Arte

La biografia di Ugo Mulas
Ugo Mulas: vent'anni d'arte in una mostra. La scena dell'arte
Ugo Mulas: un fotografo attraversa l'arte contemporanea di Tommaso Trini
La fotografia di Ugo Mulas: non c'è bisogno di scrivere nulla di Vittorio Sgarbi
Ugo Mulas. La scena dell'arte

La fotografia di Ugo Mulas: non c'è bisogno di scrivere nulla

di Vittorio Sgarbi

Non c'è bisogno di scrivere nulla. Saluti ad Antonia, saluti a Melina e Valentina. La fotografia di Ugo Mulas, come indicano chiaramente le sue brevi note, non ha bisogno di commenti, saggi, introduzioni, tanto meno di interpretazioni. Essa è. Anzi essa spiega. In un lungo, ininterrotto atto d'amore per gli artisti, prima che per l'arte, descrive una storia di idee e di visioni attraverso alcuni momenti esemplari. Come Lucio Fontana in azione, nella sequenza in cui esegue uno dei suoi tagli; o Giuseppe Capogrossi colto in assenza di sé e in presenza dei suoi segni che lo fanno riconoscere. Segni di riconoscimento, di identità, appunto. Peggy Guggenheim vista mentre si specchia con un'opera di Picasso della sua collezione. Peggy non è "in sé" ma nell'artista. Fino all'artista che non è in sé, come negli antiritratti, e non per caso ma per scelta (dell'uno e dell'altro) di Max Ernst, sorpreso in vaporetto (ma non sorpreso!) o mentre prova un paio di scarpe. L'opposto esatto di Miró, Guttuso, Tancredi. Inevitabilmente in posa. Indimenticabile la serie di Calder. Poi ci sono gli autoritratti involontari catturati da Pistoletto (ma anche dagli occhiali per una visione "autre" di Julio Le Parc, provati per un attimo da un antichissimo Vittorio Cini in impeccabile doppio petto alla Biennale del 1966). Che Mulas non sbagliasse un colpo lo provano proprio i tanti ritratti insostituibili, definitivi. Suo (e nostro per sempre) è il Fontana in azione, ma suoi sono anche, senza che nessun altro li abbia poi ritrovati, lasciandocene resistente memoria, Duchamp, Giacometti, Morandi, Melotti, Sironi, de Chirico, Baj. Quest'ultimo in un'immagine mirabile davanti a uno specchio rotto, icone di spirito surrealista. Vale la pena di segnalare anche Bonito Oliva, come un ricercato, con baffi lunghi e basette, visto di fronte e di profilo, "wanted": una singolare deviazione lombrosiana di Mulas, certamente ironica.

Alberto Giacometti riceve l'annuncio di aver vinto il Gran premio XXXI Biennale Internazionale d'Arte, 1962

Ugo Mulas
Alberto Giacometti riceve l'annuncio di aver vinto il Gran premio XXXI Biennale Internazionale d'Arte, 1962
© estate Ugo Mulas
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Ma non si sa mai. Con estrema finezza Richard Hamilton ha la testa sfuocata per assomigliare a una sua fotografia sfuocata. Nessun fotografo ha pensato come Mulas. Un pensiero istantaneo, assoluto, come richiede la fotografia.
Aggiungi al nome Mulas il nome Eco o il nome Barthes, ed è finito l'incanto.
Aggiungi parole e sporchi la fotografia. La pura visione delle fotografie di Mulas, nonostante i tanti amici perduti, non evoca ricordi, produce felicità.
Dalla Milano ancora sconvolta dei primi anni cinquanta, con la bohème semplice del bar Jamaica, in consonanza ambientale con i film del neorealismo, alla Milano rinnovata ed euforica del Nouveau Réalisme: ribellione e festa. Perfette anche le penetranti scenografie del Wozzeck e le rare immagini di natura filtrate attraverso la lettura degli Ossi di seppia di Montale, di cui sono il "correlativo oggettivo". In questo mondo di perfezioni formali, di intuizioni che ci dicono degli artisti talvolta più di quello che essi hanno espresso con le loro opere, ci sono alcuni momenti di imprevedibile divertimento: il cappello posato a terra nella sala di Poliakoff, il Carlo Scarpa affacciato dall'alto di un padiglione, come un devoto assorto, mentre sotto si agitano Agnoldomenico Pica e Marco Valsecchi; il piccione che si posa sulla spalla di un compiaciuto Antonio Saura; Carlo Carrà che, come nei ritratti dell'Ottocento, è sempre con la famiglia, nella veste del patriarca. Vedendolo si intende quello che Mulas scrive per spiegare le ragioni del suo viaggio a New York: "Nel 1964 sono andato per qualche mese in America, per una mia necessità, perché là nessuno mi aveva mandato. Ho sentito il bisogno di andarci dopo aver visto la Biennale di Venezia, dove c'erano Johns, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Stella e Chamberlain. In un primo momento, negli Stati Uniti sono stato più stordito che convinto; poi, mi sono entusiasmato, perché non si trattava soltanto di prendere contatto con una certa pittura, quanto di entrare nel mondo dei pittori, e al tempo stesso di condividere un momento straordinario, di essere il testimone di una cosa veramente importante nel momento in cui capitava e si affermava. Avevo già fotografato degli artisti, per esempio Severini, per esempio Carrà, ma mi era sembrato di fotografare dei superstiti. Se mai avrei voluto fotografarli nel 1910, nel 1912: allora avrebbe avuto un senso, mentre adesso non facevo che registrare la loro sopravvivenza fisica come personaggi". Di quell'esperienza è sintesi la grande fotografia del loft di Jim Dine. In Europa ci sono invece, puliti, eleganti, fatali, i dandy, come dimostrano i tre superatteggiati Alighiero Boetti, Ettore Sottsass, Valerio Adami fotografati nel 1967 per una rivista di moda. Al loro opposto, come un Giacometti selvaggio, nel nuovo mondo, sta Wilfred Lam.
Ancora curiose e assolute, per amore dell'artista, seguito e carezzato, sono le mani intrecciate di Lucio Fontana, mentre le misteriose foto del "Campo urbano", riprese a Como nel 1969, sono capolavori di fotografia pura non legati alla forza travolgente e necessaria dei personaggi amati da Ugo Mulas.
Ci sono infine gli scomparsi, in tre modi. Per la storia e la conoscenza dell'arte: Kenneth Armitage, perduto dopo la Biennale del 1958, Philippe Fagan e Larry Poons, non più ritrovati dopo il 1964. I non registrati nelle didascalie, come il solenne Lionello Venturi compiaciuto tra le sculture di Alberto Viani nella Biennale del 1958; la bella ed elegante Inge Feltrinelli, a fianco di un nervoso Schifano; il cerimonioso e invitante Bepi Santomaso ignorato tra Carla Accardi, Gastone Novelli, Robert Rauschenberg e Andrea, non Pietro Cascella, alla Biennale del 1964. Infine, per autocancellazione, Pino Pascali che si congeda da noi e dalla Biennale, venendo "ritratto" in un mirabile telegramma che diventa lapide per un'epoca nella fotografia di Ugo Mulas. Alla ricerca dell'artista perduto. Con Mulas.