Arte

Oportet enim

di Flavio Arensi

In occasione della mostra Maurizio Bottoni
Asiago (Vi) - Galleria Nino Sindoni
Corso IV Novembre, 117 - 36012 Asiago (Vi)
Dal 30 luglio al 31 agosto 2006

Non avere un Dio
Non avere una tomba
Non avere nulla di fermo
Ma solo cose vive che sfuggono -
Essere senza ieri
Essere senza domani
Ed accecarsi nel nulla -
- aiuto -
Per la miseria
Che non ha fine

Antonia Pozzi

Diviene attuale, nelle opere di Maurizio Bottoni, la meditazione sul sacro, non soltanto nei termini naturalistici finora intrapresi, bensì come racconto della passione di Cristo, coi simboli essenziali del Calvario: la Corona di spine (pag. 24), la Veronica (pag. 25), il corpo deposto (pag. 22, 23). La luce tesa e radente delle vallate boscose, o il germogliare lieve della vita nelle zolle, e ancora le nature morte palpitanti, le immagini drammatiche dei fiori recisi, trasmutano dunque nella compassionevole complicità del dramma umano. In passato, l'iconografia cristiana (nelle Vanitas o nella decollazione in veste del Battista) formulava il topos ideale per un dialogo autobiografico con la pittura data per morta o sacrificata alla leggerezza della scienza contemporanea, nuova Salomè danzante ai piedi di Erode; era il dibattito serrato - di attitudine filosofica-estetica - fra nichilismo e tradizione. Anche l'ironia fungeva da contorno narrativo all'immagine, amplificandone il senso divertito, soprattutto nell'atmosfera umbratile del Teschio con sessanta mosche (pag. 19), certo non nella macabra dimensione di Jacopo Ligozzi, piuttosto nel rigore freddo della pittura nordica, come nella celebrazione personale di un se stesso mutilato, posto sul piatto del sistema artistico (magari coi critici e i galleristi tenutari equivoci del moncherino). Di converso, tanto nella Corona quando nella ostensione del cadavere mutilato dalla crocifissione, oppure nel biancore della Veronica, presago dolente della morte, Bottoni semplifica l'ambito metaforico riducendolo a narrazione serrata dell'evento storico, senza concedere spazio alla drammaticità teatrale di cui certe immagini potrebbero avvalersi. Le membra scorticate dai colpi di flagello del Cristo sono ripulite dalle eruzioni ematiche, la nudità riporta lo sguardo sul piano umano, e l'occhio dell'osservatore è indotto con pietà ad assistere all'omicidio del Figlio di Dio, impotente, chiamato a riferirne l'olocausto come un qualsiasi testimone condotto all'obitorio per riconoscere la vittima di un crimine. Gesù giace su un telo bianco, come nel 1989 il san Sebastiano (che valse la vittoria del Premio Suzzara), stagliava contro un lenzuolo del medesimo candore, lo stesso su cui pochi estremi fisionomici annunciano il miracolo del santo volto; tanto Sebastiano appariva privo di ferite e doglianze, in un esercizio pittorico puro dove corpo e contesto condividevano le identiche tonalità, quanto il Cristo piagato contrasta con la pulizia essenziale dell'ambiente: in quest'opera la corona di spine è simile a quella che compare nell'omonimo quadro, sormontata dal cartiglio "oportet enim" (pag. 24) che identifica non soltanto il compiersi del destino di Gesù, ma quello di ogni essere vivente, ognuno carico della propria condizione e del progetto divino cui adempire.

