Indice degli articoli di arte


René Magritte. L’impero delle luci

Como - Villa Olmo
Dal 25 marzo al 16 luglio 2006

A Villa Olmo, ottanta opere (sessanta dipinti a olio e venti tra disegni e carte colorate) del genio surrealista belga.
Quaranta lavori provengono dai Musées Royaux des Beaux Arts del Belgio, che conservano la collezione pubblica più importante al mondo di opere di Magritte, visibili in Italia per l’ultima volta, prima della loro definitiva collocazione nel Museo Magritte di Bruxelles, nell’aprile 2007.

Dopo la mostra del 2004 Joan Miró. Alchimista del segno che ha riscosso l’interesse di  76.000 visitatori, e l’evento Picasso. La seduzione del classico del 2005, che ha portato sulle rive del Lario oltre 77.000 persone, il Comune di Como propone una nuova grande iniziativa.

La bonne Foi, 1964 / 65

René Magritte
La bonne Foi, 1964 / 65
Olio su tela
Dim: 41 x 33 cm

Dal 25 marzo al 16 luglio 2006, infatti, nelle sale della settecentesca Villa Olmo si tiene la mostra René Manritte. L’impero delle luci, organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Como in collaborazione con la Fondation Magritte di Bruxelles e i Musées Royaux des Beaux Arts del Belgio, con il contributo di Poste Italiane, Vodafone, Bayer, Fondazione Corriere della Sera. Il coordinamento organizzativo è affidato a CSU.

Le retour, 1940

René Magritte
Le retour, 1940
Olio su tela
Dim: 55 x 65 cm

La rassegna, curata da Michel Draguet, direttore generale dei Musées Royaux des Beaux Arts del Belgio, Maria Lluïsa Borràs e Sergio Gaddi, raccoglie sessanta dipinti a olio e venti tra disegni e lettere illustrate realizzati dal genio surrealista tra il 1925 e il 1967, quaranta dei quali provenienti dai Musées Royaux des Beaux Arts del Belgio, che conservano la collezione pubblica più importante al mondo di opere di Magritte, visibili in Italia per l’ultima volta, prima della loro definitiva collocazione nel Museo Magritte di Bruxelles, nell’aprile 2007.
Secondo Charly Herscovici, Presidente della Fondation René Magritte, la mostra di Villa Olmo rappresenta “un evento nella storia delle esposizioni surrealiste in Italia”.

La part du feu, 1947

René Magritte
La part du feu, 1947
Olio su tela
Dim: 65 x 54 cm

La saveur des larmes, 1948

René Magritte
La saveur des larmes, 1948
Olio su tela
Dim: 60 x 50 cm


L’esposizione, che presenta alcune delle opere più conosciute del maestro belga, come L’impero delle Luci, La buona fede o La fata ignorante, muove i propri passi dall’asserto magrittiano, secondo cui “La pittura è soltanto un mezzo che mi permette di portare alla luce un pensiero grazie all’utilizzo di elementi presi al mondo visibile”.
Magritte, infatti, riteneva, come Leonardo, che la pittura fosse una ‘cosa mentale’, una proposta di riflessione o un’idea che deve prendere forma attraverso di essa, mantenendosi entro i limiti della riproduzione del mondo visibile. Ciò che rende diversa la sua pittura è la rappresentazione circoscritta ad ambienti quotidiani, riprodotti con la massima fedeltà, con lo scopo di provocare una riflessione che metta in discussione ciò che si dà per scontato. Inoltre pretende, in questo modo, di rendere visibile la poesia e di trasformare il mondo comune in un universo poetico.
Nella sua iconografia, seppur molto varia ed ampia, è facile riscontrare tali “cose visibili”: i nuvolosi cieli del nord - che fecero coniare a Max Ernst il motto “Fa un tempo Magritte” - il mare e l’aperta campagna; gli alberi e il bosco, i notturni, i sobborghi; un certo stereotipo di borghesia dell’epoca, belle e languide dame e l’uomo vestito di nero con bombetta; uccelli e colombi; fiori e oggetti comuni come case, sonagli, balconi, sfere, mele.

La connaissance de l'absolu

René Magritte
La connaissance de l'absolu

Il punto di partenza del percorso espositivo, giostrato su un doppio binario cronologico e tematico, è rappresentato da L’amazzone, opera che può essere considerata come un “Magritte prima di Magritte”, nella quale si accosta al naturalismo una costruzione cubista.

