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Dal caos alla quiete e ritorno
Di Flavio Arensi

Gianfranco Ferroni (1927-2001) incise la sua prima lastra nel 1957, e non è un caso questo sia un anno cruciale nella pittura, ossia quando il rifiuto del Realismo sociale si affievolisce lasciando spazio alle ricerche ormai classificate come Realismo esistenziale. La matrice incisoria di Ferroni è avvertibile in molti suoi lavori, a cominciare dagli interni di studio, da alcuni ritratti verticalizzanti, e poco oltre con le città, dove il segno diviene una prerogativa linguistica fondamentale, tanto di allargamento semantico, quanto di ricerca estetica. La prima incisone del 1957 è una Periferia, e prende in esame una tematica affrontata con dovizia da altri colleghi dell’ambiente milanese, fra tutti Giuseppe Banchieri, che porta all’esasperazione dei grigi il contesto suburbano. Quella di Ferroni rimane un tentativo di scavalcare l’impronta realista di certi elementi passati addentrandosi nel senso intimo dell’informalità, ripresa qui per gesti minimi, ambientali più che stilistici. Ma se si osservano le nature morte o le città ritratte successivamente, allora la libertà di Wols o di Giacometti testimoniano l’incedere nuovo di questo artista. Qualora si esamini la lastra Città e personaggio del 1961 si coglie il ripetersi del clichè della Periferia del 1957, con l’emersione di una fisionomia umana ai bordi dell’inquadratura, tuttavia l’ordine realista della prima immagine è sovvertito totalmente dalla confusione orchestrata dell’ultima. A differenza della regolarità che delinea il soggetto in Giorgio Morandi, Ferroni predilige i pieni, cerca le masse, le confonde nel nero pecioso dell’esistenza. Di recente, da una conversazione con Giancarlo Cazzaniga, suo compagno di atelier, è emersa la consuetudine d’entrambi, dettata anche da motivazioni economiche, di giocare i dipinti su grandi macchi bitonali di cementite bianca o nera, poi velata dal colore ad olio. Il risultato sono masse per lo più scure che rendono molti personaggi, oratori ed elementi di nature morte, fantasmi emersi dalle tenebre. Nell’incisione questa esigenza è tradotta nella semplicità del mezzo e si addensa di sapore inchiostrale, di dramma postbellico. La Città del 1959, è come un formicaio schiacciato dal cielo, una ragnatela che diviene elemento celeste. Un cielo che nella sua pittura tratterrebbe i colori cilestri della malinconia, e qui invece, nel contrasto del bianconero, diventa di un pallore talvolta tetro. Il vuoto, per altro, emerge proprio dall’intrico di solchi e sentimenti, e anche nei lavori degli anni Settanta, quelli direttamente successivi al Pavimento (1975) e alla Stanza vuota (1976), sono spazi che trovano nell’assenza un motivo per sopravvivere, quasi per svuotare le precedenti opere strabordanti di eventi, ricordi, scorci. Di certo, nell’opera di Ferroni, e a questo punto sarebbe difficile continuare a distinguere fra pittura e incisione (quanto mai complementari), si nota come il paesaggio esterno, le vicende umane in esso conchiuse, tenda col tempo a trasferirsi sempre più nell’intimità del chiuso. Anche i capolavori degli anni Sessanta, i racconti di situazioni, sono frammenti caleidoscopici di sentimenti e condizioni di vita, man mano epurati e sempre più astretti a una condizione minima, quella del cavalletto o della stanza come elementi autobiografici, o di autoanalisi. Ma il Ferroni più libero, quello che ancora cerca un orizzonte, è questo delle prime incisioni, delle città esplose e dolenti. Poi, questo orizzonte lontano diventa un panorama di quiete interiore, Tradate e il nido famigliare, Massaciuccoli: la città diviene elemento vegetale. E seppur le sue opere millantino una quieta silenziosa portata all’estremo, c’è sempre un segno di disordine che fa precipitare il rigore. Ma la vita è così, un oceano di calma talvolta mossa da un uragano.


Articolo pubblicato il 3 novembre 2005