Arte

La biografia di Carlo Levi
Carlo Levi e Roma. Il respiro della città
Carlo Levi pittore a Roma negli anni Trenta di Daniela Fonti
Il Realismo mitico di Carlo Levi. Uno scrittore più sperimentale del pittore di Filippo La Porta
Il Naturalismo essenziale della pittura di Carlo Levi Testo inedito di Carlo Levi firmato con lo pseudonimo di E. Sacerdoti e scritto nei primi anni Trenta
Paura della pittura di Carlo Levi e le paure di prospettive di Guido Sacerdoti
Carlo Levi e l'ambiente romano di Claudia Terenzi

Carlo Levi pittore a Roma negli anni Trenta

di Daniela Fonti

Roma è stata mai una luogo dell'anima per Carlo Levi? Che ruolo possiamo assegnarle in relazione alla centralità che altre città hanno avuto nella sua vita, Torino, Parigi, Alassio - luogo deputato delle vacanze estive - poi nel periodo bellico, anche Firenze? Ad ognuna di queste città è stata dedicata dagli studiosi leviani una attenzione mirata, mettendone di volta in volta in rilievo il diverso ruolo giocato in relazione alle distinte attività svolte durante la sua vita; ogni città con una sua distinta vocazione, un ruolo diverso giocato ogni volta nella vita del pittore, del letterato, del cospiratore politico, del poeta , del giornalista.
E Roma, quale il ruolo da riservare alla città nella quale, dopo tanti spostamenti, Levi si trasferisce definitivamente in quella terza fase della sua vita, gli ultimi tre decenni (1945-1975), nella quale ricompone i diversi volti della sua attività: la pittura, la letteratura e la politica, fino all'esercizio appassionato della più importante carica politica, quella di senatore? (…)
Diverso, naturalmente il rapporto con Parigi, del quale molto si è scritto - ed in termini sempre positivi - per valutare di volta in volta nell'ambito politico o artistico, il ruolo giocato dall'ambiente parigino negli anni della giovinezza e dalla complessa rete di amici e sodali che si trovò ad intrecciare nei molti soggiorni che caratterizzano il periodo 1924 -1941.
Per Levi, la frequentazione di Parigi, nella quale si trasferisce solo allo scoppio della guerra, è funzionale al doppio ruolo che si è assegnato: quello di alimentare, attraverso contatti e frequentazioni sempre più allargate la rete di dissidenza antifascista e quello di promuovere, parallelamente, la sua ricerca sul versante della pittura. In qualche modo la sua biografia e la fitta corrispondenza relativa a quegli anni rimandano la sensazione che i due piani - quello del Levi politico e quello del pittore - per lungo tempo si tengano abbastanza separati cosicché anche la sua attiva militanza non gli impedisce di mantenere, nei riguardi della strategia delle esposizioni, un atteggiamento meno drastico e assai più possibilista nei riguardi del regime di quanto forse sarebbe legittimo attendersi.
(…) W. George nel 1930, presentando l'ebreo Krémègne in una piccola monografia di una collana significativamente dedicata ad "Artisti ebrei" aveva fatto risalire al divieto talmudico di produrre immagini, non già l'impossibilità di dipingere ma quella di accedere alla corporalità del reale, al senso di peso e di densità della materia delle cose, quella predisposizione insomma, a restituire il mondo in modo totalmente soggettivo che rende la "poesia etnica ebraica agli antipodi del mondo di Courbet". Ora, ci domandiamo, che consapevolezza ebbe Levi negli anni '30 di tutto quanto in merito si discuteva nel mondo artistico parigino? Probabilmente notevole, visto che nelle lettere riferisce di una visita allo studio di Soutine, ("bellissimo, con un cortile e una balaustra sul retro e una vasca con foche e uccelli") e visto che la sua amica ebrea Vitia Gurevich ebbe la possibilità di aggiornarlo costantemente portandolo a visitare gallerie nelle quali si potevano vedere opere di artisti con i quali Levi intravide da subito una indubbia affinità con il proprio mondo poetico, come Soutine, appunto o Pascin, o lo stesso Chagall. Non è difficile aggiungere queste fondamentali figure alle altre della composita area postimpressionista (Matisse, Dufy) che avevano contribuito alla sua formazione fin dagli anni torinesi, rintracciandone movenze e talvolta citazioni riaffioranti nella pittura anche a distanza di anni; né è impossibile far risalire alla costante attenzione per questi pittori alcune significativi scarti stilistici della sua produzione. (…)
Non è dato sapere, invece, se vi furono, e di che natura, frequentazioni con Antonietta Raphael e Mafai (a Parigi dalla primavera del '30 fino all'estate del '32) né con Pirandello, a Parigi dal 1927 al 1930. Potrebbe farsi risalire al 1928, e ad una possibile visita ad una mostra di Cavalli, Di Cocco,
