Arte

Antonio Ligabue uomo ed artista

di Marzio Dall'Acqua

Antonio Ligabue - Ritorno dai campi - Olio su faesite, 58 x 94 cm

Ligabue è ormai un mito al di là dell'artista, al di là dell'uomo storico del quale conosciamo molto, quasi tutto, ovviamente per quello che è possibile, trattandosi di un essere umano. In parte lo era già quando era in vita, ma dopo la morte, come dimostreremo in seguito, lo divenne in modo clamoroso. Non solo nella sua terra.
Ma partiamo dalla fine. Due sono le estreme aggiunte da fare al mito di Ligabue. La prima è letteraria. Da pochissime settimane è uscito un libro di Edmondo Berselli, editorialista di Repubblica sull'Emilia-Romagna ed il nome di Ligabue vi ricorre varie volte, come prova di quel carattere lunatico, impastato di umori ed amori che è tipico degli emiliani pronti ad accendersi, perduti dietro alchimie sottili che appaiono solo a loro, ma che perseguono con la tenacia di estreme avventure. Berselli cita Giovannino Guareschi: “Quando il sole martella le zucche, scriveva Guareschi, e il grande fiume scorre grigio e lento, i cervelli ci mettono poco a bollire. Succede che le stramberie naturali degli individui si cuociono in caratteri forsennati, in fissazioni paranoidi, in manie esuberanti come quelle di uno colpito da insolazione o in tristezze melanconiche come il velo di nebbia che svapora sui poderi in novembre. O non ci ricordiamo delle strampalerie del pittore Antonio Ligabue, con la sua moto rossa e quadri replicati mille volte, a cominciare dall'autoritratto, per riprodurre di continuo un io percosso e straripante, schiacciato e furente, dolorante e amoroso, e per distinguerlo dalla natura, fra le sue belve scattanti e il lusso meraviglioso e atzeco dei pavoni”. Così lo svizzero tedesco Toni, nei cui quadri vi è tutta la nostalgia per casette di legno, per architetture alpine dai tetti svettanti a fendere le nevi, diventa un eroe padano, uno dei balenghi della Bassa, dominato dalla luna, ed insieme patito delle moto, del loro rombo: “e quando era disperato - è ancora Berselli a scrivere - e senza una donna saliva sulla moto e sfidava la nebbia dei viottoli di campagna con una coperta sulle ginocchia, così, perché la testata scoppiettante e calda della Guzzi era l'unica consolazione contro il gelo dell'inverno e l'ostilità imperscrutabile del mondo”.
Questa solitudine, questa ostinazione, questo attaccamento alla vita, a perseguire un destino, a conquistare e difendere la propria libertà hanno fatto sì che pochi giorni fa - e Toni ne sarebbe stato felice - si riparlasse a livello nazionale di Ligabue, ma come uno splendido esemplare di lupo italiano, con una storia avvincente ed avventurosa. Ne ha scritto per prima La Stampa di Torino il 15 novembre e poi Polis Quotidiano, edito a Parma, il 17 novembre 2004 con un articolo a firma di Aldo Boraschi, ripreso quindi il giorno dopo dalla Gazzetta di Parma ed il 19 dal Corriere della Sera e dal TG5.
Il 24 febbraio 2004 era stato travolto da un'auto, in una notte piovosa, sulla tangenziale di Parma. “Era in condizioni pietose; - scrive Boraschi su Polis Quotidiano - la temperatura corporea era bassissima, non mangiava da almeno dieci giorni. Era ricoperto di limo e semi di bardana, presentava molte escoriazioni, probabilmente aveva attraversato un fiume in piena”. Si salvò e fu liberato nel Parco dei Cento Laghi sull'Appennino parmense, alle 8 di mattina dell'11 marzo. È stato battezzato Ligabue, pensando proprio al pittore di Gualtieri, dagli scienziati che lo hanno salvato, anche per far dimenticare quell'M15 con il quale lo avevano contrassegnato. Gli è stato messo un collare con un ricevitore che trasmette in comunicazione all'Università La Sapienza a Roma sul computer di Luigi Boitani. E la notizia è appunto che dopo aver vagato per circa un mese, fino ad aprile, Ligabue ha esplorato il crinale emiliano e toscano e poi ha puntato decisamente a Nord e dopo 250 giorni si è mosso su un'area di 950 chilometri quadrati raggiungendo un habitat nel quale si muove andando e tornando, tra la Francia e l'Italia.

Il buon selvaggio tra noi.
Ligabue, isolato, emarginato, posto quasi al di fuori del consorzio civile, fagotto irsuto di paglia nel bosco, mascherato con una divisa consunta, senza forma prima che senza onore, come lo descrisse Marino Mazzacurati. Tutta la sua leggenda ruota intorno a questa sua diversità non accettata dagli altri, scontata e pagata con una solitudine popolata da incubi, ma anche riscattata con la genialità della sua pittura.
Egli infatti è stato presentato come la reincarnazione del mito del “buon selvaggio”, dell'uomo venuto dal nulla, senza storia, dell'abitante dei boschi, isolato dal consorzio umano, che tuttavia, nei suoi quadri, nelle sue sculture, attinge ad una genialità innata, nella quale romanticamente vita ed arte si confondono. Ligabue sembra riscattare, dopo quasi due secoli, lo scacco che il ragazzo selvaggio dell'Aveyron aveva dato all'ottimismo rousseauiano e agli ideologues, alla fine del Settecento.
Ligabue, per molti - visitatori di mostra e giornalisti tesi al facile effetto - viene continuamente ricacciato in quel bosco, che nella loro fantasia ovviamente assume l'aspetto inquietante delle foreste che ha dipinto. Ci si dimentica che i boschi del Po sono piantate regolari di pioppi stormenti e coltivati, disposti a filari ordinati e sapienti. Sono natura umanizzata sin dai tempi di Virgilio, che sfrutta economicamente i terreni golenali che non possono essere altrimenti utilizzati. Non sono la giungla di Mowgli. Gli unici incontri possibili sono quelli con i cuculi, con l'upupa e altri uccelli schivi e ombrosi; i rumori più inquietanti: il frinire delle cicale nei meriggi estivi e il canto dei grilli nelle notti stellate.
Visse sempre al margine della società, sia in Svizzera, che nell'estranea e, per certi aspetti, ostile Italia, con la quale aveva un legame per lui forse misterioso, quello di sangue lo rifiutava apertamente (manifestò sempre odio verso Bonfiglio Laccabue detto il sergentino, che lo aveva riconosciuto come proprio figlio), un vincolo soprattutto ermeticamente burocratico lo aveva impiantato sotto altri cieli, tra altri suoni, per cui il suo esilio coincise, per anni, con l'impossibilità di lasciare Gualtieri, luogo estraneo alla sua giovinezza, ai suoi sogni, ai suoi affetti, al quale era condannato da quel lontano, interessato, riconoscimento paterno che serviva più a battere cassa presso il lontano luogo natio, che per manifestare un vero affetto, un vero coinvolgimento, verso un piccolo disadattato. Un brutto anatroccolo che aveva il dono di un talento unico.
Fu un nomade, inquieto, incapace di fermarsi a lungo in un posto, uno sradicato, pronto sempre a partire con le proprie cose, a lasciare senza rimpianti ogni legame, fievoli affetti, abitazioni sempre provvisorie, sempre caotiche, eppure anche capace di fare il nido, di ritagliarsi - come in manicomio - uno spazio minimo nel quale inseguire le sue visioni di bellezza, i suoi esorcismi tranquillizzanti. Uomo arcaico, eppure, nello stesso tempo, così moderno, così attuale, nel suo essere sradicato, con nostalgie solo per l'impossibile.
 C'è da chiedersi che paesaggio avesse davanti agli occhi se per tutta la vita dipinse la piana di Romanshorn, il piccolo villaggio che sul lago di Costanza, con campi ordinati, filari di pioppi, il nastro argenteo delle acque, sembra una premonizione di Gualtieri, se non tradissero l'illusione i monti incombenti come quinte a chiudere la vista e le architetture rustiche così lontane dalle corti padane, senza uso di legno e colori accesi, con mattoni, porte morte e portici con trafori in cotto a filtrare, disegnandola, la luce e l'aria.