La sua produzione è spesso intrisa di mistero. Come lui stesso ricordava, “Io mi sforzo di non dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile, devo cessare d’identificarmi con idee, sentimenti, sensazioni”.
In Personaggio che medita sulla follia del 1928, nonostante l’opera sia composta da elementi banali, trasmette una sensazione di attesa angosciata di qualcosa che incombe. Angoscia che gli proveniva a volte dai ricordi tragici della propria esistenza, come la rievocazione del suicidio della madre, che nel 1912 fu trovata annegata in un fiume con la testa avvolta nella camicia da notte. A seguito di questo tragico avvenimento, dipinge la forma di una testa coperta con un drappo bianco o lo stesso soggetto nascosto da una sorta di lenzuolo.

La Grande Marée, 1951

René Magritte
La Grande Marée, 1951
Olio su tela
Dim: 65 x 80 cm
Collezione privata, Bruxelles

Nel suo processo di assimilazione delle tematiche surrealiste, Magritte si avvicina, nel 1927, alla tecnica del collage, fortemente utilizzata da Max Ernst che rappresentava un “incontro fortuito di due realtà incompatibili, su un piano estraneo ad entrambi”. Allo stesso modo, Magritte affianca in pittura, immagini estratte dal quotidiano inserite in realtà contraddittorie o realtà apparenti, come nel Ritratto di Paul Nougé, o nel Matrimonio di mezzanotte, o ancora nel Supplizio della vestale, o nel Giocatore segreto.
Sono delle opere che giocano con il concetto surrealista della ‘metamorfosi’, in cui alcuni oggetti si trasformano in altri, come nell’Incendio, nell’Isola del Tesoro in cui le foglie degli alberi che si tramutano in uccelli, o nel Sapore delle lacrime dove da un albero non nasce un fiore, ma un uccello con le nervature del corpo in forma di foglia.

Le joueur secret, 1927

René Magritte
Le joueur secret, 1927
Olio su tela
Dim: 152 x 195 cm

Altro importante settore della mostra di Villa Olmo è riservato alla serie di lavori sul linguaggio che manifesta le sue riflessioni circa le diversità esistenti tra il linguaggio plastico e quello scritto, come La lettura proibita o la Voce dell’assoluto.

L’esposizione comasca dà poi conto anche di un nucleo di lavori appartenenti al cosiddetto periodo Vache, di tendenze fauviste, realizzati durante la seconda guerra mondiale, caratterizzati da colori accesi e la cui tecnica ricorda il modo di dipingere di Renoir. Sono tele nate in reazione all’occupazione nazista che, secondo le parole dello stesso Magritte, “ha segnato una svolta nella mia arte... Vivo in un mondo estremamente sgradevole e la mia opera vuole essere una controffensiva”.

La Fée ignorante, 1956

René Magritte
La Fée ignorante, 1956
Olio su tela
Dim: 50 x 65 cm
Collezione privata

Inoltre, vengono esposti dei disegni preparatori e una piccola sezione dedicata alle fotografie. Tra il 1928 e il 1955 Magritte scatta circa un centinaio di fotografie di vita privata. Sebbene non si possa ritenere che Magritte considerasse quelle fotografie alla stregua di quadri, tuttavia alcune meritano di essere prese in considerazione: le fotografie dei volti di alcuni amici dietro una maschera o quella del viso di Georgette sovrapposto al suo, oscurandolo, rivelano una delle inquietudini del pittore circa il visibile e l’invisibile.


