Arte

Sebastiano del Piombo. 1485 - 1547
Sebastiano del Piombo di Claudio Strinati

Sebastiano del Piombo

di Claudio Strinati
Soprintendente Speciale per il Polo Museale Romano

Giorgione ha avuto molti allievi e seguaci. Uno di questi è stato Sebastiano Luciani, passato alla memoria della storia con il nome di Sebastiano del Piombo.
Insieme con Michelangelo, Raffaello, Leonardo da Vinci, un "grande" del Rinascimento, rivalutato nel corso dei secoli dalla critica, ma ancora poco noto al grande pubblico e che per questo sarà il protagonista di un'importante esposizione, la prima a lui dedicata, in tempi moderni, il prossimo febbraio a Palazzo Venezia di Roma.

Studio per la Flagellazione di Cristo, 1516

Michelangelo Buonarroti
Studio per la Flagellazione di Cristo, 1516
Gesso nero accentuato con bianco, Dim: 27,5 x 14,3 cm
Londra, British Museum

Sebastiano compì un tragitto emblematico da Venezia a Roma. Finché fu a Venezia assimilò tutti i comportamenti e tutti gli aspetti più tipici di un ambiente laico e progressista; trasferitosi a Roma, divenne l'interprete più scrupoloso del Rinascimento contraddittorio e travagliato vigente nella Curia Papale. Il suo stesso epiteto, "del Piombo", passato poi a designarlo definitivamente, viene dalla sua vita professionale all'interno della Curia. Era entrato a lavorare in Vaticano come alto funzionario responsabile dell'ufficio della cosiddetta "piombatura" apostolica, un settore di alta rappresentanza dove venivano registrati e inventariati gli atti ufficiali, una sorta di protocollo delle delibere papali, di quella che oggi potremmo definire la Segreteria di Stato. Come Sebastiano avesse ottenuto un incarico del genere non è affatto chiaro. Doveva essere stato, fin dalla sua prima giovinezza, un uomo di apparato, prima nella dimensione salottiera e rilassata della Venezia della sua prima giovinezza e poi nella sua brillante posizione sociale nell'ambito della Curia, posizione che non gli impedì di perdere per lungo tempo il suo carattere giocoso e dedito al divertimento, come egli stesso testimonia in una lettera inviata all'Aretino, in cui certifica l'amico, che, nonostante la sua posizione all'interno della Curia questo non gli impediva di essere sempre il medesimo burlone. Certo era una persona in grado di farsi apprezzare se si pensa che a Roma il primo incarico importante, nella sua professione di artista stimatissimo, gli venne dal principale committente attivo nella Città Eterna, Agostino Chigi, il banchiere del Papa e uno degli uomini più ricchi del suo tempo.

Triplo ritratto, 1510 ca.

Sebastiano del Piombo
Triplo ritratto, 1510 ca.
Olio su tela, Dim: 84,5 x 69,2 cm
Detroit, The Detroit Institute of Arts

Cristo al Limbo, 1516

Sebastiano del Piombo
Cristo al Limbo, 1516
Olio su tela, Dim: 226 x 114 cm
Madrid, Prado

Agostino comandava su tutti e, per ciò che atteneva alla cultura e all'arte, comandava perfino sul Papa. Era lui che, meglio di ogni altro, poteva costruire la carriera di un artista e i lavori fatti da Sebastiano del Piombo nella villa Chigi sul Tevere, oggi nota col nome di Farnesina, giustificarono la stima riposta in lui dal finanziere. Adesso la Villa è inserita nella città e neanche si nota troppo entrando nella zona di Trastevere. Ma quando Agostino la fece costruire era un luogo di delizie. Restarono mitiche le serate sulla riva del fiume quando venivano organizzate cene esclusive e ambìti ricevimenti. Agostino aveva fama di detenere un potere assoluto e si diceva che il Papa fosse nelle sue mani. Quando decise di regolarizzare la sua situazione di convivente, che in un poveraccio avrebbe portato a severe condanne e guai grossi, pretese di celebrare le nozze riparatrici nella sua Villa e come celebrante volle Leone X il Papa Medici figlio di Lorenzo il Magnifico, e il Papa ci andò nella Villa con tutto il codazzo dei cardinali e celebrò il matrimonio sotto le volte della Loggia che Raffaello Sanzio, il primo pittore di Roma e del mondo, si era affrettato a affrescare con le storie di Amore e Psiche. Era il 1519 e Sebastiano del Piombo teneva Raffaello sotto attenta osservazione perché ormai la rivalità tra i due era esplosa in tutta la sua evidenza.