Pirandello in una piccola galleria parigina, un primo contatto di Levi con alcuni pittori poi inseriti nella Scuola romana. Le lettere e i taccuini di Levi raccontano anche delle visite al Louvre, dove s'impegna in una costante interrogazione degli antichi: un imprinting che riemergerà a distanza anche in modo inconsapevole; un'attenzione e una rimeditazione comunque legate alla grande lezione di Lionello Venturi - cui lo lega una frequentazione costante e l'appartenenza al gruppo dei "Sei" - e alla necessità che il grande critico autorevolmente sostiene di rendere costantemente attuale la lezione dei grandi del passato rivitalizzandola nell'arte del presente.
Internazionalismo ed europeismo sono le parole chiave entro la cui cornice si gioca, pur in una complessa e contraddittoria rete di rapporti (ormai molto analizzata dalla critica più aggiornata), la vicenda artistica dei "Sei di Torino".
E' il Levi, torinese ed parigino a un tempo, che si presenta con le sue opere per la prima volta sulla scena artistica romana nel gennaio 1931, nella Galleria di Roma da poco aperta da P. M. Bardi "sotto gli auspici del Sindacato Nazionale Fascista Belle Arti di Roma". E' una mostra "politica", che sottolinea la centralità assunta dalla capitale nel panorama artistico nazionale, e della volontà di Levi, Menzio e Paulucci di dichiarare non limitata o chiusa l'esperienza del gruppo dei "Sei", ma invece disponibile ad assecondare le aperture internazionali che il momento politico sembra far presagire. (…)
Le opere presentate da Levi a Roma nella galleria di Bardi e, contemporaneamente, alla I Quadriennale varata da Oppo, dipinte tutte fra il '29 e il '30, davano un'idea abbastanza esaustiva del suo stile e di come avesse progressivamente abbandonato i toni perlacei dominanti fino al '29 (Mattino, Le due signore) per un rafforzamento della tavolozza in toni più accesi e registri più espressivi. Soprattutto nelle nature morte dipinte nel '30 (Natura morta con melograni, Natura morta con bottiglia e bicchiere, Il frutto rosso,in mostra) le subitanee accensioni cromatiche denunciano il rinascente bisogno di ridare un nesso temporale al processo percettivo, di tornare ad esplorare le profondità dello spazio dando identità alle forme riemergenti dal tessuto vibrante del fondo. Credo che questo irrobustimento della sua pittura, in direzione progressivamente più visionaria, possa farsi risalire al contatto con l'ambiente romano, che non necessariamente deve considerarsi successivo al 1931, ma che può datarsi già al 1929-30, ed ai rapporti di tutti con Bardi e con Oppo. (…)
Ma soprattutto credo di poter leggere nelle molte e bellissime nature morte leviane del 1932-33, una riflessione sulla spazialità convulsa e dilatata, dinamica, circolare e quasi inarrestabile delle nature morte scipioniane del '30. Levi accentua questo carattere, innestandovi memorie da Soutine, anche con l'ispessimento delle paste (Talco e biscotti, Amoroso contrario di Morandi) mentre la pennellata va sempre più acquistando quell'andamento ondoso che, a fasi alterne, caratterizzerà tanta parte della sua pittura, fino agli esiti più tardi. Ma il rapporto con gli artisti di quella che va costituendo come "scuola romana" non è a senso unico; intorno al tema dei grandi nudi virili, si gioca un'altra significativa partita di scambi e assonanze. Con Due uomini che si spogliano, del 1935, Levi ne dà una interpretazione a suo modo eroica (è uno dei suoi primi grandi formati), vicina a I neofiti di Cagli (del 1933 ca.) che tuttavia non può non aver guardato, per le sue forme senza peso, disfatte nel colore ocra, proprio a precedenti leviani. (…)
Dopo il 1935 non si notano più nel suo linguaggio, al contrario di quanto avveniva in precedenza in relazione ai suoi soggiorni in Francia, significativi scarti stilistici e brusche immissioni; la sua pittura appare, sempre all'interno di uno spirito comunque inquieto, consolidata entro quell'orizzonte di "naturalismo essenziale" che egli stesso teorizza. Nel ricordo dei volti degli amici e dei familiari si rifugia nei giorni bui della detenzione a Roma, quando la pittura gli è negata: "io sono altrove, dove mi porta l'uso degli affetti", scrive.
Terminata l'Apocalisse della guerra, Levi ritorna, stavolta definitivamente, a Roma. E qui avviene, a mio avviso, un singolare scambio di funzione fra la pittura - che cede il campo - e la parola scritta, nell'Orologio, nella quale si travasano tutti gli umori sulfurei di questo intellettuale del nord alle prese con una città che non è più il palcoscenico del potere ma un corpo ferito che cerca di sopravvivere alla catastrofe.