Arte

La biografia di Mimmo Rotella
Mimmo Rotella. Lamiere
Mimmo Rotella. Lamiere. Rapsodiche stratificazioni. Saggio di Alberto Fiz
MARCA. Museo delle Arti Catanzaro

Mimmo Rotella. Lamiere. Rapsodiche stratificazioni. Saggio di Alberto Fiz

Mimmo Rotella - Billy the Kid, 1989, Décollage e sovrapittura su lamiera, 150 x 100 cm - Collezione privata

Mimmo Rotella - American TV, 1990, Décollage e sovrapittura su lamiera, 100 x 75 cm - Collezione privata

Mimmo Rotella - Noi amiamo Europa, 1987, Décollage e sovrapittura su lamiera, 300 x 300 cm - Collezione privata

Mimmo Rotella - La casa dello studente, 1988, Décollage e sovrapittura su lamiera, 300 x 300 cm - Collezione privata

“Ogni indagine di tipo iconografico fa saltare la gabbia rigida della storia dello stile: ma per non rinchiudersi in un nuovo isolamento e ottenere risultati davvero significativi essa dovrà offrire un contributo diretto anche alla visione dello stile” (1). Quest'affermazione dello studioso austriaco Otto Pacht chiarisce bene la metodologia applicata da Mimmo Rotella durante tutto il suo percorso artistico. Il maestro del décollage, sin dai suoi esordi, è perfettamente consapevole che l'arte non vada intesa come concetto aprioristico, ma abbia l'obiettivo primario di proporre nuove soluzioni.  E' stata questa la ragione che lo ha spinto, in un primo momento, ad abbandonare la pittura tradizionale giudicata priva di prospettive e, subito dopo, a superare lo scoglio rappresentato dal collage: “Il collage ha purtroppo nell'arte antica e contemporanea un'origine e uno sviluppo, una collocazione storica. Dico: purtroppo, perché avrei voluto inventarlo io il collage. Durante l'infanzia i cieli grigi, le case grigie, i volti, le strade, la polvere, i sentimenti, tutte le immense cose grigie del Sud mi sollecitavano, per rabbia, ad inventare i colori e ad incollarli su certi spazi ristretti della fantasia”(2), ha affermato Rotella nel 1957 in occasione di una sua personale alla Galleria del Naviglio di Milano.
La necessità di reagire ad un segno codificato dalla storia dell'arte lo conduce verso il décollage, inteso come gesto decostruttivo che si oppone alle regole imposte dalle avanguardie d'inizio secolo. La lacerazione, infatti, va intesa, in primo luogo, come rottura degli schemi precostituiti nel desiderio di raggiungere una nuova sintesi compositiva tra materia, colore e spazio.
La forma incostante del tempo viene preservata dal gesto imprevedibile dell'artista che apre nuovi squarci alla conoscenza sottraendo l'immagine alla contingenza del significato. E' l'assoluta relatività nel suo flusso contradditorio interno a far esplodere la trasmutazione perenne del segno.
Ma l'impianto dell'opera di Rotella non è affatto monolitico, come si tendeva a credere sino a non molto tempo fa: l'ampliamento degli studi scientifici condotti negli ultimi anni intorno alla sua ricerca (anche grazie al fondamentale supporto della Fondazione Rotella) hanno dimostrato quanto sia sfaccettato il suo percorso all'interno di una disposizione logica dove rimane costante il riferimento alla società urbana e massmediale considerata una sorta d'immenso laboratorio su cui l'artista realizza le sue infinite sperimentazioni.
Il décollage che Rotella per primo ha esposto nel 1955 (la prima mostra degli affichiste francesi è di due anni successiva) non è un gesto isolato.
Sebbene rimanga il vertice della piramide e vada identificato come l'azione più dirompente compiuta dall'artista in grado d'influenzare in maniera determinante l'estetica del dopoguerra, non c'è dubbio che le indagini condotte da Rotella si sviluppino in maniera organica con l'obiettivo preciso di giungere all'identificazione tra stile e linguaggio nell'ambito di una ricerca che s'impone per il suo aspetto fenomenologico.