Magritte e il surrealismo *
MICHEL DRAGUET, Curatore della mostra
David Sylvester ha ottimamente rievocato gli esordi artistici di René Magritte tracciandone il percorso prima della sua scoperta del quadro di De Chirico Canto d’Amore, sotto il segno dell’eclettismo d’avanguardia. Poco conosciuto e anche meno apprezzato, questo aspetto dell’opera conduce all’astrazione dalla quale Magritte si allontanerà solo quando avrà davanti a sé l’orizzonte della metafisica. Se in una lettera indirizzata al suo amico E.L.T. Mesens, il pittore afferma «A bas la plastique pure – vive la peinture tout court», l’astrazione resterà il momento che determina la genesi della sua opera e uno dei fondamenti della sua concezione dell’immagine. Quest’ultima assume l’aspetto di uno schermo cieco la cui ovvietà non è altro che un’illusione. Pur negando all’astrazione il diritto di ergersi a nuovo linguaggio, tuttavia Magritte gli impone l’obbligo di decostruire l’idea di rappresentazione in quanto tale. Involontariamente la pittura ha aperto la via ad un pensiero che oggi in epoca postmoderna definiremmo «costruttore» di «poemi plastici», Magritte si è imposto come filosofo. Un’opera come Les Affinités électives, eseguita nel 1933, ne è la testimonianza. Rinunciando a definire l’atto pittorico in quanto tale, Magritte considera la pittura come il luogo privilegiato di un pensiero in azione. Ciò conduce ad una forma di lucidità che viene rivendicata ne La Clairvoyance. Lo spazio tra l’oggetto visto – e pertanto vissuto - e l’oggetto rappresentato - e quindi pensato - si rivela costitutivo dell’immagine in quanto immagine. L’uomo non potrebbe vedere altro che un uovo, ma il pittore pensa ad un uccello.
Attraverso questo lieve slittamento, il reale si smaschera per testimoniare un significato  consacrato al mistero.