SEBASTIANO E MICHELANGELO
Agostino ormai aveva abbandonato il maestro veneto e tutta la sua stima si era riversata su Raffaello. Di contro Sebastiano si era spostato nel campo avverso e da anni era considerato un po' da tutti il migliore amico di Michelangelo Buonarroti. Certo è che fra i due ci fu un'amicizia strettissima, improntata ad un'affettuosità inconsueta, se si pensa soprattutto al carattere burbero del Buonarroti. Nell'ambiente della Curia la vicenda era nota e resterà nota ed emblematica nella storia dell'arte raccontata dai testi canonici. Si sapeva che a Roma, dal tempo del Papa Giulio II della Rovere, si era creato un clima degno della Atene di Pericle. Sembrava che gli artisti nascessero per una sorta di necessità ineluttabile. Il secolo sedicesimo era cominciato con un miracolo. Michelangelo Buonarroti, ragazzo venticinquenne quasi sconosciuto, aveva realizzato la statua della Pietà un oggetto supremo del desiderio. Sembrò un ordine impartito dal cielo. L'arte, ecco che cosa si doveva fare. L'arte, l'attività più bella e più degna. E si doveva fare a Roma dove i grandi della terra sarebbero convenuti per inchinarsi al potere papale. Giulio II individuò in Michelangelo l'artista per antonomasia e pretese di fare il committente come avevano fatto per decenni rima di lui i vari signori e signorotti sparsi per tutta Italia. Il Papa doveva superare tutte le corti del mondo e uno strumento determinante sarebbe stato quello dell'arte. Ne sanno qualcosa i turisti che quotidianamente ingrossano le file apocalittiche di fronte ai Musei Vaticani. Lì dentro c'è la Cappella Sistina e la Cappella Sistina si deve vedere. Anche non sapendo e non capendo niente d'arte l' incontro con la Cappella Sistina è imprescindibile. La volta e il Giudizio Universale di Michelangelo sono l'arte in sé, anzi sono l'apoteosi dell'arte e Giulio II lo aveva capito bene. Logicamente nacque all'epoca una emulazione feroce e rimasero celebri i contrasti tra gli artisti. Tutti sapevano che Michelangelo incontrando per la strada Leonardo da Vinci neanche lo salutava e tutti sapevano che Michelangelo detestava il giovane urbinate Raffaello che in pochi anni era riuscito a scalzarlo dalla posizione di artista sovrano e sapeva come lusingare i potenti. Michelangelo non lo sapeva ma aveva la chiara sensazione che bisogna attrezzarsi per mantenere il potere. Bisogna, per esempio, fare squadra e provò a farla anche se non ne era capace. Aveva bisogno di avere vicino a sé dei fedeli seguaci, degli allievi che lo assistessero e propagassero la sua opera. Aveva pensato che Sebastiano Luciani, il veneto che manifestava un enorme talento per la pittura e un immenso rispetto per lui, fosse la persona adatta. Cominciarono a fiorire le