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Fedele ricordo di Bruno Cassinari

Raffaele De Grada

L’avventura cominciò nel 1935, nello studio milanese di Renato Birolli in Piazzale Susa con Sassu, Guttuso e Luigi Grosso, ci interrogavamo sul futuro: "Che faremo domani?". Birolli allora frequentava con rispetto e anche ammirazione lo studio di Carlo Carrà in via Pascoli, ma non ne era affatto un allievo.
La sua fantasia, animata da un colore veneto (Birolli di Verona), non sopportava di rinchiudersi nello schema chiaroscurale della pittura del Novecento vincente, preferiva esaltare l’aspetto strano dei circhi di periferia coi loro variopinti clown e l’aria limpida delle domeniche di festa (La Nuova Ecumene, Domenica delle Palme, il ricordo di una festa in Sicilia dove egli si era recato per trovare il suo amico Guttuso). Birolli aveva una gran voglia di gioia, di celebrazione decorativa come quella dei maestri del Quattrocento veneto. Nella sua opera non vi era alcuna traccia di quella sofferenza espressionistica che poi a torto gli è stata attribuita.
Voglio chiamare avventura questo incontro di artisti e critici (ricordo bene Sandro Bini, cultore di Birolli, che morì sotto un bombardamento nel 1944). Essa si concretizzò quasi subito in quel movimento artistico che, dalla rivista, è stato chiamato Corrente e che, sulla prima spinta di Birolli, Sassu e Guttuso si nutrì di due artisti straordinari, Bruno Cassinari e Ennio Morlotti. Giova confermare che esso fu un movimento che ruppe con l’idealismo concettuale, più o meno neoclassico, del Novecento milanese.
È bene ricordare quegli anni determinanti dell’anteguerra prima che la riscoperta dell’arte francese, specialmente di Picasso, nel dopoguerra, trascinasse alla trasformazione del gusto.
Si capì subito che Cassinari non era un seguace di Birolli, era un personaggio nuovo che si affacciava sulla scena italiana. La sua sensorialità (più che semplice sensibilità) lo teneva al disotto dell’idealismo di Birolli, ma nello stesso tempo la carica umana di Cassinari lo poneva al di sopra della prima fase di Corrente, sciogliendo la rigidità dei principi estetici del primo Birolli. Io sono stato testimone di questa dialettica in progresso che manteneva un legame, ma anche separava, il carattere di questi amici artisti. Fin da principio, appena Cassinari era uscito dall’Accademia di Brera dove con Morlotti era iscritto alla scuola di Aldo Carpi, il pittore aveva superato il senso decorativo della prima fase birolliana per comporre figure veramente umane intorno alle quali si concentravano oggetti e fondi dipinti in funzione rappresentativa.
L’arte di Cassinari è stata fin da principio salutata dal successo che ha toccato un vertice importante con il Premio alla Biennale Veneziana del 1952, quando Bruno era ancora giovane, successo che poi si è confermato internazionalmente con una grande mostra alla Kunsthalle di Darmstadt e poi con tutta una serie di "antologiche" che si sono concluse con quella che la sua città Piacenza gli ha dedicato, curata da Gian Alberto Dell’Acqua, con 67 opere di pittura e scultura e numerosi disegni.
Ma se abbiamo insistito sugli esordi di questo artista, fortunato fin da principio, da quando vinse il primo premio nazionale ai Littoriali della Pittura (1939) e ottenne un premio importante nel famoso Premio Bergamo del 1942, è per segnalare l’originalità di questo artista fin dagli inizi.
In questa mostra di Lecco rivediamo opere come La Madre (1936), Casa sulla collina (1946), Il Priore di Graveglia (1948), Il cappello verde dello stesso anno. Viene a mente che Cassinari fu presentato per la prima volta non da un critico ma da un letterato del livello di Elio Vittorini che vide nel giovanissimo pittore uno che "scavava il mondo per strappargli grida di colore" e concludeva che "una grazia gli ha perforato le mani".
Ebbene oggi, a dodici anni dalla sua morte, si ritorna lì: Cassinari, dotato di quella grazia, ha percorso la sua vita inventandosi, rinnovandosi in una lunga collana di immagini colorate che si distinguono nella storia dell’arte del XX secolo per averci donato momenti di felicità in mezzo al pianto e alle tragedie del secolo. Cassinari ha saputo sollevarsi sopra di esse per restituirci la felicità del vivere.
Quando vidi i primi quadri di Cassinari, che allora aveva già il suo studio in Via San Tomaso, fui colpito da quella sua capacità di cesellare il colore di una "natura morta" cosicché i frutti di un arancio tagliato, un limone, una pera, brillavano di una luce intensa e piacevole, incastonate nei ramagi di una coperta, senza chiaroscuro tonale. Abituati al chiaroscuro novecentesco, che dava il senso di una perenne penitenza, quelle immagini mi sembravano una vittoria della luce sull’ombra.