I pericoli dell’umanità
Il rifiuto della dottrina avanguardista porta Magritte ad inserirsi nel surrealismo che, a Parigi, ha avuto inizio nel 1924 sotto la guida di André Breton. Da Bruxelles a Parigi le differenze di sfumatura vengono considerate tanto quanto i punti di contatto. E questo sia dal punto di vista della sociologia dei gruppi artistici che da quello dell’estetica, con i Belgi che conservano la sfiducia nei confronti del puro automatismo psichico.
Per Magritte, inizialmente si tratta di affermare una «nuova rappresentazione» la quale, consapevole della sua qualità di linguaggio testimonierebbe la sua lucidità nei confronti di una forma di rappresentazione ormai impossibile. Senza dubbio si è poco sottolineato quanto questo processo di ricomposizione della rappresentazione in forma emblematica, in un certo senso, sia collegato alla cultura simbolista. Magritte non ha mai celato il suo interesse per tale processo e la cultura simbolista ha costituito chiaramente una fonte d’ispirazione per quanto si possa accostare un’opera come La réponse imprévue del 1933 al Portrait de Marguerite dipinto dar Khnopff circa cinquant’anni prima: stesso gioco sulla porta come schermo e come limite, stesso lavoro di frammentazione della figura come evasione spirituale, stesso senso di mistero e di indicibile. Ma il dialogo delle immagini non può placare le opposizioni legate all’evoluzione del dibattito artistico. Ancorata ad una visione accademica, la cultura simbolista ha fatto di questa la sua esperienza fondante, soprattutto in Belgio dove artisti come Xavier Mellery o Fernand Khnopff hanno basato la loro poetica sul rimettere in discussione la rappresentazione. Dal simbolismo Magritte ha tratto vari elementi essenziali: la pratica del quadro vivente, il miraggio che costituisce l’illusione mimetica, il gioco della trasposizione letteraria, l’affermazione della supremazia dello sguardo così come il senso del dettaglio significante che si manifesta come «simbolismo nascosto».
La rappresentazione alla quale Magritte fa riferimento passa attraverso il particolare, che non è pensato come riflesso del reale, ma scavalca una realtà fissata per convenzione. Anarchico e dadaista, Magritte erige il dettaglio quale strumento di emancipazione dalla morale borghese. È attraverso il particolare che l’ordine - nella sua dimensione oggettiva - è sottoposto al dubbio sistematico.
Con La Ligne de vie (La Linea della vita), famosa conferenza tenuta ad Anversa nel 1938, Magritte testimonia l’importanza della focalizzazione sul particolare:
[…] inserii nei miei dipinti oggetti con tutti i particolari che ci appaiono nella realtà, e ben presto mi avvidi che era questa l’unica condizione perché le mie esperienze potessero trascendere il piano delle immagini e mettere in discussione il mondo reale.
L’oggetto, spogliato dei suoi dettagli, ritorna al centro dell’interesse del pittore. Astratto dalla realtà concreta, isolato, smembrato, sottomesso alla logica del collage, addirittura alla sua violenza, l’oggetto evolve solo rispetto a se stesso. Tradisce un’aspettativa organica che Magritte esprime attraverso il tema del trasformismo e della metamorfosi. Le Sang du monde testimonia questa pulsione che ricusa qualsiasi forma predefinita: l’universo è popolato soltanto da figure mobili, mosse dalla volontà interiore e da una capacità infinita di trasformazione. Sottratte al peso delle parole, le forme sfuggono a qualsiasi funzione. Sono le testimoni di un movimento perpetuo: flusso sanguigno che dona la vita a ogni cosa o flusso psichico che conduce il pensiero oltre i suoi propri limiti.
Il trasformismo favorisce il radicamento di Magritte nella cultura surrealista. Parte dal frammento ereditato dalla retorica cubista, e lo investe di una minacciante gravità. Un sentimento d’angoscia s’accompagna all’aggressione che subiscono i corpi; ma il corpo non viene fatto a pezzi. Il numero di opere dipinte nel 1927 - Entracte o Les muscles célestes - lo testimoniano. Le membra hanno una vita autonoma e le figure portano con sé il loro essere in divenire. Il corpo non dipende più da una forma predefinita dal nome che porta secondo l’equivalenza che legherà la parola pipa al suo nome. La continua mutazione del particolare impone la forma sul senso. Magritte riprende la dialettica / rappresentazione secondo un ordine diverso che oppone il «senza oggetto» all’inoggettivato. Il pittore trasforma l’immagine in ricettacolo di un movimento progressivo che fa sì che un «oggetto si fonda in un altro che non sia se stesso»; questo tipo di ricerca si impone alla propria metamorfosi fino a «pensare in un modo diverso». Il momento è cruciale. Per Magritte, il movimento della forma non è altro che la traccia del movimento del pensiero, il quale, da solo, permette di reinventare il mondo sottoforma di una «composizione fantastica». Parte da qui la posizione singolare di Magritte all’interno del surrealismo, posizione che Breton gli riconoscerà solo nel 1941 dopo varie disapprovazioni e lacerazioni. Questa singolarità testimonia un «deliberato passo» contro il linguaggio.
L’estetica di Magritte è considerata surrealista in quanto rivoluzionaria. Oltre all’impegno complesso e paradossale rivolto al comunismo che caratterizza il movimento negli anni ‘30, la necessità di rottura manifestata dal pittore trae le sue origini dalla pratica del collage alla quale non ha mai rinunciato e che ha ricondotto all’unità dell’immagine dipinta. Le Prince des objets costituisce un momento importante di questa reinvenzione del collage in pittura. Magritte non coltiva l’eterogeneità dei materiali, al massimo gioca con una combinazione originale del suono - evocato in modo plastico con l’uso frequente di partiture - e dell’immagine. Gradatamente dal collage procede una nuova strada, pur segnando il ritorno all’illusione mimetica. Colpito dalla poesia del montaggio cinematografico, Magritte conferisce dinamicità al collage, che segna l’irruzione del tempo nella sua pittura: il tempo del pensiero che si apre spazialmente.
Ispirata da Max Ernst, questa poetica trasformista non punta tanto sulla sorpresa plastica nata dal caso, quanto sulla deliberata volontà di frantumare il senso. Magritte scompiglia l’equilibrio delle forme, l’unità dei materiali, l’integrità dei corpi. L’opera scopre degli orizzonti in cui violenza ed erotismo si fondono. Associando la carne umana al manto peloso degli animali, Découverte si allaccia al simbolismo di Khnopff - pensiamo a L’Art ou les caresses del 1896 - per unire la femminilità a sembianze feline. Lasciando che un’aggressiva figura maschile si introduca nel corpo nudo di una donna, Les Jours gigantesques del 1928 rappresenta l’apologia di una violenza il cui principale bersaglio resta il conformismo morale della borghesia. 
Le opere di Magritte suscitano una sensazione di stranezza che si accompagna alla violenza di ciò che la rappresentazione esprime di inconscio e alla volontà di teatralizzare ciò che emerge dalla tela. Cupa, scura, la tavolozza evolve nella stessa direzione, mettendo in rilievo il carattere notturno dell’immagine magrittiana. Il modellato massiccio tradisce un’impressione di pesantezza che i colori della tavolozza collocano in una dimensione di incubo. Questa manifestazione verrà interpretata come conseguenza al trauma subito in seguito al suicidio della madre nel 1912. Confermerà anche un tono di «sentimentalismo» generalizzato dell’epoca. Ma al di là delle condizioni culturali che caratterizzano questi anni di crisi, Magritte si è prefissato un obiettivo più decisivo. Dalla messa in scena della rappresentazione a una rappresentazione della messa in scena, il pittore ha un solo scopo: negare il linguaggio come fondamento dell’illusione mimetica. L’esperienza si richiude su se stessa: nella distruzione della rappresentazione che prende le cose alla lettera.