Sempre l'interesse per il peculiare, pur all'interno di una cornice complessa di elementi iconografici, dimostra l'affezione per il mistero del Creato, e nel contempo un distacco dalle cose del mondo, come se la porta dello studio di fatto sancisse la netta cesura fra ciò che accade dentro e ciò che resta fuori del luogo di lavoro. Che continui a dipingere, talvolta, mette in crisi il suo volontario congedo dagli affari terreni, poiché ogni quadro diviene la copiosa lettera spedita a chi nel suo atelier non può entrare: l'invito a condividere un'emozione, più che la sua vita; eppure, Bottoni è un uomo accogliente, forse stanco dalle complesse e tortuose difficoltà del essere pittore; d'altronde, questo suo mestiere non lascia altra possibilità di uno scontro diretto, totale, come succede all'esploratore che indaga la natura trovandosene avvinto. Ecco lo scandalo della verità che Bottoni coglie non per imitazione, piuttosto in guisa d'esercizio cognitivo per comprendere ed avvicinare la realtà; di fronte ad essa, sia quella ammirata dalla cima di un colle, guardando l'orizzonte in chiusura, sia quella metafisica e intima della fede, il dettaglio non è mai lo scorporo dal complesso, bensì una sua specificazione, la decodifica dell'infinito codice della Creazione, simbolo dopo simbolo. Davanti al cavalletto - il quadro ben posizionato e la luce naturale che taglia la stanza - egli non ricopia fotograficamente il soggetto che ha dinnanzi; non cerca d'impressionare lo sguardo ingannando l'occhio, nel tentativo d'Apelle di superare lo stupore, ma analizza l'oggetto per decriptarne l'essenza, e questa - frammista di un po' dell'artista - rinasce sulla tela come traduzione fenomenologica. I fiori e gli oggetti che mette diligentemente in posa per ritrarli sono lì di fronte a lui, talvolta disfacendosi col procedere delle ore, e questo (naturale) travaglio accumula nel quadro in forma di costante malinconia, di pausa o attesa silenziosa. Capita che gli oggetti siano ripresi all'interno di una scatola, adagiati in una nicchia che serve da ulteriore chiosa alla scena principale (come nel Cristo morto), in linea con gli esperimenti dei grandi maestri antichi, dalla Spagna alle Fiandre: eppure, questi attori muti e inanimati, formaggi già molli per il caldo primaverile, fiori smarginati dall'appassimento, rovi e zucche ridondanti, sembrano voler dire molto più di quello che si ritenga possano annunciare… stanno immobili, fermi, con una musicalità sottile e impercettibile, però a rappresentare - magari anche - le nevrosi umane, a fermarsi come qualsiasi uomo vanitoso in posa per il suo istante d'eternità. Non decadono, non periscono, è quasi per sempre, almeno nel breve tempo che lascia l'illusione alle speranze d'immortalità dei viventi.

Nelle vedute, ed è recente un Paesaggio notturno con neve (pag. 79), s'avverte il mistero della vita, la sua bellezza estrema e impronunciabile; aleggia ovunque un'aura d'altrove ermetico, di panorama assoluto. Cantava Dante che oltre l'umano è difficile significare a parole: negli incavi lucenti dei Boschi o delle grandi vallate, che districano fra i tortuosi piani prospettici, l'ambito ultraterreno riveste ogni frangente di miracolo, d'indugio numinoso. Nascono da qui le tensioni che poi, anni dopo, avvolgeranno le scene religiose, il tremendo tacere che attornia il Cristo morto, bianco e livido come la neve azzurra del Paesaggio, oppure le ombre rarefatte della Veronica, col pallore della fatica di Gesù nel battere la sua via crucis. Ciò che è morto una volta è morto per sempre, scriveva Proust, e forse non è vero, almeno fintanto ne duri memoria, l'odore collettivo, il ritratto, e poi… poi c'è la resurrezione per chi ci crede, o la legge del karma se qualcheduno intendesse obliterare un altro biglietto per l'ennesimo giro di giostra. Le nature in posa di Bottoni, i suoi soggetti etologici, la passione per la Passione però senza la brutalità dell'assassinio, anzi il dramma chiamato attraverso pochi indizi rappresentativi, non odorano affatto di tomba; quando si varca la soglia del suo atelier, con i fichi in maturazione sul ballatoio, i colori pronti in barattoli da vetreria farmaceutica, è pur sempre la vita che si presenta e saluta, "buongiorno, benvenuti"! Gli elementi ordinati con cura, come le belle signore del Settecento nelle gallerie delle case francesi, simili a pere cotogne e tome nostrane, la grande vacca o il porcello. Tutto ciò che muore lo fa per tornare a vivere, ed è una vittoria, certo ingannevole, sul tempo. Conoscevo un poeta improbabile che non aveva più parole da mettere in fila, diceva "tutto è vano, non si può essere del mondo"; vero, però nel mondo sì, si deve stare. Nel mondo, camminando sulla proda di un fosso, schiacciando l'erba e il terriccio col lato della scarpa, quasi incespicando, lo sguardo corre finanche al cielo, al paesaggio che distende, con calma, tutte le sue parti e raggiunge i confini della terra. Bottoni è qui, lo è sempre stato, si aggira in cerca di una risposta agli eventi che lo coinvolgono, senza segnare come un metronomo il passo della storia, fermando invece porzioni di verità, piccole perfette presenze naturali. Negli ultimi anni, la meditazione sulla morte, che rimane un segno di costante interesse, si è fatta dolce, ha lasciato filtrare la parola del Vangelo: non la rappresentazione tacita di un Dio che anima ogni presenza terrena, quanto i gesti e gli atti di Gesù. Nell'ineluttabilità della sua storia, segna anche il compito del pittore, l'esercizio del poeta che trova sempre una parola, un gesto, un'immagine, per delineare qualcosa di impossibile da trattenere, una bellezza così bella che non è destinata a durare, se non su una tela, per sempre; almeno fino a quando il colore non svanisca e torni tutto a essere silenzio.