Nell'Ospedale delle donne a Zurigo
Eppure la vicenda umana dell'artista, nella sua complessità, nel fitto chiacchierio dei documenti, delle testimonianze, nel rincorrersi di date ed incontri, in realtà è più romanzesca di qualsiasi romanzo, ed indica come un destino che deve compiersi, quasi nonostante, se non contro, lo stesso protagonista.
Ho avuto la ventura di ricostruirne completamente la biografia sui documenti ad incominciare da quelli raccolti in Svizzera ed in Italia nel 1974 e 1975 per la monografia della mostra di Gualtieri del 1975 edita da Silva di Parma e quindi, man mano negli anni, da altre fonti. A questi miei studi hanno attinto tutti, spesso con la buona grazia di non citare la fonte, cioè le mie ricerche. Corvi vestiti con penne di pavone? Il che avrebbe divertito Ligabue ed ha fatto sorridere me.
Un bambino di sesso maschile, registrato come Antonio Costa, nasce il 18 dicembre 1899 alle ore 21 e 40 minuti, a Zurigo, nell'Ospedale delle donne, allora un istituto tra clinica ginecologica, maternità e un luogo dove le ragazze madri andavano a partorire, lontano da occhi indiscreti, anticamera spesso dell'orfanotrofio. Sarà conosciuto come Antonio Ligabue. La madre si chiama Maria Elisabetta Costa, bellunese, analfabeta, registrata all'atto di nascita del figlio, nei documenti svizzeri, come “operaia italiana oriunda di Vallada, dimorante a Fruaenfeldt”. La ragazza, non sposata, aveva allora ventotto anni. Era nata a Villagrande, frazione di Cencenighe Agordino, nel 1871, in casa della nonna, da Maria Bogo di trent'anni. Il padre, Matteo, muratore di trentotto anni, non si presenta a denunciare la figlia all'anagrafe allora tenuta dal parroco, “essendo nel Tirolo a lavorare” era cioè a Bolzano, allora ancora sotto il dominio asburgico. Dopo la morte della madre, nel 1874, la piccola Elisabetta segue a Celat di Vallada il padre, che qui nel 1877 si sposa per la terza volta. Ancora con una contadina, vedova anch'essa, Caterina Feder (1849-1911), con già quattro figli dal primo matrimonio, ai quali si aggiunge dalla nuova unione Giuseppe Antonio, nato nel 1878.
Le ricerche condotte nel 1984 da me negli archivi bellunesi hanno permesso di ricostruire una storia di famiglie povere, emarginate, che si muovevano tra pochi villagi: Villagrande, Costa di Falcade, Falcade, Cencenighe, in un nomadismo randagio che li portava spesso ad essere ospitati da amici e parenti. La solidarietà era un fatto vivo. Del resto la famiglia spesso non risiede realmente in alcun posto, poiché il padre “operaio muratore” era spesso via e la moglie veniva riaccolta nella casa paterna con i figli. Matteo Costa sposa in prime nozze l'8 gennaio 1859 Anna Maria Fontanive, contadina, nata nel 1832, del fu Giuseppe e di Maria Benedetta Noé. Maria Bogo, da cui nascerà tra gli altri Elisabetta, viene sposata dal vedovo Matteo Costa il 18 gennaio 1866: è anch'essa contadina, e gli darà cinque figli. La Bogo era nata nel 1841 e morirà forse di parto nel 1874. A quarantatre anni Costa sposa per la terza volta, ancora una contadina, anch'essa vedova: Caterina Feder di trentotto anni di Vallada. Tutti i protagonisti di questa storia sono contadini o muratori, tutti analfabeti. I registri parrocchiali pullulano di croci. Comunque il matrimonio con la Feder porta un miglioramento economico. I testimoni alle nozze sono di rango, due possidenti maturi d'età, la dimora diventa stabile, seppur con una famiglia che aumenta - il dare una meno precaria assistenza ai figli è forse una delle ragioni di questo cercare da vedovi una sistemazione matrimoniale stabile - comunque cesserà il nomadismo della famiglia Costa.
Probabilmente la moglie, la Feder, aveva ereditato dal marito Lorenzo Micheluzzi anche la casa, che rimarrà a lungo anche nel XX secolo di proprietà degli eredi.
Elisabetta, la madre di Ligabue, si trovò quindi aggregata ad una numerosa famiglia, alla quale si aggiunge, dal nuovo matrimonio del padre il fratellastro Giuseppe Antonio, nato il 16 marzo 1878 e denunciato dallo stesso padre, qualificato ancora come muratore, presenti un possidente ed uno studente. Matteo Costa muore il 9 aprile 1886 e risulta villico, per cui alla fine della vita aveva smesso di girovagare e di battere i cantieri.
È probabile che Maria Elisabetta sia andata in Svizzera con il fratellastro Giuseppe Antonio, dopo la morte del padre, verso la fine del secolo. Che partissero insieme non stupisce. Impossibile invece sapere quando, quali vie abbiano percorso e per quali ragioni si siano divisi. Il fratellastro sappiamo che aveva ereditato il lavoro del padre di ‘operaio muratore' e che si sposa in Svizzera il 18 agosto 1906 con la “fattora” Luigia Rosina Ricker, vedova, nata Geiger, di religione evangelica, abitante a Münster. Del resto anche altri fratellastri erano già in precedenza emigrati e si deve pensare che in una situazione di indubbia miseria, di disgregazione della famiglia, già precariamente unita e ulteriormente sfatta con morte del Costa, non dovesse essere difficile prendere la via dell'emigrazione.
Bonfiglio Antonio Domenico Laccabue era emigrato da Gualtieri, Reggio Emilia, nel 1894, ed era già in Svizzera nel 1897. Era nato nel 1867 a Pieve Saliceto, frazione di Gualtieri, dal sarto Federico Laccabue e da Genoveffa Mori, cucitrice a Boretto. In Svizzera esercitò per un certo periodo la professione di sarto. Sappiamo con certezza che poco prima della nascita del pittore, dal 3 maggio 1898 al 3 giugno 1899, era residente nel comune di Horgenbach, a sei chilometri ad ovest di Frauenfeld, a cui fu amministrativamente aggregato nel 1919. Dal capoluogo della Turgovia, Frauenfeld era partita la Costa per andare a Zurigo a partorire, probabilmente sola. I due avrebbero comunque potuto facilmente conoscersi e frequentarsi.
Il nome Antonio del piccolo non è una pista perchè nella famiglia Laccabue, oltre al padre adottivo, il nome era ampiamente presente, come del resto anche nella famiglia di Elisabetta Costa. Il fratellastro con il quale è molto probabilmente partita, come si è detto, era Giuseppe Antonio, che rinnovava il nome del padre di Matteo, che era nato nel 1833, da un Giuseppe Antonio e da Elisabetta Genuin, entrambi contadini. Così il nome Antonio, dato al piccolo, non ci serve come pista per chiarire il dubbio sulla paternità dell'artista.

