Arte

Le meraviglie di Venezia. Dipinti del '700 in collezioni private
Un percorso tra dipinti di storia, ritratti, scene d'interni, paesaggi: immagini di Venezia nel Settecento di Annalia Delneri
Vedute esatte e vedute ideate da Carlevarijs a Bison di Dario Succi

Un percorso tra dipinti di storia, ritratti, scene d'interni, paesaggi: immagini di Venezia nel Settecento

di Annalia Delneri
Curatrice della mostra Le meraviglie di Venezia. Dipinti del ‘700 in collezioni private (Gorizia - Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia - Palazzo della Torre - Dal 14 marzo al 27 luglio 2008)

Estratto dal testo in catalogo Marsilio

Ad aprire la grande stagione internazionale della pittura veneziana del Settecento furono i pittori di "storia", termine che definiva i grandi decoratori di chiese e palazzi, specializzati in dipinti di figura sacri e profani. Tuttavia la clamorosa affermazione di Sebastiano Ricci, Giovanni Antonio Pellegrini e Jacopo Amigoni, ovvero dei pittori che avevano saputo indicare nuove vie e che divennero gli artisti più contesi dalle corti italiane ed europee, avvenne fuori Venezia. Nella città lagunare i pittori di maggior successo nei primi decenni del secolo furono Antonio Bellucci, Gregorio Lazzarini, Antonio Balestra, Nicolò Bambini, maestri ancora legati al gusto seicentesco che registrarono con molto ritardo la vitalità della pittura "moderna".

Francesco Guardi - Il Canale della Giudecca verso Santa Marta (particolare) - Olio su tela, 13x18,2 cm

