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Una disperata pazzia

Di Flavio Arensi

"Se ci rammentiamo della nostra comune follia, i misteri scompaiono e la vita riceve una giustificazione"
Mark Twain

Che giustificazione offrire alla necessità di raccontare le nostre intime condizioni esistenziali se non l’impellenza di saperci meno soli, profughi e compagni aggrappati alla stessa zattera in balia delle onde, zattera di folli, folli nell’ora estrema della crisi? Giovanni Paganin per tutta la vita svolse il mestiere dello scultore, mantenendo il proposito di affermare il senso della sua presenza in terra, una testimonianza personale strillata nella selva di frastuoni sociali ed estetici dell’Italia postbellica, dove ciascuno rabberciava una via di scampo alternativa ai malesseri quotidiani. La sua testimonianza diretta spiega con efficacia il rigore di un proposito portato a ragione dell’intera carriera, anche nella solitudine degli ultimi tempi, quando la generazione dei compagni assottigliava le schiere lasciando spazio ad altri interpreti, altre esigenze: "Pure resta da dire qualcosa, resta da dire che la scultura, oggi, di questi tempi tanto calamitosi, in questa profonda crisi di civiltà, ha ben poche ragioni d’essere, se non fosse per la disperata pazzia di qualcuno, la disperata pazzia di dire, gridare, testimoniare comunque la fede nell’uomo. Gridare la propria fede di uomo negli altri uomini, testimoniare la propria condizione di uomo che vive e opera tra il vivere e l’operare degli altri uomini, che si vede e si sente vivo attraverso, per i fantasmi, che questa realtà nel suo spirito fa balenare e le mani muove a concretare, che si sente vivo per le disperate ansie e speranze, che il vivere giorno per giorno di questi tempi, dentro la sua anima, il vivere di ogni giorno ricrea". E allora aveva ragione l’amico e collega Giovanni Testori - nella sua teatralità meditabonda, in quella specie di percolato amletico riposto nelle parole - ritenendolo fra tanti autori uno dei più "attaccati alla vita; attaccati non già per salvaguardare il proprio passaggio, ma per redimere lei, proprio lei, la vita". Da qui si dovrebbe partire, infatti, dalla concessione che l’artista offre all’esistenza, nell’interesse di argomenti femminili, reiterati durante la lunga carriera artistica: dai lavori esposti nella Bottega di Corrente nel 1941 (Nudo accoccolato, 1940), ormai nel deflagrare della Guerra, fino all’inesausto ciclo delle Ossesse, cui lavora nei mesi precedenti alla morte, quasi a chiudere circolarmente un assillo durevole e mai deposto. Non a caso Marina Pizziolo le celebra quali "fragile testimonianza a resistere", in uno dei testi più intensi e lucidi scritti sull’opera dello scultore. Una fragilità che è appunto tipica della memoria, di chi comunque intende lasciare una traccia, negando l’insidia delle stagioni e della polvere che cancella, secolo dopo secolo, qualsiasi presenza. Le prime icone femminili s’inseriscono appieno nel clima dell’epoca, partecipando di un’indagine allargatasi nel circuito milanese, non soltanto di Corrente, fra tutti quegli autori che in queste immagini reperiscono la via di scampo a Novecento e alle avanguardie storiche europee. Dunque non soltanto la vicinanza ad Arturo Martini, quantomeno nell’aspetto tematico, bensì la rappresentazione del sentire teorico di molti coetanei che ritrovavano nel femminino il modello migliore per ricominciare a fare arte, e farla in contrapposizione alle modalità imposte dal Ventennio. Perciò, le donne di Gino Meloni, quale assaggio straordinario della fuoriuscita dall’impasse del picassismo, e nel contempo la ricerca meticolosa di Bruno Cassinari, Ennio Morlotti e il più giovane Giuseppe Ajmone (questi ultimi partecipi come Paganin del manifesto Oltre Guernica), con le loro maternità pittoriche più o meno acerbe; e ancora, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, e dunque nel segmento temporale più coevo di Paganin, le potenti statue lignee di Alfredo Chighine (Cacciata di Eva, 1947). Una prossimità che racconta del proficuo scambio di immagini e idee nella Brera degli anni Quaranta, dove le soluzioni estetiche adottate da artisti stranieri, gli espressionisti sicuramente, e nel caso della scultura, Ernst Barlach, Ossip Zadkine e Jacques Lipchitz (per citarne alcuni), penetravano filtrate attraverso una sensibilità assolutamente padana. Non si capiterebbe - di converso - come mai la materia della scultura di Paganin cambi nel corso degli anni Cinquanta durante il manifestarsi della propensione informale lombarda che egli assume, pur all’interno di una assidua figurazione, nell’affastellamento della superficie scultorea (Figura virile, 1956 circa), in quella sorta di taches che il paesaggio di Morlotti rivela poco prima nelle sue Imbersago. La pelle