Le due famiglie parallele
Il 28 dicembre 1900 il procuratore del re di Belluno invia al comune di Vallada il doppio certificato di pubblicazione di matrimonio tra Bonfiglio Laccabue e Elisabetta Costa. Siamo ad un anno dalla nascita di Antonio e forse potremmo anticipare di alcuni mesi la loro decisione, il che porterebbe però a farla coincidere quasi con il fatto che a nove mesi, intorno a settembre 1900, il piccolo era già stato affidato a Elise Hanselmann.
I due si sposarono ad Amriswil, cantone di Turgau. Forse Bonfiglio od entrambi lavoravano alla fabbrica di confezioni per uomini “Esco”, tuttora esistente in zona. Subito dopo le nozze la coppia si trasferì ad Hemmerswil, che oggi fa parte del comune di Amriswil.
Ad Amriswil il 10 marzo 1901 Bonfiglio legittimò il piccolo Antonio, dandogli il proprio cognome e rendendolo cittadino di Gualtieri.
L'incapacità di adattarsi di Bonfiglio e la docilità della Costa si manifestano ben presto. Lui cambia continuamente lavoro e lei lo segue in una vita errabonda, da nomadi, inseguiti dalla miseria e probabilmente dall'inquietudine di lui che forse già allora sembrava trovare tregua solo con l'alcol. Il 21 agosto 1901 a Veltheim, cantone di Zurigo, uno dei sobborghi dell'industriale Winterthur, con cui si fuse nel 1922, nasce Bonfiglio, il padre in quel momento fa il manovale; il 18 dicembre 1902 a Walenstadt, cantone di San Gallo, nelle vicinanze di Sargans, nasce Amedeo, il padre è cementatore; il 4 dicembre 1904 nasce Ottone Carlo a Sargans, cantone di San Gallo. Il piccolo muore poche settimane dopo, il 30 gennaio 1905, per una infiammazione bronchiale (pneumonia catarrhalis) che testimonia la condizione nella quale viveva la famiglia dichiarata di “povertà comprovata”. A Sargans Obergaste il 31 gennaio 1907 nacque l'unica figlia che prese il nome della madre, Maria Elisabetta, il padre era venditore ambulante di frutta meridionale.
Queste vicende non dovrebbero aver riguardato il piccolo Antonio al quale il destino aveva riservato un'altra sorte, in una famiglia adottiva, anche se non mancano curiosi parallelismi. Il nuovo patrigno era un immigrato tedesco originario dell'Hessen (Assia), che si chiamava Johannes Valentin Göbel ed era nato nel 1854. Di religione cattolica faceva il carpentiere. Aveva sposato il 10 settembre 1883 Elise Hanselmann, una svizzera evangelica, che con il matrimonio aveva assunto la cittadinanza tedesca. Elise era nata nel 1857 e aveva sposato in prime nozze un certo Bulher, svizzero, dal quale aveva divorziato per unirsi poi con Göbel. La coppia era quindi costituita da due persone mature, che non avevano figli e che si presero cura del piccolo italiano, senza però legalizzare quella che possiamo considerare un'adozione di fatto. Anche in questa famiglia le condizioni culturali sono modeste e quelle economiche non certo brillanti. Il marito più che la famiglia amava il vino e finì la sua vita a San Gallo il 23 settembre 1927, mendicando lavoro di casa in casa. Anche questo nucleo famigliare era nomade e cambiava residenza facilmente. Nel 1910 i Göbel sono a Tablat, un comunello del circondario di San Gallo, incorporato da questo nel 1918, che abbracciava la città posta al fondo di una stretta valle alpina, arrampicandosi sulle montagne all'intorno.

La voglia di maternità di Elise
Le ristrettezze economiche dei primi mesi di vita hanno inciso sicuramente sulla crescita di Toni. Nel primo anno di vita infatti era stato colpito da rachitismo, prodotto dalla miseria e da una avitaminosi, che aveva determinato una malformazione cranica e ne aveva bloccato lo sviluppo fisico. In queste condizioni dovette trovarlo Elise Hanselmann, che prese quello scricciolo e lo curò e allevò, come ella affermava anni dopo: “Io lo ho allevato 19 anni sempre come un mio vero figlio”. Da piccolo ebbe il morbillo. A otto anni cadde da un albero, dall'altezza di circa tre metri, senza prodursi alcuna ferita e senza perdere i sensi, lamentando soltanto un gran mal di testa. Fisicamente si veniva sviluppando normalmente, anche se era rimasto piccolo e gracile. La matrigna lo scusava in tutto, perdonava e giustificava i suoi scatti d'ira, la sua pigrizia, per cui egli faceva solo ciò che gli interessava, trascurando ogni altra attività. Tra il piccolo e la Hanselmann si sviluppò un attaccamento eccessivo, eccezionale. L'uno aveva bisogno dell'altra e viceversa. La donna chiusa in se stessa e nel suo mondo domestico, lontana da un marito con il quale non poteva comunicare, con un'ansia di maternità da sempre frustrata, riconosce nel piccolo Antonio l'unico essere che ella ama con un affetto viscerale, ‘scimmiesco' alla lettera in tedesco. Per la ‘madre' il fanciullo aveva degli slanci improvvisi d'affetto, quando ne era separato le scriveva lettere e da lei ritornava spesso con il pensiero. Di lei parlava con gli altri ragazzi e quando la nostalgia lo tormentava piangeva a lungo. Con lei era gentile, le scodinzolava per casa, l'aiutava in giardino. Ma nello stesso tempo gli accadeva di cambiare umore repentinamente, di essere lunatico, indomabile, aggressivo, atteggiamenti dietro i quali mascherava le sue richieste di un affetto smisurato, di un bisogno d'amore talora incolmabile. Forse era anche geloso di lei, per cui alcune volte diventava violento e le sue reazioni erano incontrollabili. Tutta la giovinezza di Ligabue è segnata da questo rapporto di odio ed amore, fatto anche di fughe, di ribellioni laceranti.
Eppure Antonio non era cattivo, anche se era difficile trattare con lui. Qualche volta mentiva, sfuggiva alle sue responsabilità, protetto da quell'ombrello affettivo, che talvolta avvertiva come soffocante. Amava più gli animali che gli esseri umani, li sentiva fratelli, comunicava con loro. Nell'adolescenza aveva allevato un gruppo di quattordici conigli, ai quali accudiva personalmente con passione. Conigli alleverà quasi per tutta la vita, appena sarà in condizioni di mantenerli. Dalla famiglia adottiva aveva appreso a parlare solo il dialetto alemanno, uno dei tanti patois detti “Scwytzer Deutsch” e questa per lui fu sempre la lingua madre, quella con la quale pensava, con la quale si esprimeva, anche dopo molti anni di soggiorno in Italia.
Ebbe certamente una nevrosi infantile e cercò, per tutta la vita, di difendersi dal mondo esterno e dai suoi attacchi, reali o presunti, frapponendo barriere, che gli preclusero un autentico rapporto con gli altri, ma lo acquietavano e controllavano le ansie emotive.
Il maestro al primo anno di elementari lo dichiarò “debole di comprendonio” e lo fece inserire in una classe differenziale, senza rendersi conto della straordinaria abilità disegnativa del bambino. Eppure la matrigna, sosteneva anni dopo, che “nei primi anni di vita lo sviluppo mentale non fece notare nulla di particolare. A scuola il bambino cercava di stare al passo con gli altri. In sei anni arrivò solo fino alla III classe”. Toni diceva parolacce, bestemmiava, cattive abitudini che forse aveva appreso dal patrigno tedesco, che quando rientrava a casa ubriaco diventava aggressivo e violento. Ad Ugo Sassi raccontò che “la sua maestra si sarebbe uccisa gettandosi nella tromba delle scale” e ne scrisse il nome su un foglio di carta.