Cassinari, prima che da pittore, aveva studiato da orafo. Aveva forse trasferito il gusto del cesello sulla tela colorata? Il colore di Cassinari era diverso anche da quello degli amici di Corrente, non il rosso ossessivo di Sassu, non quello drammatico di Guttuso, non quello chiarista, di alta decorazione, di Birolli.
Perché? Come si spiega?
Non si tratta soltanto di un fatto formale né di disposizione naturale di temperamento. Ammesso che nel movimento di Corrente si manifestasse un indirizzo generale verso il realismo, ciò non voleva dire che ciascun artista non scegliesse la sua particolare "realtà" nell’ambito di questa cultura. Cassinari, per quanto antifascista, per quanto alieno ai rumori di guerra (sono noti i suoi continui tentativi di evitare il servizio militare) manifestava la sua reazione alle sciagure del fascismo e della guerra dipingendo quella Pietà (1942) che è una chiara immagine del dolore nell’accoglienza del Cristo morto in un dolce manto di colore verde.
Più che alla agitazione per un mondo nuovo Cassinari si sentiva disposto a recuperare la verità, fuori dalla retorica formalista, del mondo contadino, la bellezza di un fiore sul chiarore di una sedia impagliata, il faccino pulito di una ragazzina di paese come Rosetta. Il massimo della cruenza per Cassinari era un Bue squartato, ma non così tragico come quello dipinto da Mafai in quegli stessi anni, visto invece con quella ammorbidita dolcezza con cui per Pasqua, nelle macellerie di paese, si presentavano queste povere bestie squartate tutte infiocchettate di carte colorate.
D’altra parte, nella sua forte ritrattistica del tempo, il colore di Cassinari si modula di grigi, marroni, bianchi luminosi. Dopo La Madre, che si staglia come monumento perenne nell’immaginario di Cassinari, ecco il Ritratto di vecchia signora con la sua armonia di grigi e di bianchi. È del 1943.
Dopo la fine della guerra Cassinari, come il suo amico Morlotti e il giovane Treccani, fu coinvolto in un vortice, di cui al momento non ebbe forse neppure coscienza. La rivista Il ’45, promossa da Elio Vittorini, che intendeva rilanciare la cultura italiana umiliata e cancellata dalla guerra, sul piano europeo, lo ebbe tra i collaboratori; poi tutte le vicende che portarono alla Nuova Secessione e al Fronte Nuovo delle Arti e alla successiva rottura del medesimo; infine il viaggio a Parigi con Morlotti e la "scoperta" di Picasso.
Dovrei dire "riscoperta" perché Picasso è stato famoso come maestro del Cubismo, ai primi del secolo, ammiratissimo poi dai pittori del Novecento (ne riporto una testimonianza personale). E la generazione successiva, la mia, conosceva benissimo Picasso.
Si trattò dunque non di una scoperta ma di una "riscoperta". E tra il formalismo cubista e quello neoclassicista del Novecento, fu sollevato sull’altare dell’arte il Picasso che aveva fuso la forma cubista con i contenuti tragici e assillanti di Guernica, la cittadina spagnola che fu la prima a subire la distruzione ad opera dei micidiali bombardieri dell’aviazione nazista al servizio dell’esponente massimo della reazione fascista, il generale Franco. Il grande pannello di Guernica, esposto nel padiglione della Repubblica spagnola nell’Esposizione Universale di Parigi del 1937 diventò subito il simbolo della barbarie nazifascista, ma molti non capirono quel "simbolo" che sarebbe presto ritornato realtà, nella pratica delle distruzioni che i nuovi strumenti di guerra, quelli aerei, caratterizzarono la seconda guerra mondiale.
Il pannello di Guernica era rimasto nascosto per tutti gli anni di guerra e dell’occupazione tedesca dell’Europa, fu riesposto al pubblico nel primo dopoguerra. Il viaggio a Parigi dei nostri giovani artisti fu come un pellegrinaggio alla Mecca, essi riportarono in Italia il culto di Guernica come fosse la reliquia di un santo.
Anche Cassinari fu toccato dalla magia picassiana, ma non in senso religioso, nel culto di Guernica. Fu incantato invece dai dolci riposi picassiani sulle coste del Mediterraneo, tanto che dal 1949 Cassinari stabilisce temporaneamente un soggiorno ad Antibes, vicino alla villa di Picasso.
