa dei venti. Chiudete prima la porta o l’angelo di psiche volerà via e non resterà di lui nemmeno l’ombra -(?).

Giovanna Riggi

Giovanna Riggi

Giovanna Riggi

Giovanna Riggi


Giovanna Riggi
Grazia e leggerezza. Sono queste le due immagini-parole che vengono in mente (nel senso che giungono chissà da dove e bussano con gentilezza alle porte della percezione) guardando le sculture di Giovanna Riggi. Non ho bisogno neanche di selezionarle da un paniere di possibilità
definitorie. La nostra mente, infatti, davanti a una cosa vista per la prima volta, cerca immediatamente riscontri, apre il frigorifero e vuole ri-conoscere gli oggetti. Da dove vengono queste immagini ognuna delle quali accompagna per mano una parola? Da un parco giochi della memoria, da un "delizioso" giardino dove, con altre immagini che trascinano parole un po’ riottose come un bimbo che deve andare a scuola, trascorrono come acqua sul loro stesso scorrere? Giovanna Riggi sembra modellare la materia più refrattaria alle mani: l’ombra. I suoi lavori, infatti e in fondo, sono giochi d’ombre. A intendere "giochi d’ombra" in senso letterale, per quanto sia un luogo comune nel senso che ci accomuna, vengono un po’ i brividi, come leggendo "Il sogno e il mondo infero" . Tra queste storie di tempo in movimento (perché come si sa il tempo è movimento. Anche la stasi di queste sculture sono tempo in non-movimento, dunque ne suggeriscono il fondamento) in primo piano, regale ed orfana del sole, ce n’è una molto vicina, per postura e significati a "l’ombra della sera" etrusca. Anche in tal caso, si tratta di una figura (ovviamente femminile: ma ci torniamo tra poco) che si presenta, appare, come un "fenomeno", quasi sorpresa nell’attimo in cui stava per scomparire e, per questo, tende a mimetizzarsi con false ombre, con le nostre illusioni temporali.
Giovanna Riggi è un poeta tattile. Questo del "toccare", manipolare, impastare è una dimensione arcaica matriarcale riconducibile all’originaria struttura dell’analogia tra l’albero (esilità, ombra, vita,intreccio,scorza: le sculture di Giovanna) e la radice-matrice. Ci sono, tra i lavori di Riggi, opere che meriterebbero di essere citate nel corredo iconografico di Neumann. Non c’è dolore in queste sculture o, per meglio dire (per cercare di avvicinarci all’ethos dell’artista) il dolore forse c’è già stato. Ma dolore per cosa?
Credo per la nascita, coscienza del tempo. Si osservino le sculture bendate: quelle sono garze che l’artista mette sulle ferite delle sue creature e che egli stesso provoca senza volerlo mentre le partorisce. Un che, dunque, di affettuoso, di "materno". Ma che stiamo dicendo? Che Riggi genera e medica le proprie ombre? In fondo, sì. E le accudisce,le tiene in quel giardino azzurro tra giochi di cerchi e gorgheggi d’uccelli, un argot silenzioso come si conviene a un’ombra perché,come si sa, le ombre sono mute. La pietà creaturale di Riggi fa sì che l’apparenza cui appartengono le ombre venga fissata, per trattenerla, nel bronzo. Hanno anche un nome ma non interessa,ai nostri fini, che ognuna di loro possa essere la "trasposizione" (e perché non un "trasloco"?) di un personaggio reale, forse anche familiare. Se, anzi, così fosse, sarebbe ancora più intrigante scoprire che, in fin dei conti, la scultura che si chiama "anna" è in effetti l’angelo custode di "anna", la parte oscura, umida - e diciamolo pure:immortale o archetipica - di "anna". La scultrice tende a sistemare i propri pensieri in spazi vissuti quotidianamente: uno studio, un salotto, un giardino. E’ perché vuole produrre oggetti d’arredamento? C’è qualcuno al quale questa integrazione e dialogo tra queste sculture e gli spazi quotidiani piace molto e vede ciò come un dato importante ai fini del valore d’uso dei lavori