leggende. Si diceva che Sebastiano, proprio perché allievo di Giorgione, in realtà non sapesse disegnare sul serio e quindi non fosse in grado di concepire vere e proprie composizioni pittoriche. Era il motivo per cui Giorgione aveva sempre lavorato in piccolo. I suoi capolavori erano quadretti come la Tempesta che ancora oggi si vede esposta nelle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Bellissima, enigmatica, affascinante quanto si vuole ma fatta di niente. Giorgione era stato una specie di poeta in figura. Aveva fama di grande seduttore, di conversatore amabilissimo, di uomo di mondo, di musicista dilettante che cantava e suonava il liuto strumento di potente seduzione. Nei suoi quadri c'era la quintessenza del suo essere ma a ben vedere la qualità intrinseca del suo lavoro era discutibile. Questo almeno si diceva e questo si diceva anche di Sebastiano. Per molti versi assomigliava al suo maestro. Era anche lui uomo di società, ben inserito negli ambienti giusti. Aveva tutte le caratteristiche richieste e il liuto lo suonava pure lui e forse meglio del Giorgione date le sue frequentazioni con i grandi del tempo. Sebastiano aveva persino fatto il ritratto a Obrecht e a Verdelot, due dei più grandi compositori dell'epoca e in quanto a dottrina e finezza non scherzava. Non sarebbe diventato ufficiale del Piombo altrimenti. Ma aveva preso da Giorgione pure qualche difetto e non è che fosse proprio un disegnatore supremo. Allora cominciarono a spargersi le chiacchiere. Si diceva che Michelangelo avesse preso a ben volere Sebastiano e che lo aiutasse segretamente. Gli forniva disegni e lo sosteneva per fargli ottenere incarichi. Proprio le cose migliori che Sebastiano tirava fuori erano gravate da questo sospetto. Michelangelo gli guidava la mano. E lo guidava anche nelle cose della vita in generale. A Viterbo, dove c'era già latente un circolo di simpatizzanti per quella che di lì a pochi mesi sarebbe stata descritta come la Riforma protestante pronta a esplodere in tutto il suo tragico impatto, Sebastiano aveva ricevuto l'incarico di fare una maestosa Pietà per la chiesa di s. Francesco della Rocca. Era un capolavoro ma correva voce che il disegno del mirabile corpo del Cristo morto lo avesse fatto Michelangelo e Sebastiano lo avesse dipinto con lo scrupolo e la competenza che gli venivano comunque riconosciuti. Poi Raffaello era morto giovane di trentasette anni nel 1520 e Michelangelo aveva cercato di inserire subito Sebastiano tra coloro che sarebbero stati incaricati di completare le cose lasciate incompiute dall'urbinate, ma senza risultato. E senza risultato era rimasta anche la strana gara che il cardinale Giulio de' Medici aveva indetto poco tempo prima proprio tra Raffaello e Sebastiano.