Le campane di Marbach
Le elementari dunque Ligabue le viene frequentando a Tablat, in un istituto differenziale per ragazzi ritardati, ma il 17 maggio 1913 entra nell'Anstalt di Marbach, l'Istituto creato agli inizi del secolo dal pastore evangelico Norman Graf proprio per accogliere ragazzi con gravi forme di handicap mentale. L'ammissione era rigidamente condizionata alla professione di fede evangelica. Toni è uno dei pochi cattolici ammessi. L'espulsione dalla scuola di Tablat era stata chiesta dal medico scolastico, poiché Toni era stato colto da una delle sue più forti crisi, al punto che non sopportava alcuna allusione scherzosa, alcun motteggio, e che neppure si ridesse per qualsiasi ragione. La stessa madre non poteva tossire in camera sua. Ritroviamo una delle sue idiosincrasie più forti, quella dell'intolleranza ai colpi di tosse, che lo costringevano a fare qualcuno dei suoi rituali magici. Quando arrivò a Marbach, pianse ininterrottamente per tre giorni. “Crede di costringere con ciò al suo rilascio” è scritto, con un linguaggio carcerario, sul registro dei giudizi annuali dell'Istituto.
Aggressivo, aveva un altissimo giudizio di sé, per cui spesso assumeva “atteggiamenti fanfaroni ed espressioni, che non si addicono ad orecchie di bambini”. Diceva parolacce ed il suo sviluppo sessuale era stato precoce. Il giudizio sul profitto: ”Antonio legge abbastanza speditamente e capisce anche ciò che legge. Nello scrivere è però ancora molto indietro, specialmente nell'ortografia; anche in aritmetica il suo rendimento è assai scarso. Non è ancora andato oltre alla seconda decina: nel lavoro è flemmatico. Più di tutto preferisce fare piccole commissioni”. È strano che nei profili annuali tracciati a Marbach non si trovi alcuna annotazione relativa alla sua abilità pittorica e disegnativa.
A Marbach era in contatto con la natura. Gli era stato concesso di allevare animali, viveva in promiscuità con ragazzi e ragazze dai sei, sette anni ai quindici. Sin dalla fondazione il mettere i maschi e le femmine a contatto quotidianamente, in ogni momento socializzante della giornata faceva parte del progetto didattico. Così non solo si studiava, ma anche si lavorava, poiché il fondatore riteneva necessario che i ragazzi apprendessero un lavoro produttivo, che assicurasse loro una futura autosufficienza. Il contatto con la natura, oltre che la preghiera, erano altri punti forti, per cui li spingeva a lavorare nei campi, ad accudire agli animali domestici, a stare all'aperto. L'edificio dell'Istituto sorgeva al di sopra del paese su un declivio assolato, in mezzo al verde dei prati e dei boschi. Era una grande e solida costruzione in caratteristico stile svizzero, con alti tetti a spioventi e piccole guglie, oggi completamente trasformata, costituita da due blocchi laterali con tetto a punta, uniti da un corpo centrale con spiovente a gronda. Il tutto con linee architettoniche asciutte e severe, con un carattere di solidità e funzionalità. Solo l'angolo sinistro, forse più antico ed originario, era ingentilito al terzo piano da un breve balcone collegato ad un erker, una delle finestre a sporto in pietra, tipiche della zona di San Gallo. Poco lontano, la chiesetta evangelica, nuda e semplice, le cui forme ritroviamo molte volte nei quadri di Ligabue, ovviamente non tanto nel senso che ne facesse una citazione letterale, ma semplicemente perché lo stile di questo edificio è talmente diffuso da apparire emblematico.
Toni amava le campane di quella chiesa e i loro rintocchi che scandivano, nel silenzio dei boschi all'intorno, il ritmo di lenti giorni. Molti anni dopo, nelle notti insonni, trascorse nei fienili, immerso in piedi in un buco scavato nel fieno, il pittore ripeteva, ad alta voce, i rintocchi di quelle campane, che lo avevano affascinato e turbato nell'adolescenza. Per ore, scuotendo la testa che emergeva dal fieno, egli scandiva, monotonamente, con voce roca, i “din don”, cercando di risuscitare in sé quegli echi lontani, sepolti nella memoria, ricostruendo suoni e ritmi che lo rassicuravano, lo calmavano, esorcizzando le paure che tormentavano i suoi occhi sbarrati nel buio.
Fu ammesso alla quarta elementare. Il 19 aprile 1914 viene aggiornato il registro: “La nervosità è poco migliorata tuttavia non piange più così tanto. Tralascia anche le espressioni sconvenienti. Nell'insegnamento ha fatto qualche progresso, soprattutto in aritmetica. Fa molta fatica con le tabelline. Verso il lavoro è più volonteroso”. Rientrava talora presso la famiglia adottiva a Tablat, ma ogni volta, al ritorno a Marbach, egli era disturbato sul piano nervoso e il suo reinserimento nella comunità diventava difficile. Queste regressioni annullavano e rischiavano di distruggere sforzi compiuti in lunghi mesi di assistenza assidua.
Nel maggio 1915 il giovane fu espulso “per condotta cattiva e scostumata”, come afferma laconicamente la nota sul registro della Haim di Marbach. Il silenzio, non colmabile da altre fonti, non ci permette di conoscere quali elementi abbiano determinato la dura decisione. Ritorna con la famiglia Göbel Hanselmann.

La tragedia di Widnau
Pochi mesi prima che Ligabue fosse ricoverato a Marbach, a Widnau, una cittadina attraversata dal Reno, si consuma la tragedia che lascerà solo Bonfiglio Laccabue, tragedia di cui il pittore già in Svizzera probabilmente fu informato seppure in modo non del tutto preciso, visto che ad essa si fa riferimento nella cartella clinica di Pfäfers. La storia parallela della due famiglie si snoda quindi in modo tale che probabilmente l'una sa dell'altra, per cui il parallelismo tra le due figure maschili nell'immaginario infantile di Ligabue fa sì che i due patrigni si associno e si sovrappongano.
La famiglia Laccabue, a Widnau, aveva trovato ospitalità in una casa che sorgeva in periferia leggermente isolata, ma vicina ai cantieri del Reno dove Bonfiglio lavorava come manovale. Si trattava di una solida casa padronale, nata per usi agricoli, della quale i proprietari, gente generosa, avevano messo a disposizione al piano terra un'ampia stanza ad uso di infermeria, che era utilizzata da un medico condotto due volte la settimana. Il medico vi sostava poche ore ogni volta e quindi risaliva sul calesse per proseguire le visite in altri paesi del circondario. I Laccabue vivevano sul retro della casa, vicino alle stalle ed alle porcilaie, in poche stanze. Doveva essere una sistemazione provvisoria, invece in quel ristretto ambiente volto a mezzogiorno la famiglia fu annientata. Tutto accadde nella serata e nella notte tra venerdì 24 e sabato 25 gennaio 1913. Al mattino del sabato si erano scoperti i cadaveri dei figli dei Laccabue: Amedeo, Bonfiglio, Maria Elisabetta, in una situazione di degrado e povertà evidenti. I corpicini denutriti erano sul letto, ancora vestiti. La madre stupì gli astanti per l'atteggiamento distaccato, apatico ed indifferente. Non si comprese subito la causa della morte, anche se si parlò di avvelenamento. Si sospettò immediatamente del padre che era assente nel momento del ritrovamento dei cadaveri, che si sapeva essere attaccabrighe, sfaticato, un ubriacone violento. Ma ci fu anche chi insinuò che la tragedia poteva anche essere l'estrema ribellione della Costa ad una disperata vita di miseria e di abbrutimento. La donna aveva poi accusato dolori, per cui era stata ricoverata all'ospedale di San Gallo, mentre il Laccabue rintracciato veniva trattenuto dalla polizia fino a quando le indagini avessero permesso di appurare la verità. La madre morì, per sopravvenute complicazioni respiratorie e circolatorie, che spesso si accompagnano ai casi di avvelenamento, il 26 febbraio 1913 nell'ospedale cantonale di San Gallo. Alla fine si accertò indubitabilmente che la famiglia era stata uccisa da grasso guasto, con il quale era stata condita della pastasciutta. Laccabue fu liberato. Rientrò in Italia con “foglio di via per rimpatrio di indigenti”. Indesiderato da una città all'altra, vagabondo, rientra a Gualtieri nel ricovero Carri, nel 1932. Muore nel 1949.