Non a caso il maestro calabrese, sin dal 1949 quando realizza, in totale solitudine, il Manifesto dell'Epistaltismo dove il décollage era preconizzato dallo strappo della parola e dal superamento del confine tra musica e linguaggio, tende ad imporre un approccio esclusivo e personale alle problematiche estetiche che, in ogni circostanza, vengono sottoposte al vaglio della tecnica intesa, non come prova di abilità fine a se stessa ma, piuttosto, come scatto linguistico in grado di contrassegnare un percorso radicale e trasgressivo. “L'arte che prediligo?”, ha affermato Rotella. “E' libera, euforica, piena d'ironia, né volgare né popolare e mira soprattutto alla creazione di un linguaggio inedito” (3).
Décollage, certo, ma anche tele emulsionate, artypo, effacage e blank. In ognuna di queste circostanze Rotella è protagonista assoluto, inventore lui stesso di metodologie che contraddistingueranno i destini dell'arte. E' lui, per esempio, a battezzare, insieme a Alain Jacquet il termine Mec-Art in cui rientrano le tele emulsionate partendo dalla definizione di mechanical art e, certamente, i suoi artypo, esposti per la prima volta nel 1966 alla Galerie Zunini di Parigi (il termine venne coniato l'anno successivo dal critico Jan Leering in occasione della collettiva Artypo organizzata al Van Abbe Museum di Eindhoven in Olanda), assumono un aspetto radicale e definitivo dove l'artista, appropriandosi in tipografia delle prove di stampa, evita ogni forma di mediazione narrativa o metaforica ponendosi in diretta relazione con i combine painting di Robert Rauschenberg.
Se il décollage nasce come azione-reazione nei confronti del collage, anche gli effacage hanno un loro precedente identificabile nel frottage di origine surrealista. Con la differenza sostanziale che il primo non accetta il dominio dell'originale ma lo modifica, lo deturpa attraverso il procedimento della cancellazione che lo eternizza nella premeditata sfigurazione delle apparenze.
“I frottage li ha inventati Max Ernst mentre gli effacage sono stato io ad inventarli”, ha dichiarato con orgoglio Rotella proprio quando mi apprestavo a realizzare una monografia su questo aspetto spesso trascurato della sua ricerca (4). In effetti, l'effacage va considerata una sua creazione su cui l'artista potrebbe imporre il proprio copyright.
La tecnica, dunque, così come il suo ribaltamento, sono fattori determinanti all'interno di un meccanismo metamorfico che si sviluppa sempre intorno ad un testo preesistente, ad un pre testo inteso come strumento irrinunciabile su cui Rotella conduce la sua azione nient'affatto neutrale di appropriazione indebita del reale.
“Una cosa è la lacerazione che io opero nella strada quando il manifesto mi appare come un momento culminante della natura e un'altra è la lacerazione che, nel mio studio, aderisce a un ordine non solo naturale ma alle mie esigenze di visione e di creazione di qualcosa che sia anche sotto l'aspetto di ready made, una metafora del mondo” (5), afferma Rotella nel 1961 in una lettera scritta all'amico gallerista Guido Le Noci.
Una radicalità che nel 1960 convince Pierre Restany a inserire Rotella, come unico artista italiano, all'interno del movimento del Nouveau Réalisme. Ciò che interessava al critico francese era proprio la “diretta appropriazione del reale oggettuale” (6) che avrebbe portato alle estreme conseguenze i presupposto dadaisti e neo-dadaisti.
Del resto, Rotella, come ho scritto in diverse circostanze, integra la lezione di Marcel Duchamp con quella dei futuristi, in particolare Giacomo Balla e Enrico Prampolini. In tal modo, la neutralità primigenia del ready made si trasforma in un'azione interventista dove la gestualità demistificatoria, acefala e lacerante innesca un meccanismo di rivitalizzazione del reale che sviluppa un flusso dinamico interno che passa attraverso la disintegrazione dell'immagine, finalmente strappata alla sua logica significante, di per se stessa banale e ridondante.