 Giuseppe Zais - La mosca cieca - Olio su tela,56,2x46,7 cm

Luca Carlevarijs - La Piazzetta dal Molo - Olio su tela, 43x56 cm

Giuseppe Zais - Il ballo col tamburello - Olio su tela,56,2x46,7 cm

Lorenzo Tiepolo - Maschere veneziane - Olio su tela, 49,5x72 cm

Protagonisti del primo decennio del secolo furono Ricci e Pellegrini e il percorso della mostra inizia con il loro confronto diretto attraverso due stupendi dipinti inediti raffiguranti lo stesso soggetto, Rebecca al pozzo. Tali opere si collocano tra il 1709-1710 (Pellegrini) e il 1712-1713 (Ricci) e la loro smagliante superficie cromatica rimanda alle faville dell’antagonismo tra i due, sempre risoltosi con un vantaggio per l’arte.
Giovanni Antonio Pellegrini entrò in contatto per la prima volta con Sebastiano quando entrambi lavoravano nella villa di Noventa padovana dei fratelli Giovanelli. Secondo Mariuz quell’episodio fu importante perché "segna l’avvio di un rapporto di concorrenza fra i due artisti, specialisti di pittura decorativa e di "storia" su scala monumentale, entrambi impegnati a rinnovarla in un’interpretazione più briosa e sciolta, nel segno dell’eleganza piuttosto che della magnificenza: una interpretazione per la quale Pellegrini risulta, d’altronde, debitore al collega ". A quell’epoca Pellegrini aveva però solo ventidue anni e difficilmente poteva immaginare di rivaleggiare con Ricci, che da oltre un ventennio era al servizio di principi e sovrani; più probabile è che avesse invece guardato a Sebastiano come a un maestro e che, come sostenuto da Scarpa, si fosse posto in un rapporto di alunnato, quantomeno culturale. Il buon rapporto tra Ricci e Pellegrini è confermato dalla collaborazione instaurata da quest’ultimo con il nipote di Sebastiano, Marco Ricci: nel 1707 Pellegrini chiese a Marco di collaborare con il fondale paesaggistico nel Mosè e il serpente di bronzo che stava portando a termine per la chiesa di San Moisè a Venezia; nell’ottobre 1708 il rapporto tra i due artisti si strinse ulteriormente quando entrambi partirono per l’Inghilterra su invito di lord Manchester in qualità di scenografi per l’Italian Opera del Queen Theatre di Haymarket a Londra. La collaborazione tre i due continuò nella decorazione di Castle Howard, York, ma i rapporti si guastano quando, nel 1711, Pellegrini fu invitato a partecipare al concorso per la decorazione della cupola di Saint Paul e Marco Ricci tornò precipitosamente a Venezia per convincere lo zio Sebastiano a presentarsi al concorso londinese. Il viaggio fu molto breve e, agli inizi del 1712, l’artista riprese la via per l’Inghilterra accompagnato dallo zio.
A Londra Sebastiano Ricci incontrò un Pellegrini che non era più l’artista ventenne e ancora impacciato incontrato a Noventa padovana perché, come efficacemente sintetizzava Francis Haskell, in Inghilterra l’artista "quasi come una farfalla smagliante, lasciò cadere gli ultimi frammenti della dura crisalide seicentesca che aveva fino ad allora impedito le sue già audaci creazioni. In una serie di mitologie, "historie", capricci e ritratti, venne nascendo uno stile nuovo: senza peso, sensuale, qualche volta goffo e melodrammatico, ma quasi sempre libero da tensione". Sebastiano, indotto dal nipote Marco ad un confronto diretto con Pellegrini, scoprì il nuovo stile dell’artista restandone indubbiamente affascinato e, con la fulminea rapidità che lo contraddistingueva, compì un aggiornamento stilistico che lo portò a realizzare durante il secondo decennio del secolo opere di scintillante fantasia cromatica, dipinte con un tocco lieve ed eccitato che esprime la gaia briosità del nuovo gusto rococò.
All’Europa, più che a Venezia, è legata anche la fortuna di Jacopo Amigoni che, allievo di Bellucci, seguì il maestro a Düsseldorf, dove questi lavorava per l’elettore palatino. Nel 1717 Amigoni fu in Baviera al servizio dell’elettore palatino Max Emanuel II; tornato a Venezia dopo un breve soggiorno a Roma, nel 1729 partì per l’Inghilterra dove, pur lavorando per una committenza molto diversificata, ebbe la sua fase artistica più produttiva e felice. Tornato a Venezia nel 1739 fu tra gli artisti prescelti da Francesco Algarotti per rappresentare la scuola veneziana del tempo nella galleria di Augusto III a Dresda. Nel 1746 partì per Madrid dove assunse l’incarico di pittore di corte.
I raffinati idilli mitologici proposti nel percorso espositivo danno la misura "di quanto intensa fosse la partecipazione di Amigoni alla temperie arcadica che connota tanta parte dell’epoca: qualificandosene fra i creatori e i protagonisti, per lucidità razionale che nella sua espressione poetica si accompagna alla sensitività più avvincente".