Como, 24 marzo 2006
* Estratto dal testo in catalogo Ludion


Approccio ai meccanismi creativi di Magritte *
MARIA LLUÏSA BORRÀS, Curatore della mostra
I vari meccanismi creativi che René Magritte applica frequentemente nella sua vasta opera ci offrono cinque possibili chiavi di lettura, esposte qui sinteticamente e a rischio di apparire anche troppo semplicistiche, che possono aiutarci a comprendere meglio i quadri selezionati per la mostra di Como. Pur attraverso un’analisi semplice dunque, rileveremo la tendenza di Magritte ad accostare diversi meccanismi all’interno di una singola opera, dando vita a variazioni e contaminazioni continue. Analizzando queste chiavi di lettura potremo arrivare a comprendere le riflessioni e la poetica di Magritte.
Crediamo inoltre che una panoramica che non segua esattamente la successione cronologica potrebbe compiacere l’artista il quale dichiarava: “La pittura è soltanto un mezzo che mi permette di portare alla luce un pensiero grazie all’utilizzo di elementi presi al mondo visibile”.
Senza avere la pretesa di affrontare in modo esaustivo tutta la problematica che ha interessato il pittore, fisseremo l’attenzione su cinque tra i meccanismi creativi applicati da Magritte nelle sue opere: narrativa e mistero, collage e incontri fortuiti, metamorfosi, giochi del linguaggio e quadro nel quadro.
Il punto di partenza della mostra è rappresentato da due opere che rivelano i contatti dell’artista con Gleizes e che dovrebbero essere considerati come dei “Magritte prima di Magritte”: Portrait de l´écrivain Pierre Broodcoorens e L’ecuyère, nei quali egli accosta al naturalismo una costruzione cubista.
Dedichiamo anche un piccolo spazio alla fotografia; fra il 1928 e il 1955 Magritte scatta circa un centinaio di fotografie di vita privata, presenti anche gli amici. Sebbene non si possa ritenere che Magritte considerasse quelle fotografie alla stregua di quadri, pur tuttavia alcune meritano di essere prese in considerazione: le fotografie dei volti di alcuni amici dietro una maschera o quella del viso di Georgette sovrapposto al suo, oscurandolo, rivelano una delle inquietudini del pittore circa il visibile e l’invisibile. Ciò traspare anche in opere come La Bonne Foi nella quale un presunto autoritratto è nascosto dietro ad una pipa. In una tela eseguita precedentemente il ritratto è nascosto dietro ad una mela. Afferma che il visibile è quello che vediamo, la mela sul viso; il visibile nascosto (l’invisibile) è quella parte del volto che esiste ma che non possiamo vedere perché nascosta dalla mela. In altre opere sfoca i volti per renderli irriconoscibili oppure li cela completamente dietro una macchia di luce (come nel quadro del 1937 Le principe de plaisir). La fotografia, in quanto visione verosimile, risulta per l’artista uno spunto di riflessione sulla realtà e le sue, pur essendo fotografie amatoriali, rivelano la sua indiscutibile firma, il suo gusto per l’insolito, per l’anticonformismo, per l’irriverenza.
Marcel Duchamp abbandona la pittura, alla quale ha dedicato i suoi primi anni, per proclamare che opera d’arte può essere uno schema, un concetto, un’idea. Apre così un percorso che, dall’arte concettuale e neo-concettuale avrebbe condotto fino alle attuali tendenze quali l’inespressionismo che rifugge da ogni effetto emotivo e considera la pittura una rarità, obsoleto retaggio del XIX secolo.