di Riggi. Per quel che mi riguarda (per lo sguardo, cioè, del lavoro artistico che mi ricambia l’attenzione) credo invece che questi lavori acquisiscano un intenso significato se li immaginiamo occupare gli spazi dove prima c’erano alcune persone impegnate in attività ordinarie. Ognuna di queste persone ha lasciato l’impronta del proprio calore che prende la forma di una statua. Guardiamole in fila, nei vari atteggiamenti. Sono forse reperti, calchi di Pompei? Sembrano altresì danzare come figure di vasi funerari. Ecco che il sole si sveglia dal suo sonno di pomice e indugia un poco su ognuna di loro lasciando nel bronzo il calore di una domanda d’abbandono, un’epigrafe senza parole. Le lascia, cioè, senza parole perché è geloso, se le riprende tutte e alle sculture rimane un’idea di luce, un ricordo, un balbettio, un sì-e-no come la sera. Giuro che ho visto poco fa la stella diana brillare sulle labbra di una statua. Credo fosse il volto di Enea, figlio di quella stella e discendente di costellazioni. Anche questo eroe ha bende sulla fronte, come ustionato mentre scappava dall’incendio. E’ ancora lui che cammina su un Nilo di marmo. E’ sempre lui che assume l’atteggiamento un po’ pensoso e genuflesso del "poeta". Sarebbe possibile vederlo durante un viaggio di ritorno a Troia indaffarato a rimettere sulla nave le figure di sé che ha lasciato a Cuma, in Sicilia, a Tiro, fino a diventare bassorilievo sulle porte Scee, pietra dello Xanto.
Ma, lettore, non aspettarti epica o canto di miti. Aspettati sempre la dominante della grazia e della leggerezza. Forse rassegnazione. Certamente un "rimpianto" di sale in queste creature che si tengono per mano, che si scambiano il mutismo come le ore di un orologio di pensieri, tutte chiuse nella bella immagine di un cerchio di bronzo che qualche filosofo ha tracciato come immagine perfetta del pensiero geometrico o simbolico ma che, nella mani di Giovanna, diventa un altalena.
Provate a sistemare questi lavori in una sala museale che avete già visto e nella quale ricordate che v’erano statue di marmo o d’argilla e vedrete quest’ultime voltarsi e giocare con le sculture di Giovanna Riggi nel cui mondo si individuano due momenti cognitivi ai quali corrispondono due modalità operative, vale a dire due processi, azioni: i soggetti umani si vestono da ombre della sera, si collocano nel sì-e-no, nel già-e-non-ancora (con i correlati metafisici che ciò comporta).Il significato di questo posizionamento "ontologico" rischia (perché è il rischio dell’essere) di connotare i soggetti come oggetti (da qui ciò che abbiamo definito "rimpianto": Tale situazione d’indefinibilità, lo stare stando sul confine non definibile dell’attesa (instabile) produce il bisogno di utilizzare materiali "duri", "reali", forse geologicamente eterni come il bronzo (che è anch’esso un composto, una congiunzione, una "e") il cui procedimento implica l’utilizzo di un modello di cera (instabile, effimero) ricoperto, mediante il fuoco, da un’armatura epica (concretezza catafratta). Ed ecco che abbiamo toccato il nucleo profondo della poetica di Riggi, la metafora che può consentirci di comprendere il come e perché delle sue ombre di ombre:sono figure che hanno uno scheletro esterno. Anche i sogni della conchiglia e del granchio e della pietra hanno il carapace. Ma allora può anche avvenire il contrario di quanto abbiamo immaginato:possono infatti essere come abiti lasciati per abitudine in un posto e indossati secondo l’occasione. Già, ma chi li indossa? E se fossero manichini nella vetrina del sogno?
A questo può rispondere solo l’artista con un si o un no al seguente enigma:"Ci sono ombre di bronzo nel giardino, Giovanna. Sono le tue sculture. Il sole è alto nel cielo. Le tue sculture fanno l’ombra?".