Vagabondo nella Svizzera
Toni si trasferisce dal 18 maggio 1915 al 14 maggio 1917 nel comune di Thal, nella frazione di Staad. Si è senz'altro allontanato dalla famiglia per lavorare presso un contadino di Haggenschwil, interrotti gli studi. Abbandonò il lavoro inorridito per aver assistito all'uccisione di una capra.
 Nel 1917 fu ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Pfäfers, una stupenda località in mezzo ai monti, sul versante orientale della valle del Tamina, pochi chilometri al di sopra di Bad Ragaz, celebre stazione termale. Il manicomio è uno dei più antichi e più grandi della Svizzera ed è posto in un antico ben difeso convento benedettino. Ligabue vi rimase dal 12 gennaio al 4 aprile. Al St. Pirminsberg era stato inviato dal dottor Imboden che in una nota lo definiva affetto da “deficienza mentale ed attualmente pericoloso per la comunità”.
La crisi era esplosa in modo violento con l'aggressione al padrino, come documentava una lettera dell'8 gennaio al Comune di Thal della signora Schuster: “Anton Laccabue è venuto alle mani col suo padre adottivo il giorno primo gennaio o la domenica precedente. Sarebbe necessario evitare un secondo incontro con questi”.
La cartella clinica riferisce che dopo essere tornato da Marbach a casa si sarebbe comportato abitualmente in modo nettamente indocile e caparbio, rivelando un'indole maliziosa e bugiarda, non voleva assolutamente lavorare. Invece di lavorare in giardino strappava le piante alla madre adottiva. Ogni volta che veniva ripreso diveniva villano e in realtà negli ultimi tempi minacciò ripetutamente la madre adottiva di ucciderla e faceva gesti in tal senso. Una volta risulta anche averle messo le mani addosso.
Scarsa la capacità di ricordo di frasi. Non ebbe mai alcuna allucinazione, né alcun disturbo di coscienza. Nella clinica rimpiangeva Marbach e la madre adottiva. Non sapeva raccontare nessun episodio significativo della sua vita. Fu invitato a scrivere brevi note autobiografiche, ma non seppe portare a termine il compito. Ai medici, che lo sottoposero a diversi test, sembrava vivere esclusivamente nel presente, nelle sensazioni che venivano impadronendosi del suo sentire, con sbalzi d'umore, con improvvise eccitazioni e profonde malinconie. Era per lo più indifferente. Solo disegnando si liberava ed alleggeriva delle sue pene. È annotato nella cartella clinica: “Sorprendente in senso intellettuale il talento, spiccato e unilaterale, del ragazzo per il disegno”.
Si riunì con la famiglia adottiva che il 16 aprile 1917 si trasferì a Romanshorn, una piatta pianura, chiusa da alti monti, in clima dolce e mite, con vigne e campi coltivati come giardini. Questa pianura, non certo quella padana, ritorna nelle opere dell'artista, che rievocherà sempre i paesaggi della giovinezza.
Da lì iniziano per il giovane una serie di vagabondaggi, che si concludevano con alterni e agitati ritorni a casa. Per vivere fece il garzone nelle fattorie, ma lavorò anche come apprendista in segherie. Si arrangiava insomma, sempre in fuga da qualcosa.
Questo nomadismo lo mette in contatto certamente con i pittori primitivi e popolari della zona, i naifs svizzeri dell'Appenzell, che vede stendere le proprie opere sui mercati, trasportandole sulle spalle, che battono le fiere e, quando non riescono a vendere, bussano alle porte delle case dei paesi e dei contadini e si offrono per dipingere o rinfrescare stanze, oggetti in legno, mobili, serramenti, travi. Alla peggio sono disposti a mantenersi anche aiutando, per pochi giorni, nei campi e nelle stalle, in un'intercambiabilità di ruoli e di mestieri. Ecco quindi che Ligabue quando poneva il quadro sulle spalle, bucandolo ai quattro lati per far passare la corda, e mostrandolo di paese in paese, non seguiva tanto un impulso vanaglorioso alla ricerca di lodi o di consensi, ma attuava la tattica di vendita che aveva imparato nei suoi vagabondaggi. Era un andare a cercare il cliente, in una tradizione molto diversa da quella italiana, per la quale l'artista deve attendere l'acquirente nel suo studio. “Lo rivedo - ricorda Giovanna Signori Manghi - in un cortile, un mattino, seduto per terra, mentre tentava di vendere un suo dipinto. Si era messo in quel luogo, poiché, essendo un passaggio di comodo transito fra una via e l'altra, vi scorreva molta gente; ma nessuno si curava di lui. Ad ogni persona proponeva il suo quadro, ma riceveva soltanto sorrisini ironici. ‘Mi son dovuto vendere la moto per comperare questi colori, questa tela', urlava (...). Verso mezzogiorno un signorotto di Guastalla (...) acquistò”.
Tra i tanti vagabondaggi quello per la visita di leva. Fu riformato a Zurigo. Ligabue apparteneva ai “ragazzi del 99” e gli fu facile, a lungo, far credere di essere ritornato in Italia per la visita militare e quindi non aver potuto rientrare in Svizzera, come era avvenuto a tanti altri emigranti in paese di lingua tedesca, coi quali, negli anni Venti, si trovava a lavorare come manovale alle bonifiche. Ma la realtà era diversa.

Come Pinocchio tra due carabinieri
Il 15 maggio 1919 Ligabue fu espulso da Romanshorn e quindi dalla Svizzera. Il 23 maggio partiva da Zurigo ed il 2 giugno era portato a Chiasso e consegnato alla questura di Como. Il pittore non sapeva una parola d'italiano. Forse era anche impaurito ed incapace di comprendere ciò che gli accadeva intorno, deluso ed addolorato per ciò che era avvenuto, indifferente a quel paese nel quale sarebbe stato per tutta la vita emarginato ed estraneo. Di fronte alla lentezza burocratica il 2 luglio il prefetto di Como decide di affidare il giovane ai carabinieri, affinché sia “con l'ordinaria corrispondenza tradotto e consegnato” al sindaco di Gualtieri, di cui era formalmente cittadino, in seguito al riconoscimento di Bonfiglio Laccabue. Giunge a Gualtieri il 9 agosto 1919, proveniente da Reggio Emilia. Desidera solo ritornare al più presto in Svizzera, chiede il passaporto e la restituzione di dieci lire - o franchi? - che gli erano state ritirate a Chiasso. Aveva nostalgia della matrigna. I suoi ricordi sono confusi. Il periodo svizzero è come una nebbia, illuminata solo dal desiderio del ritorno. Non sa dire quando e dove aveva fatto la visita militare ed in quale comune fosse iscritto alle liste di leva. Viene sottoposto a visita medica. Non risulta affetto da nessuna malattia contagiosa. Inizia un carteggio tra la madre adottiva e le autorità italiane.
Era stata lei stessa a rivolgersi al municipio di Romanshorn, per chiedere, vedendolo così indifferente e scostante verso di lei, che venisse rimpatriato in Italia. Era una minaccia estrema, un avvertimento a scopo educativo per dare a Toni una lezione per fargli capire “cos'è vivere del mondo”. Le autorità municipali invece ne fecero un problema di polizia, per cui espulsero il giovane con la burocratica motivazione “per misure di Pubblica Sicurezza ed accattonaggio”.
Ligabue nel settembre 1919 tenta di espatriare clandestinamente, fuggendo da Gualtieri, senza conoscere la lingua, probabilmente senza denaro. Viene fermato a Lodi e consegnato alla questura di Milano, che lo fa di nuovo “tradurre” a Gualtieri. I reali carabinieri Carlo Molinari e Fedele Pelli, l'8 ottobre lo affidano all'assessore Artoni.
I tentativi di rientrare in Svizzera durarono fino al 1924. Elise Hanselmann inviava denaro, biancheria, documenti, buoni consigli. Una lettera è firmata “i tuoi genitori adottivi e Fieda”. Ugo Sassi aveva ricevuto la testimonianza da Toni che i Göbel avevano accolto come figlia adottiva anche una bambina, che si sarebbe chiamata Frida Stakka (?), ma questa presenza non è stata confermata dalle ricerche anagrafiche che ho condotto in Svizzera.
Il primo autografo è del 1920, posto in calce al formulario di “una domanda d'entrare in Isvizzera per i militari licenziati e congedati”: Anton Lackabue. Firma assolutamente corretta dal punto di vista ortografico. Chi l'ha letta “Laccabun”, non sapeva che il pittore aveva appreso a scrivere in corsivo gotico, cioè nell'antico tedesco, che si insegnava nelle scuole svizzere fino alla prima guerra mondiale. Non solo le lettere corrispondono esattamente al nome italiano, ma egli era anche ben cosciente di alcune difficoltà che poteva incontrare il lettore, per cui vi ovviava con alcuni accorgimenti grafici, inserendo una “k” dopo la prima ”c” ed un segno diacritico (assolutamente da non confondere con un umlaut) sulla “u”, che avrebbe potuto essere scambiata con una “e” gotica, lettera che può sembrare una “n”, come appare in fine di cognome.
Il comune di Gualtieri lo aiuta all'inizio con un sussidio, ma poi deve incominciare a guadagnarsi da vivere con lavori occasionali. Non aveva una grande resistenza alla fatica. Anche i suoi sbalzi d'umore, la difficoltà di comunicare, facevano sì che fosse e si sentisse diverso ed isolato. Nei primi tempi parlava solo con coloro che sapevano il tedesco.