DALLA CORTE PAPALE ALLA MALINCONIA
Questo episodio è rimasto epico. Il cardinale era un uomo potentissimo che sarebbe poi diventato Papa col nome di Clemente VII e avrebbe visto otto anni dopo i Sacco di Roma. Era stato nominato in quel tempo cardinale titolare della Cattedrale di Narbonne. La famiglia Medici teneva rapporti privilegiati con la Francia e Giulio volle approfittare dell'occasione per dare un segno della potenza artistica di Roma. Volle che venisse fatta la più bella pala d'altare dell'universo e collocata nella sua chiesa a gloria sua, dell'Italia e della forza della Chiesa nel contesto internazionale. Lutero aveva appena proclamato la condanna al Papa, a Roma, e al culto pagano dell'arte messa al posto della coscienza e della fede in Cristo. Quindi il cardinale Giulio pensò di dare una lezione al monaco agostiniano e a tutti i suoi seguaci proprio attraverso l'arte. Su un punto le obbiezioni di Lutero alla Curia romana apparivano condivisibili per tutti. La chiesa costituita nel nome di Cristo lo aveva dimenticato e l'arte ne era la prova tangibile. Con tanti lavori immani che si stavano facendo negli ultimi venti anni tra architetture colossali, sculture monumentali, dipinti, affreschi, codici miniati, oggetti liturgici, nessuno si ricordava mai di rappresentare l'immagine del Redentore. Michelangelo, certo, aveva esordito proprio con la Pietà e quest'opera si era impressa nell'immaginario collettivo ma poi anche lui aveva pensato a altro e aveva pure cambiato stile rispetto a quello bellissimo e purissimo della sua prima gioventù. Era rimasto solo Sebastiano del Piombo a proporre ogni tanto l'argomento principe della cristianità. Sebastiano si era distinto, in questo senso, per un lavoro destinato a diventare a suo volta un simbolo dei tempi nuovi, quando nel 1516 e il 1524 aveva dipinto la cappella dei signori Borgherini nella chiesa romana di s. Pietro in Montorio. Qui il tema del Cristo era ritornato nell'arte romana in tutta la sua potenza e suggestione. Ancora una volta era girata la solita voce. Michelangelo gli avrebbe dato i disegni per dipingere sul muro della cappella la Flagellazione di Cristo. Sebastiano sapeva usare la tecnica dell'olio sul muro quasi sconosciuta ai pittori romani che lavoravano l'affresco e aveva lasciato sbalorditi i primi osservatori per la magnificenza del risultato. Lo si può vedere ancora oggi anche se va ricordato come l'olio sul muro tenda a scurire enormemente. Ma era proprio quello che Sebastiano voleva e che inizialmente non era stato notato. E' che Sebastiano voleva dipingere "scuro" e questo fatto non dipendeva da Michelangelo ma dalla sua ispirazione. Quando la cappella Borgherini fu compiuta si capì un po' meglio chi fosse Sebastiano del Piombo. Il disegno era gigantesco e solido ma le immagini apparivano meste e frustrate come se un velo di possente malinconia fosse stato calato sulla sacra rappresentazione. Si capiva meglio l'intenzione del maestro. Era quella di entrare nella dimensione del buio e della notte quando tutto ancora può essere visto ma sta sprofondando nell'oscurità. Gli storici del futuro avrebbero potuto così interpretare l'intera sua parabola in questa chiave. Il tema cristologico rientrava a pieno titolo nell'arte sacra ma non nell'ottica della luce che rischiara il mondo, bensì in quella del dolore universale che il Redentore carica su di sé. Sebastiano, trasferito a Roma, aveva vissuto una vera e propria crisi esistenziale perché non era nato così. Anzi il suo essere veneto lo aveva spinto inizialmente nella direzione opposta. Quanti quadri aveva fatto nella esaltazione del nudo femminile, della mitologia classica, nel culto della pienezza dell'esistenza riflessa nella memoria di un passato inattingibile e mai esistito! Ma a Roma l'impatto era stato micidiale. Non era il solo a pensare che fosse possibile, anzi auspicabile, dipingere oscuramente. Altri della sua stessa generazione, in altri luoghi d' Italia stavano giungendo alle stesse conclusioni. Ci stava arrivando il principe dei pittori fiorentini Andrea del Sarto, ci stava arrivando il più potente tra gli artisti padani Dosso Dossi. Ma Sebastiano era immerso nella realtà romana gravata da una sorta di angoscia dell'inevitabile. Sentiva che il Rinascimento non esiste, che la nuova Atene era una fola, che la consacrazione della Chiesa cattolica attraverso lo strumento privilegiato dell'arte celava una gigantesca ambiguità in quegli stessi che sembravano crederci. Percepiva che il talento non bastava più per garantire il mestiere dell'artista. L'epopea titanica di Michelangelo sarebbe certo sopravvissuta e sarebbe stata sempre interpretata come un vertice insuperabile una stagione paradisiaca per l'umanità civilizzata. Ma capiva che era una stagione all'Inferno quella che tutti stavano vivendo e Lutero con i suoi poteva adesso apparire come un monito colossale per le coscienze, un incitamento a guardare oltre l'apparenza. Sebastiano, almeno, la prese così e il suo orientamento verso l'oscurità era un modo per uscire dalle incertezze. Ecco allora che le maldicenze ancora di più cadevano su di lui. Faceva così, si diceva, perché non sapeva disegnare, perché era stentato, perché non si dedicava all'arte con dedizione assoluta. Era appartato e severo ma tutti capivano che, invece, aveva reinventato la pittura che celebra l'essenza stessa della cristianità.