Teresa Mangiacapra

Teresa Mangiacapra

Teresa Mangiacapra
L’icona che , per le sue stratificazioni, mi sembra fondare il lavoro di Teresa Mangiacapra è Soglia, che raffigura due angeli (uno rosso, l’altro azzurro) in atto di aprire (o chiudere) una porta. Le valenze simboliche del soggetto sono troppo note perché qui se ne discuta. Non molto noto è tuttavia il fatto che le porte dedaliche del sogno all’ingresso del tempio di Apollo a Cuma (territorio amatissimo da Teresa) sono una d’oro, l’altra di corno. Il discorso sull’angelo ci porta, con la cometa di angelologia che lo segue, verso ciò che è alato, nel labirinto del rapporto tra i segni -e le tecniche, intese anch’esse come segni e comunicazione.
Esporrò in una cartella A4 -come mi è stato affettuosamente imposto- il mio pensiero e mi tarperò le ali (e la voce).
Ho iniziato con un imput-soglia. Se osservo con attenzione gli angeli in questione, noto che la forma delle ali ricordano (che Teresa lo sappia o no) una bipenne, il che confermerebbe il metamessaggio del labirinto i cui elementi di base sono, in Teresa, una bipolarità che tende all’unità attraverso un lavoro di sottrazione rivolto all’indistinto, al "luogo comune" (inteso sia come luogo fisico, denso di connotazioni, che come icona; in tal caso l’angelo). Si sviluppa, lungo il percorso cognitivo delle immagini, un costante atteggiamento eidetico che riporta a quando ciascuno, col naso all’insù, osservava le nuvole dandovi forme note o inconsuete. Da qui il continuo
esplorare da parte dell’artista i minimalia dove presumibilmente si annidano questi "daktyloi", fino
a entrare nelle cose , nello schermo anche del tufo perché certamente lo spirito della cose è dentro di loro. Dunque, si va dentro, si buca la pietra come si buca il cielo (sempre la Sophia del sopra e sotto) per scoprirne l’energia angelica. L’installazione di lenti d’ingrandimento sulle immagini prigioniere del tufo o che nel tufo si nascondono, obbediscono a questo impulso. La serie di sculture installate su supporti di ferro hanno un po’ l’aria di un trofeo giocoso, di vessilli collocati agli angoli o sulla prospettiva di una parete marina come segnali di riconoscimento ai limiti del territorio psichico.
Mi accorgo, rileggendo questo testo, che avevo scritto "vessilli collocati agli angeli".Sarà un caso?
I materiali usati (legno,ferro,tufo) costituiscono di per sé il linguaggio di una Naturalis Historia del fantastico, di un’evoluzione della specie che ricorda, per alcuni aspetti, i versi di Cavalcanti "’I vo’ come colui ch’è fuor di vita/fatto di rame o di pietra o di legno…".
Abbiamo parlato poc’anzi di "doppiezza" che tende all’uno. Secondo logica, il due è comunque un intero. E’ l’artista a scomporlo nei suoi elementi costitutivi di "due" creando una specie di puzzle di simboli in cui l’uno è e non è senza l’altro. Mi spiego: alcuni lavori sono titolati, in serie, Approdo, Rassegnazione ,e rappresentano gli uni due ali azzurre, gli altri figure senz’ali. Certo, a immaginarle senz’ali sono io e non è certo che l’artista abbia immaginato questo collegamento e scollegamento.
Eppure, l’excursus –peraltro insistente- su ali-approdo vs. rassegnazione/tarpamento autorizza questo pensiero. Il senso mi sembra immediatamente intuibile (a meno che quelle ali intinte di cielo non siano cadute a Icaro, il che complicherebbe -ma rendendola più intrigante- la lettura). Che gli oggetti (ali, figure umane) vengono sistemati vicini o lontani non è importante: ambedue hanno perso qualcosa e non sanno ritrovarsi in forma intera o stanno lì-lì per diventarlo.
Ho quasi scritto una cartella. Devo planare. Lo faccio ponendo un enigma:
- "E se la lente d’ingrandimento fosse quella di un investigatore? Se l’angelo custode della pietra fosse una traccia? Chi ha commesso un delitto?"
- " C’è anche l’angelo della morte y la vida es sueño.Gli angeli sulla soglia sono rosso & azzurro.
Elementare, Watson".

