Arte

Celeste Psichiatrico Erotico

di Flavio Arensi

In occasione della mostra di Jean Rustin
A Legnano (Mi) e Gemonio (Va)
Dal 14 aprile 2007

"Se credi in Dio e non esiste un Dio,
allora è la tua fede miracolo anche maggiore.
Allora è davvero qualcosa di incomprensibilmente grande.
Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre ed invoca qualcosa che non esiste?
Perché così avviene?
Non c'è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. Ma perché la voce esiste?"

Pär Lagerkvist1

Ritratto di uomo, 2002

Jean Rustin
Ritratto di uomo, 2002
Acrilico su tela
Dim: 41 x 27 cm

Mai, come nei quadri di Jean Rustin capita d'incontrare tante facce idiote che osservano col pretesto di cancellare o ridurre la propria esistenza in favore forse di una promessa migliore. Sono spesso bozzoli umani, procombenti in un campo dissodato, personaggi curvi e stanchi che attendono di lasciare il mondo, non senza prima aver proferito almeno un'onesta maledizione a ogni uomo di buona speranza, come dire: "Sia dannato il frutto del ventre tuo, e che tutti vadano a morire ammazzati". Spersi in stanze vuote, dove gli elementi parietali, come la presa elettrica o il pertugio accostato di una porta - mai veramente chiusa - restano gli unici codici distrattivi dello squallore d'una presenza abbandonata da se stessa prima che dagli altri, senza dunque neppure cercare quell'alterità di vite o presenze di ogni normale biografia, se non di quando in quando, nel rapporto erotico e sessuale di coppia oppure nella masturbazione, attimo di lucida o tragica cognizione d'esserci in un pur frenetico hic et nunc, ponendo finalmente tali idioti figuri a contatto con un qualsiasi piacere, seppure autoindotto, tale almeno da illuderli di esserci, e in ciò sta la rivoluzione.

Sul letto, 2002

Jean Rustin
Sul letto, 2002
Acrilico su tela
Dim: 54 x 65 cm

Si dovrebbe tentare, non dico di esprimere ma, almeno, di dare forma al rifiuto che immediatamente i soggetti sembrano chiedere per sé, un rifiuto utile a noi per tenere lontano questi paria dipinti (manca soltanto il campanaccio d'obbligo ai lebbrosi sulla strada da Gerusalemme a Gerico). Potrebbe trattarsi di un loro estremo e coraggioso atto di resistenza giustificato solo perché necessario alla rappresentazione di qualcosa d'inesprimibile in altra forma; senza la seccatura del loro cospetto, senza il disagio del loro starci dinnanzi, non avvertiremmo il comune e congenito tribolare paranoico. A stento, nei compìti schemi astratti degli anni sessanta, Rustin fa emergere l'essenza della disamina sociologica e sociale che invece conclude nel contesto figurativo. Il rigetto dei formalismi estetici astratti significa - non ex abrupto ma con lenta maturazione - la rinuncia ideologica di un'arte comprensibile soltanto se intesa come non mimetica e dotata di significato autonomo, vicina cioè all'intento di Paul Klee2 secondo cui "l'arte non restituisce il visibile ma rende visibile": perchè autogenerante, inderivabile da modalità esterne del vedere (per altro seguendo i dettami di Konrad Fiedler). Gli esercizi figurativi di Rustin principiano dai limiti della produzione precedente, dal sentito astratto, un'informalità dell'infanzia che edulcora il reale, quantomeno l'incontro con esso, distolgono dall'esperire il mondo, lasciando alla fantasia l'ufficio d'illustrare l'esistente. Il mutamento che avviene negli anni settanta recupera la presenza sull'assenza, il visibile sull'invisibile, forse attorno ai dibattiti che occupano gli scritti di Maurice Merleau-Ponty e Jean-François Lyotard3; all'ultimo Rustin s'avvicina per alcuni caratteri di postmodernità, ma soprattutto per l'analisi tra corpo e parola (silenzio), tra percezione e impercezione, tra parola e immagine, ciò che il filosofo chiama l'ordine del discorsivo e figurale. A partire dal 1970 la produzione di Rustin trasforma le connotazioni liriche in favore di una sempre maggiore presa di carnalità. Accade ugualmente nelle opere e nei tempi di Georg Baselitz (artista tedesco a lui più accostabile in tale frangente), nel sovvertimento della prospettiva e nelle mutilazioni degli anni settanta, il medesimo sbocconcellare i corpi come masticandoli e poi vomitando gli avanzi sulla tela con un lessico ancora espressionista-astratto. Per il francese, tuttavia, il recupero dell'indagine sull'uomo in termini figurativi (e figurali) pare, di fatto, il tentativo di ghermire il mistero delle cose, di annullare gli arzigogoli intellettualistici, recuperando le costruzioni semplici di Masolino o Piero della Francesca, riducendo quella straordinaria "menzogna" che è il procedere della pittura fra quinte scenografiche (oggi diremmo cinematografiche) di storie poco complesse. Nel contempo Rustin spazza la graziosità di molta estetica contemporanea che per esempio domina da Klee a Cy Twombly o in buona parte della scuola informale parigina, e che di certo non soddisfa il nuovo impegno analitico del pittore.