Max Kozloff, nel catalogo della mostra su Magritte del 1966 al MOMA, sostiene con forza la contraddizione fondamentale di un’affermazione di Magritte, secondo la quale il pittore sarebbe inscindibilmente fedele alla pittura pur asserendo che la pittura non lo interessa.
René Magritte crede, come Leonardo, che la pittura sia una “cosa mentale”, una proposta di riflessione o un’idea che deve prendere forma con la pittura, mantenendosi in ogni caso entro gli stretti limiti della riproduzione del mondo visibile. Ciò che rende diversa la sua pittura è la rappresentazione circoscritta ad ambienti quotidiani e grezzi, triviali quando non anodini, riprodotti con la massima fedeltà, con lo scopo di provocare una riflessione che metta in discussione ciò che si dà per scontato. Inoltre pretende, in questo modo, di rendere visibile la poesia; di trasformare con la pittura il mondo comune in universo poetico, tentando di essere egli stesso, citando Paul Éluard, il poeta che ispira e non colui che trae ispirazione. Alla fine dei suoi giorni, l’artista potrà dunque affermare che con le sue opere ha sempre perseguito l’impegno originario: quello di rappresentare, mediante la riproduzione di oggetti prescelti - chiamati di preferenza “cose visibili” - partendo esclusivamente dalla loro apparenza.
Nella sua iconografia, se pur molto varia ed ampia, è facile riscontrare tali “cose visibili”: i nuvolosi cieli del nord, che fecero coniare a Max Ernt il motto “Fa un tempo Magritte”; il mare e l’aperta campagna; gli alberi e il bosco, i notturni, i sobborghi; un certo stereotipo di borghesia dell’epoca, belle e languide dame e l’uomo vestito di nero con bombetta; uccelli e colombi; fiori e oggetti comuni come case, sonagli, balconi, sfere, mele.
I titoli dei suoi quadri sono rilevanti, non consentono di ridurre l’autentica poesia a un mero gioco fine a se stesso. Non titola mai un quadro senza prima averlo terminato, spesso il titolo lo decide dopo vari giorni e talora lo cambia più volte. In alcune lettere indirizzate a Harry Torczyner (per una corrispondenza che lo occuperà negli ultimi anni di vita), si legge spesso che per convincere Magritte a titolare un quadro già venduto, l’acquirente doveva scrivergli ripetutamente insistendo affinché si decidesse.
Magritte non ha titolato personalmente tutti i suoi quadri: talvolta se ne sono incaricati gli amici e così alle opere sono stati attribuiti nomi poetici da Paul Colinet, filosofici da Paul Nougé, polisemici da Marcel Mariën, letterari e sovversivi da Scutenaire, pirotecnici dalla moglie di quest’ultimo, Irène. Si racconta che Magritte amava convocare gruppi di amici per mostrare loro le ultime opere: le serate duravano un paio d’ore, durante le quali ci si intratteneva nel “gioco del titolo”, passatempo particolarmente gradito al pittore. Per ogni quadro che esibiva, si proponeva un titolo che Magritte commentava sempre con un “tiens, tiens!”; ma alla fine l’ultima parola spettava all’autore.
Paul Nougé, in Images défendues, osserva che i titoli dei quadri di Magritte non sono esplicativi, sono soltanto un modo pratico per distinguerli: ”I titoli vengono scelti in modo che impediscano un approccio neutro al quadro, sottostimando lo sviluppo automatico del pensiero”.

Como, 24 marzo 2006
* Estratto dal testo in catalogo Ludion


Informazioni

René Magritte. L’impero delle luci


Luogo: Como - Villa Olmo
Via Cantoni, 1 - Como

Periodo: dal 25 marzo al 16 luglio 2006

Orari: martedì, mercoledì e giovedì 9.00 - 20.00; venerdì, sabato e domenica 9.00 - 22.00. Lunedì chiuso (La biglietteria chiude un’ora prima)

Ingresso: intero: € 9; ridotto: € 5 dai 6 ai 16 anni, over 65, studenti universitari, gruppi, soci A.C.I. Visite guidate su prenotazione: per gruppi fino a 25 persone, € 100; scuole medie e superiori € 50; scuole elementari e materne € 35. Audioguide: € 3

Catalogo: Ludion (€ 25 in mostra, € 30 in libreria)

Info: Comune di Como - Assessorato alla Cultura, tel. 031 252352
Numero verde ripartito: tel. 848 800834
tel. 031 571979 - fax 031 3385561


Articolo pubblicato il 26 maggio 2006