Si tratta di una liberazione progressiva, destinata a creare uno shock imprevisto che va oltre il dato di partenza in un'alterazione semiotica e linguistica destinata a coinvolgere direttamente l'osservatore, parte in causa del processo emozionale e percettivo.
Rotella, al contrario degli artisti pop americani, in particolare Andy Warhol, Jasper Johns e lo stesso Robert Rauschenberg, non ordina il caos ma ne accetta la permanenza esaltandola e questo gli consente di sviluppare un'estetica relazionale ricca di conseguenze sulla ricerca contemporanea.
Rotella non accetta di riprodurre l'immagine dell'oggetto ma ne sconvolge la logica ponendosi in relazione dialettica con quest'ultimo. Per lui vale l'affermazione di Honoré de Balzac per cui “la vita è forma e la forma è il modo della vita” (7).
La peculiarità, non di poco conto, sta nel fatto che la natura pregressa è rappresentata dall'universo artificiale dei manifesti che lui aggredisce a suo piacimento, sgretola, cancella, decolora sino a recuperare l'essenza primaria dell'immagine in un ambito di ricerca dove l'idea primigenia è quella di sviluppare una nuova visione partendo dall'epidermide.
La radicalità di Rotella passa, senza compromessi, attraverso le diverse segmentazioni della sua indagine e giunge, immutata, sino alle grandi opere su lamiere che, per la prima volta in questa circostanza, vengono analizzate come nucleo a se stante nella produzione dell'artista senza rientrare all'interno di una trattazione generica.
Le lamiere sono, a tutti gli effetti, un supporto ma Rotella, con il suo atteggiamento rabdomantico e cleptomane, le trasforma in una rinnovata forma di sperimentazione che consente un ripensamento complessivo di tutto il lavoro da lui realizzato.
La presenza delle lamiere come supporto dei décollage astratti già alla fine degli anni Cinquanta (basti pensare ai due décollage su lamiera del 1958) non è affatto casuale e indica l'attenzione di Rotella verso un materiale che nello stesso periodo entrerà a far parte della ricerca di molti artisti tra cui Alberto Burri, Ettore Colla e Raymond Hains.
Ma è solo tre decenni dopo, nella seconda metà degli anni Ottanta, che Rotella, quasi settantenne,  giunto ormai alla celebrità, decide di ripartire dalla pagina bianca e la lamiera rappresenta per lui il luogo su cui riscrivere il proprio messaggio polimaterico e multidirezionale.
L'artista rimette indietro le lancette dell'orologio ed è nuovamente pronto a stupirsi come se quei fogli di metallo sottili su cui sono attaccati i manifesti non fossero altro che gli appunti di un diario segreto ancora tutto da scoprire.
Non c'è più lo slancio ideologico degli esordi, ma la medesima volontà d'interpretare i crepitii della materia, le lacerazioni anonime della strada, i trascinamenti segnici, le impronte stratificate e contingenti. Tutto questo in perfetta sintonia con quanto aveva affermato nel 1957: “Non potrei sopportare di essere schiavo di un'arte prevedibile e scontata. La mia ricerca si affida non all'estetica, ma all'imprevisto, agli stessi umori della materia. E' come una tromba, un tamburo, un sassofono che suonino da soli. Io sostengo la tromba, il tamburo, il sassofono”. (8)
In tal senso, le opere su lamiera rappresentano un ciclo a se stante dove il supporto entra direttamente in causa partecipando al rinnovamento linguistico.
Rotella, infatti, non si limita a strappare i manifesti dai muri, come faceva negli anni Cinquanta, ma, in una sorta di relazione metonimica, s'impadronisce fisicamente e psicologicamente del contesto urbano, inteso esso stesso come spazio su cui interagire con il proprio gesto.