Vicino al quadro elettrico, 1996

Jean Rustin
Vicino al quadro elettrico, 1996
Acrilico su tela
Dim: 130 x 162 cm

Vi è dunque il ritorno alla figura (e alla scena di figure) imparato all'Accademia, tuttavia nel rinnovato proposito di riforma esistenziale che per esempio manca nelle perfette elaborazioni anacronistiche del maestro Nicolas Pierre Untersteller (il cui Concert champêtre - Grand prix de Rome de peinture d'histoire, 1928 - allestisce la giorgionesca, tizianesca, courbetiana, manetiana comparsata di personaggi nudi in un irreale teatro bucolico che può ben apparire una sfida tanto fastidiosamente psichiatrica e idiota, dunque antipodicamente identica e claustrofobica a quella dell'allievo).

Come Francis Bacon, Rustin siede al limite di una frontiera da cui il puzzo della degenerazione spande con una certa forza in ogni rotta, senza togliere dignità alla nostra storia di esseri piccini, bensì mostrando i termini di quella caduta che può sempre occorrere e che forse capita a ciascuno. Perché d'altronde tralasciare l'angustia o l'impossibilità di essere diversi da ciò che si è, nella denuncia di miseria che diviene accettazione piena della propria inadeguatezza? Eppure egli continua a rappresentare l'uomo, non lo tradisce, lo situa nel tempo sospeso di un'attesa o di un incontro epocale appena dopo un avviso straordinario (torna alla mente l'atmosfera statica eppure vibrante dell'Annunciazione narnese di Benozzo Gozzoli, dove tutto è già stabilito e nulla più si concede al fato). D'altra parte, proprio il mistero, e appunto il rischio dell'incontro, stravolge le fisionomie dei bamboccianti di Rustin, posti lì, di fronte a un obiettivo che non lascia scampo alla pietà. Talvolta sembrano condannati alla gogna della propria miseria, seduti alla fermata di un destino che non vuole passare, o quantomeno raccoglierli. Per caso o per dispetto sono i protagonisti di una storia più grande di loro, comunque alienante, impantanati nel loro sopravvivere per chissà quale miracolosa eccezione; come Barabba, il primo uomo salvato dalla croce, senza tuttavia essersene reso conto, così come questi personaggi dipinti sono recuperati e redenti dal loro autore, o forse definitivamente dannati, pur non accorgendosene.

Donna davanti alla finestra, 2001

Jean Rustin
Donna davanti alla finestra, 2001
Acrilico su tela
Dim: 55 x 38 cm

Metonimie dei tempi peggiori, correlativo oggettivo del consorzio umano, testimoniano chi non riesce a vedere, l'insaziabile ricercatore della verità che, non trovando salvezza nella fede, la reperisce forse nel dubbio, finanche nella miseria, e dunque cammina sul limitare di un baratro che tocca d'essere sfiorato da chiunque di noi, e per noi intendo l'intera congerie terrena.