LA GARA CON RAFFAELLO. TENEBRA CONTRO LUCE
A quel punto il cardinale Giulio de' Medici lo chiamò e gli chiese di fargli il quadro per la cattedrale di Narbonne ma lo avvertì che la stessa cosa aveva chiesto a Raffaello Sanzio. Poi avrebbe scelto il migliore. Questa, almeno, è la leggenda e forse andò proprio così. Nessuno vinse la gara ma i due quadri rimasero a maggior gloria dell'arte in sé. Il quadro di Sebastiano ora è a Londra nella National Gallery e rappresenta la Resurrezione di Lazzaro. Il quadro di Raffaello è ai Musei Vaticani e rappresenta la Trasfigurazione di Cristo. Sono molto belli entrambi e il contrasto si capisce bene vedendoli vicini. E' probabile, però, che questo non accadrà mai perché le autorità di Londra non permettono che la Resurrezione di Sebastiano lasci il museo dato l stato di conservazione e le autorità Vaticane non consentono che la Trasfigurazione esca dai confini dello Stato. Ma mentalmente il confronto si può fare e si capisce che il quadro di Raffaello è il regno della luce e quello di Sebastiano è quello della tenebra. Però da un punto di vista ideale Sebastiano aveva vinto la gara ancor prima di cominciarla perché il tema prescelto era più su che del rivale. Si dovevano rappresentare due argomenti inerenti al mistero di Cristo decifrato in chiave iniziatica. Una forma di interpretazione che poteva e doveva essere intesa anche da chi, per avventura, avesse aderito alle tesi luterane o, addirittura, non fosse credente così come era richiesto dalla mentalità dell'epoca. E fu Raffaello a tenere in considerazione la sorda rabbia di Sebastiano Luciani, che forse a quel tempo non ne poteva più delle scemenze dette sul suo conto, sul rapporto con Michelangelo, sulle sue attitudini e i suoi gusti. Sempre gli studiosi hanno notato lo sfondo solenne della scena dipinta da Sebastiano nella Resurrezione di Lazzaro. Si vede, nel buio della notte che pure ci concede di guardare, il Tevere in lontananza e le donne sulla riva che lavano i panni in ginocchio. Davanti Cristo e Lazzaro si fronteggiano come in un incontro di lotta quando la folla degli increduli si accalca e scruta. Lazzaro è risorto e si profila come un gigante forte e minaccioso mentre il Cristo lo tiene a bada, perché l'arte in sé ha una forza che è opportuno comprimere e vigilare. Poi ci fu il Sacco di Roma e Sebastiano che prima aveva fatto il ritratto a Clemente VII quando era giovane e audace, glielo rifece dopo per come si era ridotto, precocemente invecchiato e con la barba lunga. Michelangelo aveva altro a cui pensare e i tempi stavano cambiando. La fama di Sebastiano era arrivata fino in Spagna e i suoi lavori erano sempre più rari e meditati. L'ultimo incarico fu la Nascita della Vergine per la chiesa di s. Maria del Popolo. Una enorme pala d'altare da dipingere su lastre di ardesia con la tecnica della pittura a olio. Una vera sfida perché in quel modo il colore può resistere bene al passare del tempo. Morì nel 1547 a sessantadue anni senza essere riuscito a portare a termine la sua ultima fatica.