delle sculture di Paganin non è mai stata classicamente liscia, certe butterazioni dipendono inizialmente dalla sperimentazione di alcuni materiali (per esempio la pietra oppure il legno con le sue scalfittura, entrambi usati non soltanto come richiamo ad una koiné della montagna quale luogo d’appartenenza originaria bensì come elementi espressivi autonomi), quindi - nella metà degli anni Cinquanta - per diretta derivazione delle indagini appena richiamate nel campo dell’Informale milanese. Più tardi, a cavallo del decennio successivo, la superficie diviene non soltanto mossa ma addirittura corrosa, lavorata da un dolore emerso improvvisamente, in ciò che Testori annotava alla stregue di "frane d’ombra" nella sua consueta suggestione pestilente e varalliana: sono opere dedicate alla Resistenza, ai dolori bellici che deformano temi per altro già proficuamente elaborati, come le maternità o le figure bibliche (Ostaggio, 1960, Fucilato, 1962, Cristo alla Colonna, 1963). Adamo ed Eva sono due caratteristiche immagini di Paganin più volte impegnato a descriverne la cacciata dall’Eden, scegliendo la metafora antica quale condizione dell’umanità presente, in un orizzonte di lettura tragica che trova nel 1962 approdo e sintesi nella Cacciata (e poi in Cacciata II): qui i corpi dei progenitori biblici sono lanciati nello spazio vuoto come vittime dell’esplosione di un ordigno bellico, in modo scomposto - per la prima volta senza una struttura narrativa orizzonte - rappresentando il distacco da Dio alla stregua di una deflagrazione che mescola sentimento civile e religioso. Si tratta di una modalità del resto già sfiorata in passato nella sovrapposizione fra la vittima della guerra e il Cristo, secondo uno schema seguito negli anni di Corrente da altri come Aligi Sassu, Manzù, Guttuso. La scelta del mito, sia biblico o pagano, è d’altra parte necessaria per trascendere la deludente realtà del mondo e giungere invece alle terre dell’intimo, dove le ferite del passato riescono (parzialmente) a rimarginare; così il modellato si forma d’incrostazioni meno profonde e le ombre assottigliano, ma non crollano. Alla cicatrizzazione epidermica del modellato segue l’ulteriore approfondimento dei temi tratti dalla Genesi, sempre virati in forza della sua antropologia del sociale, entro cui prende parte il mito come trasposizione del vero quotidiano. Si addensa l’eco del passato classico nella modernità di autori contemporanei, fra cui Marino Marini, mentre sovviene una enfasi meno sofferta, più levigata, cui si ispirano opere come il Portatore di luce (1973), o il Re pastore (1970-78), che disponendo di una grammatica antica sono comunque foriere di modernità. In tali atmosfere, forse persino più serene - o per lo meno più rasserenate stilisticamente - Paganin continua a scegliere motivi etici legati al suo recente passato, dal quale emergono periodicamente soggetti ed idee. Il ciclo delle Cadute, nel pieno degli anni Settanta, riprende l’impianto della Cacciata, sottolineando ancora più ferocemente la disillusione e il male di vivere umano, un male certamente autobiografico. La sospensione aerea delle sculture, il loro piegarsi come fili d’erba strapazzati dal vento, nell’impossibilità di resistere alle spire del destino, evidenziano la fragilità dell’essere che decide di chiudersi nell’orrore della memoria. Se negli anni Sessanta i personaggi di Paganin erano "esseri immobili e incrollabili in mezzo al franare di una situazione in cui l’uomo contemporaneo è coinvolto", secondo la definizione di Mario De Micheli, ora divengono instabili presenze di confine fra la morte e la vita, non più eroi o martiri, semplicemente esseri sbalzati nel vuoto senza possibilità di reazione. La lunga sfilata di nudi maschili, che prendono il sopravvento su quelli femminili, sono immagini di crisi, non permettono alla speranza di manifestarsi; speranza di una nascita, dunque del futuro e dei cambiamenti che ne concernono. L’ultimo ciclo di opere (probabilmente inconcluso e di cui alcuni esemplari sono in terra cruda) s’intitola Ossesse - oppure Eve, nella dicitura archivistica postuma del figlio - conduce l’aspetto disperante del disagio nell’alveo originale del soggetto femminile, a quelle Eva in pietra che si coprivano il volto, e soprattutto gli occhi, per non vedere il risultato del loro improvvido gesto di sfida al Creatore. Nel caso delle Ossesse la denominazione apre uno squarcio amaro sulla condizione esistenziale dell’uomo secondo Paganin, proprio nell’assillo della sconfitta che è parte della vita, ma non la vita stessa: una condizione gridata all’intero consorzio terreno nella convinzione di potersi sentire meno soli, o comunque di richiamare qualche compagno di cammino col quale condividere la disperata pazzia dell’esistenza.


Articolo pubblicato il 29 ottobre 2005