Insieme ai manifesti, si appropria delle scritte sui muri, di ogni forma di segnale o d'impronta più o meno casuale estendendo la dimensione spaziale ben oltre il décollage tradizionale in base ad una costruzione dove le traccia della pittura e quelle del manifesto stampato creano una parcellizzazione degli elementi compositivi.
Nell'ambito di un'estetica globale, l'artista concepisce la sua operazione in termini di architettura ambientale: “Con le grandi lamiere o i monumenti dipinti, la distanza psicologica ed estetica subisce un mutamento, la pittura non è più un “doppio” del corpo umano, ma si offre come suo environment”, afferma Germano Celant. (9) 
Del resto, questo era l'obiettivo di Rotella espresso già nel 1957 quando dichiarò che avrebbe voluto donare al pannello pubblicitario uno statuto di scultura-architettura (10). E nel 1990 crea, con l'utilizzo della lamiera, due Scultura-architettura dove la manipolazione coinvolge anche la dimensione plastica.
In un'ottica di gigantismo architettonico, va segnalato Coca-cola del 1997 che ben testimonia il gusto ironico e paradossale che ha sempre caratterizzato la sua ricerca. Quell'anno, infatti, Rotella decise di appropriarsi di un enorme manifesto su lamiera in parte cancellato di 22 metri d'altezza che appariva sulla facciata laterale di una casa milanese. La scadenza dei termini d'affissione e la fine delle Olimpiadi di Barcellona, avevano avuto come conseguenza la cancellazione con segni rossi delle scritte pubblicitarie che, tuttavia, continuavano a intravedersi. In alto si stagliava l'immagine retorica della Coca-cola portata in trionfo.
Ebbene, l'artista, dopo aver sempre prelevato gli umori dalla strada, questa volta ha compiuto un simbolico atto di restituzione trasformando, con la sua firma, il gigantesco manifesto in un ready-made installativo. Ma quella che avrebbe potuto essere la più imponente opera di Rotella, qualche tempo dopo, per ironia della sorte, andò distrutta.  
Coca-cola a parte, la lamiera intesa come fattore di resistenza sul quale l'artista deposita il proprio segno, contiene le incisioni rupestri dei lacerti anonimi, le schizofrenie intermittenti e instabili del nomadismo urbano eternamente precario. Così, questo supporto ingombrante irrompe sulla scena dell'arte dal momento che essa stessa si porta dietro la devianza del segno in un confronto fisico con la materia sgretolata e accelerata.
Che si tratti di una nuova virata nel percorso di Rotella, lo sottolineava con chiarezza Restany nel 1987. Il critico francese, in uno dei pochissimi testi esplicitamente dedicati a questo tema scritto in occasione della prima delle due mostre monografiche organizzate dallo Studio Marconi di Milano sulle lamiere, scrive: “Dopo tante versioni dello strappo e tante interpretazioni della fenomenologia lacerante, Mimmo Rotella ci propone oggi un nuovo concetto operativo di intervento fisico sul manifesto strappato. Sulle lamiere metalliche destinate all'affissione pubblicitaria in città e ricoperti di frammenti di carta - avanzi della memoria dei messaggi tipografici anteriori - l'intervento grafico di Rotella segna il marchio vitale del discorso urbano. I graffiti rotelliani si presentano come una calligrafia mimetica del discorso anonimo della città” (11).
Rotella, in seguito ad una delle periodiche crisi attive che attraversano il suo percorso artistico, approda alle lamiere considerandole il mezzo più idoneo per riconquistare nuovi spazi in una fase di profondi cambiamenti. Gli anni ottanta segnano il ritorno alla pittura intesa come recupero di un'identità storica soggettiva dove il segno, nella sua persistenza, decreta l'annullamento del tempo storico in base ad un orizzontalità linguistica. I nuovi selvaggi in Germania e soprattutto la transavanguardia in Italia annunciano la fine di una visione darwinistica dell'arte identificando la perenne mobilità del gesto pittorico e la contaminazione di moduli e stili all'interno di un contesto in perenne mutamento.
