Arte

La biografia di Mimmo Paladino
La biografia di Brian Eno
Opera per l'Ara Pacis. Mimmo Paladino. Musiche di Brian Eno
Ara Artis di Achille Bonito Oliva
Conversazione con Mimmo Paladino di Federica Pirani
Necessità e bellezza di Ferdinando Scianna
Paladino/Eno all'Ara Pacis di James Putnam
Breve introduzione alla musica generativa di Brian Eno di Michael Bracewell
Eno. La musica della mente di Paolo Zaccagnini

Necessità e bellezza

di Ferdinando Scianna

Seguire Mimmo Paladino mentre prepara un'opera, installa una mostra, è per me un'esperienza sempre speciale. Speciale perché dentro di me agiscono stimoli complessi e incrociati. C'è l'affetto per l'amico, l'ammirazione per l'artista, la curiosità di assistere al movimento costante di un processo creativo sempre inatteso, sorprendente, l'appagamento intellettuale di sentirmi partecipe di una ricerca incessante, che calandosi negli azzardi di un luogo, di un problema spaziale, di una luce, una parola, una suggestione, può in qualsiasi momento cambiare direzione. Figlia apparente del caso che ogni volta rivela invece motivazioni e meditazioni profonde, complesse, e produce risultati necessari.
Proprio questo soprattutto mi incanta e mi intriga: l'intuizione che si trasforma in pensiero, necessità.
Necessità e bellezza. Perché Paladino non ha, come molti artisti contemporanei sembrano avere, paura della bellezza. Insomma, un vero godimento per un fotografo.
L'istallazione della mostra all'Ara Pacis l'ho seguita quasi dall'inizio.
Tutto sembrava procedere da un progetto prestabilito. Quei terribili e magnifici uomini bruciati, faccia al muro, i tragici frammenti sparpagliati sulla lunga parete bianca, erano contemplati da Mimmo attraverso il velo del fumo delle sue eterne sigarette. Il suo occhio, il suo cervello, la sua sensibilità, aspettavano, solitari nell'agitazione circostante degli istallatori, che gli venissero rivelati i segni che quegli oggetti avrebbero messo in relazione attraverso un tessuto grafico che li avrebbe trasformati in un testo visivo e narrativo unico, ogni volta diverso come diverso è il luogo ove il fatto estetico si produce, in una commistione di elementi grafici, scultura, teatro, racconto.
Il lungo, scuro treno di ferro, ceramica, figure, elementi onirici, dolore, sabbia, materie diverse, memoria, era già stato istallato, sembrava definitivamente. Ma niente è mai definitivo in una mostra di Paladino.
Lo vedevamo incessantemente muoversi da un elemento all'altro, da un fatto spaziale all'altro.
La mattina dopo, come se la notte gli avesse imposto una rivoluzione, il treno è stato spostato in tutt'altra collocazione di spazio e di luce. Uno spostamento che immediatamente si è rivelato necessario e che, per esempio, mi ha fatto scoprire all'interno dello straordinario giacimento di suggestioni e immagini contenute dentro quest'opera, nuove immagini, nuove suggestioni.
Questo spostamento ha però naturalmente significato che tutta una parete, tutto uno spazio prima occupati dal treno erano rimasti vuoti.
E qui che cosa ci metti?, ho chiesto incuriosito. Ora vediamo, è stata la risposta, poi ha aggiunto una vaga ipotesi su alcuni grandi pezzi che avrebbe fatto recuperare a Paduli.
Al mio ritorno, dopo alcuni giorni, per completare il lavoro di documentazione per il catalogo, ho naturalmente trovato una cosa completamente diversa e straordinaria. Tutta quella fantastica parete di scarpe e uccellini in cui la grazia e l'inquietudine davanti a quelli che sembrano relitti di un campo di sterminio si coniugano misteriosamente. Tanto più misteriosamente perché questa nuova presenza agiva dialetticamente con gli altri pezzi arricchendone e variando il senso di ogni singolo elemento come della totalità della mostra.
Più volte ho visto mutare anche il senso della “cripta”, dove è bastato un piccolo “incidente” elettrico, per esempio, per fare scoprire a Paladino una nuova possibilità e gli ha fatto abbassare l'intensità finale dell'illuminazione inventando una emozionante, rossa, intimità da luogo di culto.
La grande ruota l'avevo lasciata impacchettata e la ritrovavo ora collocata trionfalmente di fronte all'Ara. Dialogo spericolato del nero con il bianco del monumento, del cerchio contro la struttura quasi quadrata dell'altare. Oggetto che anche lui sembra essere stato appena estratto dalla memoria dei secoli per raccontarci attraverso i suoi segni nitidi e indecifrabili il linguaggio di un culto perduto per un dio sconosciuto.
Insomma per me il privilegio fortunato di avere partecipato, da fotografo, all'avventura di quella reinvenzione del sacro che ancora, per quanto raramente, può essere un'opera d'arte.