In sede critica retrospettiva bisogna fare un passo avanti per capire il passaggio di Cassinari in quegli anni che ci portano in pieno alla sua stagione felice degli anni Cinquanta. Nel libro pubblicato dal Milione nel 1950, definivo l’arte di Cassinari: "Strappare al contingente un barlume di vita, tanto bella, che fugge o che si corrompe lasciando l’amaro, per accrescere il grande popolo dell’arte di un nuovo esemplare. Questa umanità monumentale, ma sanguigna, sostenuta di stile ma mai stilizzata, vive in paesaggi semplificati, in mezzo ad oggetti assaporati, in quei paesaggi e in quelle nature morte che Cassinari non contamina mai con le sue figure. Perché uno dei due elementi diventerebbe occasionale rispetto all’altro, quindi estraneo al mondo fantastico di Cassinari; e bisogna invece ricostruirlo validamente, centimetro per centimetro, perché viva eterno. Questo importa a Cassinari".
Mi sembra che questa sia la chiave per spiegarci il progresso di Cassinari fino al periodo di Antibes e oltre, fino alla fine del suo percorso. Partendo da un dato di natura, i paesaggi, le nature morte, le figure (nudi e ritratti) si compongono in un insieme "astratto-concreto" (per usare una definizione di Lionello Venturi), creando un universo in cui tutti gli elementi, che a sé stanti non andrebbero oltre il significato naturalistico, tutti insieme, perdendo la loro specifica identità figurativa, creano un’armonia superiore che trasfigura un porto in una natura morta, un nudo in un paesaggio, un ritratto in una metafisica composizione.
Gli elementi formali del cubismo sono adoperati da Cassinari con spigliata naturalezza perché egli fino all’ultimo non ha accettato la valenza formalistica, astratta, del cubismo. In tal senso egli è stato sempre deciso. In una intervista con Toti Scialoja aveva affermato: "La mia pittura non potrà mai essere astratta nel senso che essa non potrà essere staccata dalla realtà delle sensazioni, né avulsa dalla gioia e dalla presenza delle cose".
Quasi per timore di perdere il suo senso del reale, dopo i successi degli anni Cinquanta, Cassinari si accosta alla scultura, a incominciare dagli anni Sessanta. Fin da giovanissimo Cassinari si era cimentato nella scultura, i ritratti della madre, di Enrica, che hanno una valenza monumentale che ci riporta ai ritratti dell’antico ellenismo.
Poi c’è un salto, Cassinari riprende a modellare dopo il 1960. Dapprima risorge come un’icona il volto della vecchia madre, poi all’improvviso c’è un salto di stile, guizzano come uscissero dal chiuso di una stalla i suoi cavalli, s’impennano nel canto acuto i suoi galli, si arroccano nella loro agile potenza le sue capre, le sue mucche.
Lo stile della sua scultura non si differenzia molto da quello della sua pittura, è vibrante, eccitante, moderno, come la scoperta di un oggetto in una vetrina illuminata. È come se Cassinari estraesse da un contesto pittorico questi suoi animali per presentarli nella loro massima vitalità, un fiotto di animazione, un desiderio di dare concretezza ai suoi dolcissimi sogni. Confrontando i quadri di Cassinari con tutti gli incastri di colore che danno loro un aspetto di astrazione con le sue sculture dello stesso periodo, si può pensare che il pittore abbia voluto dimostrare di non aver mai perduto nell’astrazione il senso del reale oggettivo e di continuare così quel romanzo della natura che egli aveva iniziato sulle colline di Gropparello, sui fiumi di Brianza e sul mare di Antibes.
In sede retrospettiva, in occasione di questa bella mostra di Lecco, mi piace di chiarire senza indulgere nel frasario critico, che dagli anni Sessanta in poi la pittura e la scultura di Cassinari corrispondono insieme alla volontà dell’artista di narrare la vita secondo la sensibilità del momento, ora il sogno, ora la concretezza dell’immagine. E alla base di tutto sta il disegno, che qui è assai largamente rappresentato anche nelle tecniche colorate.
Cassinari è stato sempre un grande e continuo disegnatore; fin da quando l’ho conosciuto negli anni Trenta Cassinari disegnava, disegnava. Non sapeva neppure lui se l’immagine disegnata gli servisse per una pittura o per una scultura. C’era il bisogno di concretizzare un’immagine, perché Cassinari è sempre partito dalla realtà e non è mai stato un artista "astratto" nel senso che questo aggettivo ha preso nel nostro tempo.
Questa mostra che il Comune di Lecco gli dedica sta qui per confermarlo e mi fa piacere, come suo fedele compagno di strada, di confermarlo.

Ottobre 2004


Articolo pubblicato il 22 dicembre 2004