Gualtieri
Gualtieri era un centro prevalentemente contadino. Pochi i proprietari terrieri. La maggiore tenuta era quella dei conti Greppi, nobile famiglia di Milano, molti i giornalieri, che lavoravano pochi giorni all'anno. La solidarietà socialista fa sì che nel 1890 sorgono due cooperative, la principale a Santa Vittoria, una frazione con un proprio forte senso di autonomia con 322 braccianti che si associano. Nel 1900 sempre a Santa Vittoria i giornalieri fondano, primi a livello provinciale, una cooperativa che gestisce diversi fondi. La cooperativa braccianti, muratori, birocciai e affini fu cosa diversa e separata dalla anonima cooperativa agricola di Santa Vittoria fondata nel 1911, che acquistò la tenuta ed il palazzo Greppi, nel 1912. A Gualtieri nel 1890 invece sorse una cooperativa con 191 aderenti.
La solidarietà nel mondo padano era un obbligo al quale tutti erano costretti dalla minaccia costante del Po, contro il quale bisognava lottare uniti. Essa fu accentuata dalla cooperazione e dalla predicazione delle sinistre, che portarono ad un lungo periodo di governo socialista, dal 1900 al 1910. Tra le figure locali emerse l'artigiano Germano Gasparini, sindaco dal 1903 al 1910. In quegli anni, e precisamente nel 1902, fu a Gualtieri come maestro elementare, Benito Mussolini, che si legò a diversi socialisti locali, con i quali condivideva, nel 1914, in un primo tempo, l'opzione di non intervenire nella prima guerra mondiale.
La grande guerra sconvolse anche queste terre, nelle quali un apparente inizio di benessere nel decennio precedente al conflitto si era manifestato sia per le iniziative cooperativistiche sia per la forte emigrazione che attenuava gli indici dei disoccupati, che pur rimanendo alti, tuttavia sembravano stabili. Si emigrava sia per lavori stagionali che coinvolgevano non solo i maschi, ma anche le donne come mondariso in Piemonte e Lombardia. Il loro mondo sarebbe stato continuato e reso famoso da Giovanna Daffini Carpi, nata a Villasaviola di Motteggiana, nel vicino mantovano, e morta a Gualtieri nel 1968, cantastorie di fama nazionale, che, nella monda aveva iniziato a cantare, per cui fu detta “la diva delle risaie”, accompagnata dal marito violinista. Nel 1905 a Santa Vittoria fu fondata una lega di violinisti che aderì alla Camera del Lavoro. I musicisti si collocavano infatti in un mondo intermedio tra quello popolare e quello borghese, coinvolti e apparentati con pittori che erano imbianchini ma anche artisti veri e propri. Parlerò a seguire di questi incontri, così importanti per Ligabue, tra artisti diversi, che, a Guastalla, culminarono con la creazione della Pia Cantina di San Francesco.
Altri emigravano all'estero, come era avvenuto per il padre del pittore, quel Bonfiglio Laccabue che si era allontanato dalla nativa Pieve Saliceto, l'altra frazione di Gualtieri, per portarsi in Svizzera, la cui non esemplare esistenza è paradigmatica delle vicende di coloro che fallivano, di coloro che non riuscivano a riscattarsi, ad adattarsi. Nel 1909 si calcola che su meno di settemila abitanti del Comune, 616, poco meno del dieci per cento, erano emigrati, 450 in Italia e 166 all'estero, specialmente nei paesi di lingua tedesca o in Francia.
Molti emigranti dovettero ritornare in Italia per combattere e, a causa della crisi economica che coinvolse l'Europa nel dopoguerra, per alcuni anni non poterono ritornare nei paesi dai quali provenivano.
Ligabue infatti, espulso dalla Svizzera, trovò presso i lavoratori che erano emigrati in paesi di lingua germanica, i primi compagni che cercarono di aiutarlo.
Gualtieri, nella Bassa reggiana. E già il termine Bassa, sembra indicare come uno scivolare lento, ma inesorabile, verso il centro di un immenso catino, la Pianura Padana, per fermarsi, prima di arrivare al Po, amico nemico, odiosamato, contro l'argine maestro, imponente, che tronca la vista, ogni ulteriore prospettiva, alle quali sostituisce un corpo erto ed erboso che marca il cielo. Segna i confini con lente curve serpentiformi, massiccio, al quale tendono acque facili ad impaludarsi, che rendono scuri i terreni; marca un confine ferreo, eppure nello stesso instabile, tra lo spazio dell'uomo e quello della golena, della natura, che se non selvaggia certo sembra far prevalere le sue ragioni, tra i rumori del lavoro, della quotidianità, dell'abitato e il silenzio agito da richiami, fischi, cinguettii, richiami, sciabordio, che dilata l'orizzonte in una vastità che sembra senza barriere.
Gualtieri è un centro urbano segnato da un solo evento nella sua storia, un piccolo gioiello marginale nella pianura, al quale, dopo diverse traversie, giunsero i Bentivoglio. I marchesi Cornelio ed Enzo Bentivoglio, signori di Gualtieri, riscrissero il cuore di un abitato, di cui si è persa memoria, ma sicuramente poco significativo, creando un microcosmo unico, sostituendo al castello un enorme palazzo, che pur richiamando nelle torri angolari le tradizionali forme di difesa, ad incutere timore a sudditi e nemici, si propone come struttura fortemente rappresentativa del potere marchionale, enfasi di una dinastia. Ora solo un lato di questo complesso è rimasto, corroso dal tempo e dalle inondazioni del fiume, eppure sembra veramente, nella enormità fuori scala, il relitto di un mondo di giganti, che il salone più vasto ricorda nel proprio nome. Il portico aperto che permetteva di accedere al cortile apriva alla vista spazi e prospettive che altrimenti sarebbero stati occultati, relegati alla dimensione privata del signore. La piazza, realizzata come il palazzo tra il 1580 e il 1616 dall'architetto Gian Battista Aleotti detto l'Argenta, anche se si dovesse supporre la presenza di un canale intorno al palazzo (che probabilmente era collegato alla Naviglia, a est del paese, e forse navigabile, in un gioco di rimandi tra le peschiere di Giulio Romano del Palazzo Te a Mantova e le ville del Palladio che si rispecchiavano sul Brenta e gli altri canali veneti) ha la funzione di enorme corte chiusa antistante al palazzo stesso. Ancora una volta gli spazi del principe vengono dilatati in una misura fuori scala proponendo non una città, ma un palazzo corte che è in realtà cripto città, segnalata dalla presenza della chiesa parrocchiale in piazza e dalla spettacolare torre civica con la funzione di porsi come ingresso alla corte e di moltiplicare gli spazi prospettici.
Ligabue coglierà bene questa dimensione del paese in un autoritratto famoso nel quale pone alle proprie spalle una sintesi del paese contraddistinto proprio da questa torre civica e sopprimendo quello che vi sta fuori, sulla “via di Parma” o via Vittorio Emanuele, dove il borgo, l'abitato fuori dalla piazza, con il suo andamento ancora medievale, ha la funzione di cannocchiale e di introduzione, lunga e sinuosa, allo spazio del principe e della vita sociale della piazza dell'Aleotti: splendida anche nel suo rigore e nella sua uniformità architettonica, come molti hanno osservato richiama Place des Vosges di Parigi.