La successiva generazione di grandi artisti veneziani è rappresentata dai fratelli Gianantonio e Francesco Guardi. Il Muzio Scevola davanti a Porsenna appartiene alla limitata attività di Francesco pittore di figura, che in quest’opera rende con notevole aderenza imitativa il brillante cromatismo di Gianantonio, da cui si distingue per il personalissimo uso di contornare le forme con una scrittura spigolosa e contorta di derivazione altoatesina. Le differenze che contraddistinguono Francesco da Gianantonio emergono chiaramente confrontando il Muzio Scevola con Il trionfo di Scipione di mano del maggiore dei fratelli. Qui le figure sono interpretate nella chiave "illusionistica" che è propria di Gianantonio: la luminosità traslucida dell’episodio sfrangia i contorni delle figure dissolvendo la solidità delle forme costruite con tocchi guizzanti di cromie iridescenti. Ritroviamo nella qualità di questo dipinto i caratteri dell’arte antoniana perfettamente descritti da Morassi: "una fusione ineffabile delle qualità preclare del colorismo veneto del Settecento: dall’intenso calore di Sebastiano Ricci alla luminosità solare del Tiepolo, dal "chiarismo" di Pellegrini all’atmosfera agitata del giovane Canaletto, dalla nutrita plasticità del Piazzetta al delicato ed evanescente impasto cromatico di Rosalba Carriera, appunto. Un crogiolo di quelle vivide sostanze che l’arte di Venezia era riuscita a filtrare in secoli di raffinata incessante elaborazione poetica".
Dal 1700 Rosalba Carriera inizia a conservare la sua corrispondenza, formata dalle lettere a lei indirizzate e dalle minute delle sue risposte, e nel corso di quasi tutti gli anni venti tiene un Diario in cui annota puntualmente i fatti della giornata: le visite, i lavori in corso, le spese e i compensi, i ritratti su cui sta lavorando; saltuariamente vi è anche un cenno agli stati d’animo, soprattutto se negativi. Franca Zava sottolineava che "di pochi artisti, certamente di nessun artista veneziano, ci è dato di conoscere la vicenda umana e creativa con la puntualità pressoché quotidiana che distingue il caso di Rosalba Carriera". Da queste carte emerge come la pittrice sia stata al centro di una rete di relazioni europee che comprendeva sovrani, esponenti dell’alta aristocrazia e diplomatici, connoisseurs, pittori contemporanei e, naturalmente, i familiari. Il grande fascino che l’arte di Rosalba esercitava sui contemporanei dipende in gran parte dalla sensibilità del suo agire artistico perfettamente accordato alle istanze e al gusto del tempo.
Nelle miniature, ma soprattutto nei ritratti a pastello, l’artista creò due "generi" per soddisfare esigenze diverse: il ritratto che aveva "il dono di una sua intima naturalità esistenziale congiunta a un’interiore, naturalissima grazia"; i "ritratti di genere", messi a punto dall’artista nel terzo decennio del secolo, dove deliziose fanciulle, accompagnate da piccole connotazioni di contenuto, raffigurano le Stagioni, le Muse, le divinità classiche, i costumi dei paesi esotici diventando l’oggetto del desiderio di committenti raffinati come Joseph Smith o prestigiosi come Augusto iii di Sassonia e re di Polonia. La naturalità del ritratto viene esemplificata nella mostra da tre pastelli – Ritratto di giovane cantante, Ritratto di Faustina Bordoni, Ritratto di William Hamilton bambino. Nel primo Rosalba coglie la personalità intensa dell’effigiata illuminandole il volto che appare bellissimo, nonostante i tratti non rientrino esattamente nei canoni della bellezza classica. La sicurezza interiore della virtuosa si riflette nella genuina naturalezza con cui si atteggia nella posa ufficiale, rivelando con grazia squisita un carattere forte unito ad una generosa disponibilità. Il luminoso e sereno volto di Faustina Bordoni palesa autorevolezza, vivacità, fierezza. Rosalba lo costruisce con grande naturalezza accostando i colori tono su tono, raggiungendo una forza ed una sincerità espressive che non concedono abbellimenti e "sentendo " il carattere dell’effigiata con una determinazione razionale ed illuministica. Le sembianze del piccolo Hamilton, con i capelli biondi quasi rossi, la chiara carnagione inglese, le guance soffuse di rosa, la bocca dischiusa, pronta al sorriso, gli occhi vivaci ed intelligenti color nocciola, sono restituite con immediatezza delicata e gioiosa per rendere la grazia e la gaia spensieratezza dell’infanzia con naturalezza, senza affettazione.
Tra gli esempi di "ritratti di genere" si segnala la Cleopatra dove la genuina naturalità della fanciulla si configura poeticamente come l’immagine vivida ma impalpabile di un sogno, sospesa nella vibrante azzurrità di un’atmosfera di sottile seduzione.
Affatto diversi dai ritratti di Rosalba Carriera sono quelli del veronese Pietro Rotari. I volti di fanciulla presentati esemplificano la ricercata e codificata ritrattistica dell’artista che svapora i tratti individuali in omaggio all’ideale della grazia femminile: la materia impalpabile del pastello fa affiorare nelle giovani fisionomie le tonalità di stati d’animo sapientemente atteggiati per piacere allo sguardo degli altri, in perfetta sintonia con le attese e la sensibilità del rococò europeo.
Molto apprezzata dai contemporanei fu anche la ritrattistica di Giuseppe Nogari. Nel 1736 il conte Tessin, consigliere artistico di Cristina di Svezia, in visita a Venezia valutava l’artista come "veramente ammirevole, scrupoloso, imitando la Natura come un fiammingo". Nogari era famoso soprattutto per le "teste di fantasia" e i ritratti immaginari a "mezza figura" fortemente influenzati da artisti nordici e specialmente da Rembrandt, raffiguranti di solito uomini e donne in età avanzata.

Gorizia, 13 marzo 2008