Adriana Del vento e Lucia Gangari

Adriana Del vento e Lucia Gangari

Adriana & Lucia
Quando il grande re Inca Atahualpa adornava se stesso ( e con lui la casta sacerdotale) di oro e pietre colorate intendeva -semplicemente?- far sì che Inti (il sole) al suo sorgere sull’orizzonte lo riconoscesse come figlio. Un fatto,dunque, sacrale e simbolico riscontrabile in tutte le civiltà e che, in fin dei conti, ha a che vedere molto poco con questioni di "abbigliamento" (a meno che, ovviamente, non si intenda "abbigliamento" nel suo valore semantico originario). In altre occasioni (penso ad Octavio Paz e alla sua "Piedra de Sol" che gira come una collana intorno al calendario mesoamericano) l’inca del solstizio legava una corda a un macigno andino, all’altezza dei condor, e immaginava in tal modo di "legare" il corso del sole. Chi produce gioielli, dunque, lo voglia o no, è erede di fascinazioni arcaiche correlate con l’intuizione della "luce".
Nel caso di Adriana del vento e di Lucia Gàngàri, la limitata produzione di "biglie" , trattandosi di artiste consapevoli delle proprie potenzialità espressive, va letta come un sistema di segni e, trattandosi di donne, come pezzi di cielo e di terra con funzione o apotropaica o di amuleto: torniamo nell’area delle streghe e del fascinum.
Gli elementi base, secondo una lettura rivolta al "a cosa serve" degli oggetti continuano a restare nella metafora dell’inca, vanno ricondotti alla fune (la corda per legare il sole) e alla pietra-talismano che, come un pianeta intorno a un’orbita, vi gira intorno.
Credo che molte donne nell’indossare questi sorrisi si trasformeranno in pianeti con molte lune.
In Adriana la natura offre, come fossili del sogno di fiori trovati in qualche roccia d’alta montagna, immagini suntuose, regali, con spinte e controspinte interne che tendono, motu proprio, a formare spirali o a suggerirne, movimenti tellurici le cui linee di forza sono ancora visibili nelle pietre e le libro geologico della costa flegrea. Il concetto di "linea di forza", di "chiave di volta" (il "concio" acconciato, l’ultima pietra inserita nella costruzione ad arco) si esprime con assertività anche in alcuni "assolo" che l’artista produce: collane,anelli, tutti fotografati in pieno movimento, serpentini. Del resto, tra Eva e il Serpente mi pare che ci sia una stretta complicità. I colori tendono all’arancione, il colore del secondo chakra, quello che significa "io costruisco".
Il Lucia abbiamo atmosfere, meditazioni, logica e tenerezza: le pietre sono quasi accarezzate dai fermagli che le incastonano, ogni colore rinvia a strati del pensiero e i pianeti devono stare attenti perché, se si distraggono, le lune scappano dall’attrazione. Che vi sia logica è un dato indubbio rilevabile dalla geometricità delle cornici (cerchi,rettangoli,quadrati) legate a supporti che o sono ami (e in tal senso lucia pesca le pietre in acqua. Ma di quale mare?) o sono punti interrogativi:
Guardate il dialogo muto tra il nero, coi suoi granelli di sabbia, e l’azzurro con le sue venature di silicio, toccate l’idea della Terra che genera, in quanto terra, le Pietre. Ho detto "guardate", "toccate". Mi verrebbe da aggiungere anche "assaggiate" perché si tratta di grani di sapienza sottratti a un mare che, senza questi gioielli, non è più salato.
Adriana e Lucia si propongono al visitatore "insieme", a quattro mani, come una famosa icona orientale. Ciò arricchisce le combinazioni di senso dei gioielli in quanto si viene a creare, nel brusìo di penombre il sottofondo di un doppio monologo in cui tu che leggi sei ascoltatore e protagonista.
Chiudo queste note, come in genere mi càpita, con alcuni versi.
Ovviamente un gioiello richiede versi adatti sia per forme che per tecnica e profondità.
Scelgo allora un haiku:

gioielli al collo.-
hanno molto da dirti
la pietra e il sale.

Mimmo Grasso


Articolo pubblicato il 21 luglio 2005