Un selvaggio con la tessera INPS
Era molto gentile con gli altri, anche se una naturale timidezza lo rendeva impacciato. All'inizio comunicava con i compagni di lavoro con i gesti, poi incominciò ad apprendere l'italiano in una forma rudimentale, ricca di espressioni dialettali, che egli pronunciava con un tono aspro e gutturale, con una lenta ed accentuata cadenza teutonica. Di sé parlava in terza persona. Già allora disegnava su fogli di carta trovati occasionalmente, nelle pause del lavoro, in piedi, appoggiato ad un albero. I compagni spesso lo deridevano per la sua goffaggine, per l'inesperienza nei lavori manuali, la scarsa resistenza alla fatica, l'estraniarsi in un mondo affatto privato. Lo chiamavano “il tedesco”. Ma allora egli non si adombrava, anche se talora gli facevano scherzi anche feroci. Oppresso dalla fatica, capitava che cadesse mentre spingeva la carriola sopra l'argine. Nella notte si rifugiava nelle stalle a dormire.
C'è una fotografia che ce lo mostra in quegli anni tormentati. Serio, compunto, sotto il cappello le orecchie a sventola, il viso magro, triangolare, impacciato nella sua rigidezza. I compagni intorno sono spavaldi, scherzosi, aggressivi, nella loro mimica, nelle posizioni assunte davanti all'obiettivo. L'asino, legato al carrello, trascinava la terra smossa, lungo una rotaia che s'intravede. Sulla sinistra è una funicolare per portare sull'argine i secchi di terra. Ligabue è l'unico che ha la giacca, anche se larga e malconcia, rigido con le mani lungo i fianchi. Dietro la baracca degli attrezzi, nella quale si rifugiava di notte e che dipinse in alcuni quadri, ancora anni dopo, con le pareti dai mattoni sporgenti in modo irregolare che servivano per appendere cappotti e impermeabili. Il senso della dignità gli faceva usare e richiedere il “voi”.
Divenne, con gli anni, sempre più schivo, si isolò sempre di più. Incominciò a non tollerare scherzi e derisioni. Divenne litigioso. Voleva imporre le sue manie. Nessuno poteva toccarsi il naso o soffiarselo in sua presenza, né raschiarsi la gola. Lavorò agli argini e alle strade saltuariamente, fino al 1928, poi si ritirò a vivere nei boschi. La costruzione della nuova bonifica Bentivoglio era arrivata ad una definizione già nel 1912, ma solo negli anni dell'immediato dopoguerra divenne un grande cantiere di lavoro che fu una risposta forte alla disoccupazione locale, al punto che il 30 ottobre 1926 lo stesso Mussolini ne inaugurò l'opera compiuta, strumento per una forte ripresa dell'agricoltura. Lo stesso regime promosse i lavori alla strada statale della Cisa, che attraversava queste zone usando l'argine maestro come percorso della via. Gli pagarono i contributi INPS, tessera numero 10875, che gli permisero alla fine della vita di percepire una, seppur molto modesta, pensione di dodicimila lire mensili.
Dopo aver abitato presso l'agricoltore Francesco Mazzoni, inizia a cercare rifugio nei boschi del Po, spinto dalla difficoltà di comunicare con gli altri, dall'avvisaglia di crisi personali, dall'incomprensione nei confronti della sua vocazione artistica, dal non poter essere in sintonia con l'ambiente, con una terra che sentiva non sua. “Toni”, “il tedesco”, “il vagabondo” divenne così “il matto”, in reggiano “al mat”. In questa solitudine incomincia a vestirsi da donna. Ama la biancheria candida, le sottovesti, le mantiglie, le gonne che indossa per avere un'illusione di calore femminile e per vincere la malinconia e la disperazione, come dichiarerà a Raffaele Andreassi che lo riprese mentre compiva questi rituale. Non ebbe mai una donna. Diceva che erano belle fuori e marce dentro. La sua vita sessuale è stata al centro di facili e improduttive leggende.
Va detto che Ligabue è stato tollerato, se non accettato, da quelli che erano diventati forzatamente suoi concittadini, che lo aiutavano come potevano, che lo deridevano magari, ma lo riconoscevano in un modello, quello del folle, dello strano, del diverso, coerente con una immagine conosciuta e consolidata, secondo uno schema tipico della civiltà contadina, che non attacca l'emarginato o l'altro se non quando questi si presenta con atteggiamenti tali da non farsi più riconoscere ed individuare, secondo i canoni rigorosi di una identificazione sociale che passa attraverso il consenso e la condivisione di comportamenti anche eccentrici, ma comprensibili da tutti. Ci si ribella al don Giovanni che all'improvviso si mette a baciare pile, non al seduttore impenitente né al chiesaiuolo che perseguono la loro vocazione ed il loro destino. Gli schemi vanno rispettati. E Ligabue rimase sempre quello che era per la sua gente, poveri o borghesi che fossero, che lo ospitavano e accettavano non solo stramberie, ma anche vere e proprie piccole truffe: come quando riprendeva un quadro, con la scusa che voleva verniciarlo o rifinirlo, ad uno che lo aveva già pagato e lo teneva in casa, per venderlo voltato l'angolo ad un altro acquirente. La nostra società, i nostri anni sono molto più intolleranti, molto più aggressivi verso la diversità. Ligabue aveva un suo ruolo sociale che, casualmente e molto marginalmente - a lungo fu così -, coincideva, quasi solo per chi veniva a cercarlo da fuori, con il fatto che fosse un pittore ed uno scultore.
Questa estraneità, come l'ossessiva necessità di esprimersi con la pittura, il disegno e la scultura, la forte consapevolezza del proprio valore e del proprio destino di artista, l'incapacità di ogni reale confronto, al di fuori di una ossessiva macerazione interiore dei propri mezzi espressivi, in modo istintivo, quasi al di fuori di ogni riflessione che non fossero le reazioni dell'occhio e della mano, furono gli elementi che gli permisero in un ambiente ostile e certamente poco disponibile a farlo maturare come artista, di sviluppare le proprie potenzialità, come del resto avvenne al suo contemporaneo Bruno Rovesti (Gualtieri 1907-1987), il più grande ed autentico naïf italiano, artista di fama internazionale, l'unico che può competere con Orneore Metelli, la cui storia esemplare è quella del sottoproletario che combatté nella guerra di Spagna come volontario nelle file fasciste, capace tuttavia di invenzioni, partendo da un'area culturale al limite della dissoluzione dell'immaginario popolare, che riscrivono un mondo di piaceri, ma anche di terrori. Rovesti è un narratore che rafforza i propri quadri con la scrittura. Sentiva la necessità di raccontare sul retro della tela, con parole, al limite del balbettio, l'opera che aveva dipinto. Si firmava “pittore contadino celebre”. Come certi personaggi di Bergman era ossessionato da alcune paure, in forma monomaniaca. Una di queste era lo scoppio della guerra atomica che ha dipinto più volte. Non era in grado di immaginarla che come una immensa inondazione del Po, con alberi, uomini ed animali travolti da una piena che ingrigiva in un fango scivoloso e informe aria, terra ed acqua, sopprimendo ogni colore della sua fantasmagorica tavolozza, che lo portava, in alcune opere, vicino all'astrazione.