In America, dopo il periodo underground, è all'inizio degli anni ottanta che il graffitismo conquista le gallerie newyorkesi per la sua capacità d'imporre una matrice infantile, arcaica e provocatoria assorbendo calligrafie e immagini catturate dalla strada. “I miei soggetti sono la regalità, l'eroismo e le strade” (12), afferma Jean-Michel Basquiat.
Di questo processo di trasformazione, Rotella è perfettamente consapevole e, non a caso, sembra tratteggiare gli anni ottanta con una serie di opere che creano uno spartiacque chiaro tra il prima e il dopo. Si tratta  dei blank (i più imponenti tra questi sono su lamiera tra cui un lavoro di sei metri) che irrompono sulla scena nel 1980 creando un'improvvisa sospensione, un black out comunicazionale, un vuoto inteso come spazio di riflessione.
Ancora una volta Rotella, con un procedimento ipnotico, lascia che la realtà venga a lui e si appropria delle coperture rifacendosi a quella fase di passaggio tra un messaggio pubblicitario e l'altro dove la separazione viene fatta con fogli di carta bianca monocromi applicati sull'immagine. Da queste cancellature nascono opere di notevole importanza dove, sotto l'achrome, naviga l'immagine, traccia di un messaggio silenzioso che si distacca momentaneamente dal mondo e si preserva nella sua assenza apparente.
“Il risultato è forte e suggestivo, anche per via delle pieghe che si formano in superficie” (13), sentenzia Rotella con la sua consueta sintesi.
Se i blank introducono il decennio, negli anni successivi Rotella si fa interprete consapevole del cambiamento in atto e, per la prima volta dopo 35 anni, torna ad utilizzare la pittura che aveva abbandonato nel 1951: “Mi accorgo che la pittura cambia. Stufo della pittura insignificante e retrograda che vedevo in giro, decido di ritornare al pennello e al colore. Insomma, voglio far vedere quale sia la sensibilità nuova e la tecnica del nuovo modo di esprimersi adeguandosi al nostro tempo. Ormai, secondo me, l'estetizzante nell'arte è finito. Si deve tornare a una pittura barbarica di tipo semiespressionista dai colori piuttosto brutti. E', insomma, un'antipittura, una bad painting che poi diventa bella pittura, buona pittura, forte, geniale e quasi magica. Studio, quindi, gli espressionisti tedeschi dei primi del Novecento, ma…la pittura, per avere effetto di vivezza e di spontaneità, deve essere molto rapida” (14), afferma Rotella nel 1987 in quella che potrebbe essere considerata come una vera e propria dichiarazione di poetica.
Quella brutta pittura che diventa bella, semiespressionista e veloce, sfocia nelle sovrapitture, un'ulteriore forma di appropriazione del segno ibridato che può esistere solo in relazione dialettica con il testo preesistente. E sono proprie le lamiere il luogo dove i manifesti squarciati convivono con le interferenze di una pittura sovraesposta e rapsodica, apparentemente casuale e anonima, nata dal desiderio di mimetizzarsi con le infinite stratificazioni del metallo che assorbe, nelle pieghe, ogni forma di tracciato: “Nel 1987 ho cominciato a recuperare vecchi pannelli metallici su cui avevo già incollato manifesti pubblicitari lacerati vi ho dipinto sopra figure, simboli, graffiti che vedevo non solo sui muri della città, ma anche nelle metropolitane e su alcune pubblicità delle riviste” (15), annota Rotella.
Sovrapitture e décollage raggiungono la loro sintesi espressiva compiuta nel contesto dialettico delle lamiere dove i differenti elementi creano un ritmo sincopato, obliquo e provocatorio. Sono scoppi imprevisti della materia, segnali devianti in un contesto disarticolato dove lettere e parole sono incise sulla superficie indelebile. L'immagine della sovrapittura s'insinua tra i décollage generalmente astratti in una chiara relazione con i retro d'affiche degli anni cinquanta. “Quella pre-sintesi dei processi simultanei di esplosione dei linguaggi visivi e sonori”, come afferma Restany (16), si trasforma, negli anni ottanta, in un cortocircuito magmatico urbano, contingente e promiscuo.