Forse la barbarie è proprio adesso, lo è in ogni atto disdicevole della storia contemporanea. Sussistono d'altronde piccole miserie che attanagliano, peggio di un grumo vischioso, il glottide con una paura ricorrente, in una notte di tormenti e sonni rinviati. Strano animale l'uomo che, con le sue esigue tarature, la sicurezza d'essere tanto grande da poter infrangere le debolezze altrui, e con i residui aguzzi dei suoi miseri bottini, costruisce impalcature sempre più alte in gloria del suo piccolo niente. Eccolo, immobile e assorto di fronte al destino, berciando talvolta come una bestia stretta all'angolo del cortile, con la rabbia di chi davvero trema di timore, senza ammetterlo, senza la percezione d'esistere al di là di ogni vano motivo: questi bamboccianti idioti sono compressi fra mura cilestri, corridoi di istituti manicomiali, psicodrammi recitati senza diletto, per necessità di esistenza. E Rustin è tanto spietato da metterci un'ombra velata d'ironia leggera, l'abbozzo di un sorriso che duole, che dovrebbero colpire ogni spettatore quando discostia lo sguardo da costoro e con costoro si sentae sui margini del burrone spirituale. Il nosocomio che qui si inscena, nei connotati rovinosi di presenze più che esistenze, chiude l'anima in un cantone dolente e mette in risalto l'intera pochezza di una vita in cattività; gente che tace, forse urla nell'animo e si dibatte sui letti o contro le piastrelle gelide del pavimento, senza però (poter) fuggire, uscire dall'alloggio per provare almeno a prendersi questo dannato rischio di vivere, con angosce e strazi del caso, ma pure esaltazioni e piacevolezze. I più fortunati sembrano i masturbanti, chi alla fine si basta o, magari insoddisfatto della miseria di una camera senza fughe, cerca l'evasione momentanea e furiosa di una parentesi erotica; resta tuttavia il grido di parole silenziose, le facce stordite e stordenti di protagonisti dalle traversie squallide, talvolta sostenuti dalla compagnia di altri disgraziati e di un buio intimo più che esteriore, l'azzurro negato a ogni possibilità di fiducia. Un celeste che è disperante e attacca alla gola, forse rende apposta afoni e imbecilli. Vittime sacrificali con cui il destino gioca ai dadi. Come Giobbe perseguitato: "Ecco, tutto ho preparato per il giudizio, son convinto che sarò dichiarato innocente"4; anche i derelitti di Rustin sembrano incriminati da una giuria già orientata a comminare una pena senza termine di scarcerazione, al limite della forca, dove lo strazio di scampare lacera più del pietoso assassinio. Tutto è vacuo; persino ribellarsi diviene inutile? Meglio sospirare e forse indugiare? Forse disperare. D'altronde, anche il Dio di Giobbe non rassicura, anzi dimostra l'insignificanza umana nell'ambito della Genesi, aizza Leviathan e Beemot contro un innocente, "disconferma" la sua partecipazione alle vicende dell'uomo o a una realtà significativa soltanto all'interno di un progetto umanamente incomprensibile. Rustin non si occupa di conoscere a quale altare si benedicano offerte per piatire una tregua all'esistenza, piuttosto, come Pär Lagerkvist, s'interessa della voce che cerca risposte e, pur non trovandone, insiste a sollevarsi: "Non c'è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. Ma perché la voce esiste?". Perché continuare a inveire una supplica quando gli dei non si occupano degli uomini, e non invece fermarsi e presto ritrovare nuovi sentieri da battere o altre direzioni d'esplorare? Il silenzio grigio-azzurro di Rustin pare scandire il blocco della bussola, l'incapacità di mirare in qualsiasi verso, ma intanto farlo, avanzare il primo passo verso la vita, smettere d'appellarsi, semplicemente ammettere il rischio esistenziale. Avrebbero - gli idioti rustiniani - necessità d'apparire sani, se non d'esserlo veramente. Sani neppure sembrano o sono. O meglio esibiscono una propria sanità agghiacciante, autoreferenziale, tesa e concentrata sul loro microcosmo: un pezzo di mondo che esclude astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nel finito di una stanza. Come i grotteschi e volgari omuncoli sordidi di Pieter Van Laer (grotteschi e volgari lo erano per i nobili incipriati) costringono ad abbassare lo sguardo sul degrado umano sino all'insignificante vita comune di ogni giorno, così i bamboccianti di Rustin obbligano il pubblico - adunato ai piedi del loro gran teatro manicomiale - a schifarsi, ritirarsi, commuoversi e pensare. Finanche divertirsi, e un poco eccitarsi di fronte alla sua inoffensiva grammatica di organi sessuali.

Rustin spesso sorride zitto, con le braccia converse appoggiate poco sopra lo sterno, quasi a tener schiacciate le viscere e i ricordi lontani e presenti della sua storia: dipinge serrato all'ultimo piano di un anonimo grattacielo a Bagnolet. Compulsivamente, in uno spazio che tanto raccoglie il panorama largo della periferia francese e tanto stringe la veduta psicologica all'interno di una (oltremisura) compressa cella di prigionia dell'essere, i Piombi invalicabili dell'umana indigenza: e qui raccoglie a coorte un ammasso di celebrolesi, di larve maniacali, adolescenti aggrappati a una parentesi autoerotica, psichiatrica, azzurra, annichilente. Così procede l'armata di Rustin, come uscita dagli sberleffi di Honoré Daumier, ma senza quell'aria da paraculi noiosi, imbellettatati, ruffiani, e improvvisamente, ciò che più pesa al respiro è la fatica di negarci fra quella risma, accampando non una ma due, tre, mille scuse per ciascun quadro, per ciascun cialtronesco untore messo sulla tela, e giustificare la nostra presenza al loro cospetto, per dire che no, noi con loro non c'entriamo nulla. Non abbiamo quella faccia imbecille con le pupille dilatate; non le pose di bachi da seta e spettri; non lo sguardo sprecato in ansie stordenti; non azzurri; niente di loro, tutto di loro. Rustin osserva, come un giudice di corte inglese, con quella distanza che è neppure la corda per il cappio; talvolta sorride e forse pensa: "Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre e invoca qualcosa che persino esiste?"

1. Se credi in dio e non esiste un dio, in Pär Lagerkvist, Poesie, Guaraldi, Nuova Compagnia Editrice, Forlì 1991, p. 115

2. Paul Klee, Confessione creatrice, Abscondita, 2004

3. J.-F. Lyotard, Discorso, figura (1971), Unicopli, Milano 1988

4. La Sacra Bibbia - L'Antico Testamento - I Libri Poetici e Sapienziali, Giobbe 13: 18.