La lamiera, del resto, nella sua discontinuità e nel suo ritmo accidentato, appare come il ricettacolo di ogni forma di scrittura, di ogni intreccio multisensoriale e in questo contesto Rotella deposito il suo gesto che, al contrario di quello di Keith Haring o di Jean-Michel Basquiat, non richiede di essere riconosciuto.
Rotella applica con abilità il concetto della mimesi e, molto spesso, copia le scritte anonime spruzzate con lo spray sui muri della strada con la medesima meticolosità con cui gli artisti classici si avvicinavano ai modelli greci. Ma lui non è un writer e fa della realtà urbana un ulteriore elemento di riflessione creando un'aderenza quasi perfetta con gli “originali” sia esso un simbolo dell'anarchia, un turpiloquio sessuale o un paesaggio esotico.
Nell'ultimo capitolo di quell'immenso romanzo sulla strada iniziato nel 1953, Rotella si autosospende ipotizzando il deragliamento finale del segno entrato a far parte della collettività. A lui interessa intercettare la non arte e così come aveva fatto con i manifesti lacerati, negli anni ottanta, risponde alla nuova pittura europea e americana andando incontro all'appropriazione di una realtà anonima che si dissolve nella sua assoluta precarietà. Sovrapittura e décollage sono, dunque, l'ultima grande rivoluzione. Su lamiera, naturalmente.

(1) Otto Pacht, Metodi e prassi nella storia dell'arte, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.37.
(2) Mimmo Rotella, testo che accompagna il catalogo della mostra alla galleria Selecta di Milano (1957), pubblicato in Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1974, p. XV.
(3) Giuseppe Appella, Colloquio con Rotella, Edizioni della Cometa, Roma 1984, p.12.
(4) Il riferimento è alla monografia curata da Alberto Fiz, Mimmo Rotella. Effacage, Torino 2005.
(5) La parole di Rotella sono tratte da una lettera che scrisse al gallerista Guido Le Noci datata 1961 e pubblicata in Pierre Restany, Mimmo Rotella: dal décollage alla nuova immagine, Edizioni Apollinaire, Milano 1963.
(6) Pierre Restany, Nuovo Realismo, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1968.
(7) Honoré de Balzac, in Meyer Shapiro, Lo stile, Donzelli Editore, Roma 1995, p.XI.
(8) Mimmo Rotella, testo che accompagna il catalogo della mostra alla galleria Selecta di Milano (1957), pubblicato in Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1974, p. XV.
(9) Germano Celant, in Mimmo Rotella. Avenue Rotella (a cura di Germano Celant), Skira, Milano 2005. Catalogo della mostra al Museo Tinguely di Basilea 25 ottobre-2 gennaio 2006.
(10) Giovanni Joppolo, Mimmo Rotella, Fall Edition, Parigi 1997, p.56.
(11) Pierre Restany “Le nuove lamiere di Mimmo Rotella” in Mimmo Rotella. Sovrapitture 1987, Studio Marconi Milano 1988, p. 5.
(12) Citazione di Jean-Michel Basquiat in Jean-Michel Basquiat, Charta, Milano 1999, p.80. Catalogo mostra Civico Museo Revoltella, Trieste, 15 maggio-15 settembre 1999.
(13) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, Spirali/Vel, Milano 2002, p. 228.
(14) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, op. cit., p.230.
(15) Mimmo Rotella, L'ora della lucertola, op. cit., p.254.
(16) Pierre Restany, “Uno sguardo sempre all'altezza della situazione” in Tommaso Trini, Rotella, Giampaolo Prearo Editore, Milano 1974, p. VI.