L'incontro con Mazzacurati
Marino Renato Mazzacurati (San Venanzio di Galliera, 1907-Parma, 1969) spirito curioso, appassionato, inquieto fondatore della “Scuola Romana”, la prima quella che giustamente Argan chiamava “di via Cavour”, perché i componenti, Scipione con Mazzacurati e Antonietta Raphael e suo marito Mario Mafai, abitavano in due appartamenti sullo stesso pianerottolo in quella strada di Roma. “Componente eccentrico”, come lo ha definito Raffaele De Grada della stessa “Scuola Romana”, oggi è ingiustamente dimenticato o comunque sottovalutato.
Si è formato nell'ambiente veneto tra Padova e Venezia e dopo la prima esposizione del 1926 si trasferisce a Roma e condivide lo studio di Villa Strohl-Fern con Francesco di Cocco e Arturo Martini. Nel 1928 conosce Scipione e inizia con lui l'avventura della Scuola di via Cavour. Poco dopo torna a Gualtieri, dove la famiglia si è trasferita, per sposarsi. Nel 1931 torna a Roma dove dirige e finanzia la rivista Fronte, di cui escono due numeri. In questi anni matura la sua vocazione di scultore che verrà sostituendosi a quella iniziale di pittore, specialmente dopo un viaggio a Parigi. Dal 1938 ritorna stabilmente a Roma. Con una serie di opere tra il 1940 e il 1945 (La strage degli innocenti, 1942, Gerarchie, 1944) denuncia gli orrori della guerra. Molti i monumenti che realizza dopo la seconda guerra mondiale (Parma, 1954; San Sepolcro, 1959-1960; Napoli, 1964; Mantova, 1965, Beirut, 1957 - 1958). Nel 1966 riceve il Premio Nazionale di Scultura Presidente della Repubblica e, nell'occasione, l'Accademia Nazionale di San Luca, nella sua sede realizza una antologica omaggio.
 Mazzacurati rievocò l'incontro con Ligabue nel fortunato libro edito da Franco Maria Ricci, nel 1967. Lo sceneggiato televisivo, con la regia di Salvatore Nocita, riprende le immagini dei maialini sui muri di Gualtieri che fanno da sfondo ad un Flavio Bucci allucinato e magistrale.
Nel novembre 1928, “in quell'inverno siberiano che (...) aveva gelato il Po dalla foce alla laguna veneta” incontra Ligabue “sull'argine della golena. Non so perché abbia cominciato a parlare con me - ricorda lo scultore -, ma fu una conversazione prudente, a molti metri di distanza per aver modo di studiarmi. Io, d'altro canto, non riuscivo a capire da dove spuntasse quell'incredibile personaggio infilato in un pastrano da carabiniere rigonfio di fieno e legato tutt'intorno con delle corde, che attizzava il fuoco sotto un rudimentale fornello di mattoni. In una lingua incomprensibile, che era un misto di tedesco e di dialetto emiliano, mi spiegò che stava preparando la sua cena: un gatto lessato in un bussolotto da conserva. Si preoccupò subito di dirmi che non l'aveva ammazzato lui, che amava molto gli animali e sarebbe morto di fame piuttosto che ucciderne uno”.
Mazzacurati era andato appositamente a cercare Ligabue nei boschi come testimonia una lettera di sua moglie Pia a Zavattini da Guastalla del 20 settembre 1974: “Carissimo Cesare, grazie per la tua visita e grazie anche al tuo simpatico amico. Ho ripensato alla nostra conversazione di ieri sera: posso dirti ancora per ciò che riguarda il primo incontro di Marino col Toni, che forse fui proprio io e involontariamente, a procurarlo. Quelle scrofe coi maialini che io vedevo ogni mattina passando in bicicletta per Piazza Nuova, erano un bel po' ossessive per me; quei disegni a carbone sui muri scrostati delle case non passavano inosservati. Certamente ne ho parlato a qualcuno che allora si interessava molto a me, alla mia vita di ragazza laboriosa, alle mie mani intirizzite dal freddo inverno. Tacitamente il messaggio è stato captato e trasmesso al personaggio oggi famoso che bazzicava nelle grandi case coloniche vicine alla località Palazzina dove noi abitavamo. Quelle aie piene di animali, scrofe, cavalli, colombe, lo attraevano irresistibilmente e qualcuno deve averlo abbordato con quella carica di umanità e di simpatia di cui era largamente dotato. Era allora il sig. Renato, oggi R. Marino Mazzacurati. Il suo studio era là, vorrei proprio fartelo vedere, sotto un portico, in Palazzina, pronto ad accogliere quel poveretto dileggiato e beffato da tutti per il suo aspetto meschino e per la sua infermità (n.d.a. epilessia). Figurati che non voleva neppure il cibo dalla donna ed era affamato, per non armusciare il fiato (n.d.a. mescolare il fiato, dare confidenza). Il sig. Renato lo ammansì e gli ridiede fiducia, si sentiva protetto e lavorava ai primi quadri con grande serenità, senza l'assillo del denaro che venne in seguito. Così nacquero i grandi quadri con un impianto vigoroso che oggi quasi stupiscono. A proposito dei quadri del Livello debbo dirti una cosa: Renato aveva dipinto uno dei tanti quadri al Livello, ma non gli piaceva e lo scartò. La stessa tavoletta la passò al Ligabue (n.d.a. era faesite) che vi dipinse un testone di tigre, meraviglioso, ricordato nel libro di Ricci e tuo sotto la voce Dallaglio Renato e Rita Guastalla (miei fratelli). Mio fratello il quadro ce l'ha a Genova... Anzi pochissimi giorni fa venne a trovarmi e mi chiese se si poteva dividere la tavoletta in modo da valorizzare il dipinto di Renato, ma non ho potuto dare un parere. Mi è sembrata un'impresa pericolosa. La testa di tigre è notevole. Scusami di questi pessimi appunti...”. C'è un altro quadro, una tela, dipinta a due mani da Ligabue - con il suo primo Re della foresta (cat. 2) - e da Mazzacurati con un abbozzo di una figura femminile, forse una cugina, sull'altro lato.

La mostra difficile a farsi
Dopo l'incontro con Mazzacurati Ligabue venne impadronendosi della tecnica ad olio ed elaborando un proprio stile, indifferente ai suggerimenti che Marino gli dava, ma perduto per intere giornate, in un angolo dello studio, al punto che alcuni visitatori non si accorgevano neppure della sua presenza, a memorizzare ogni gesto del ‘Mazza' mentre dipingeva, ogni sua pennellata, ogni impasto di colore. Lo stesso uso della tavolozza diventa una conquista appresa con gli occhi e sperimentata in solitudine, lontano da giudizi che avrebbero potuto ferire. Diverso il discorso per la scultura che, data la possibilità di usare l'argilla raffinata del Po, praticò forse sin dal 1926. È certo che tutti gli oli sopravvissuti sono posteriori all'incontro con il maestro della Scuola Romana. Rannicchiato nello studio di Mazzacurati lo vide la prima volta il pittore Arnaldo Bartoli (Reggio Emilia, 1900 - Guastalla 1993) e nello stesso luogo lo conobbe il pittore scultore Andrea Mozzali (Guastalla, 1895 - Poviglio, 1977).
Mazzacurati convince Sandro Volta a scrivere il primo articolo su Ligabue  che compare il 24 aprile 1931 su Il lavoro fascista. Lo fa conoscere a Giorgio Morandi, a Luigi Bartolini, a critici ed artisti. Convince Marcello Nizzoli, pittore e padre del designer italiano ad acquistare due quadri negli anni Trenta e, nel 1938, altri ne farà vedere nello studio di Arnaldo Bartoli a Pompilio Mandelli, che non li apprezzerà.
Nel novembre del 1930, a Milano, alla Galleria il Milione, avrebbe dovuto tenersi la prima personale di Ligabue, promossa, ovviamente da Mazzacurati, come dimostrano alcune lettere di Edoardo Persico allo scultore, che lo sollecitava il 20 ottobre 1930: “Dal cinque al venti novembre terrò la mostra di tutta l'opera di Ottone Rosai... Mi dica pure se intende esporre dal ventuno novembre al cinque dicembre le opere di Toni. L'occasione è favorevolissima, perché terrò contemporaneamente la mostra di un pittore carabiniere, che va d'accordo con il suo protetto, e perché posso fare delle ottime condizioni”. Il carabiniere era sicuramente il naïf Francesco Di Terlizzi, che aveva esposto per la prima volta a Trento nel 1928 alla mostra sindacale ed era sostenuto da Carlo Belli. Un'altra lettera di Persico del 12 novembre 1930 dice dell'urgenza di una risposta da Mazzacurati: “Le ho scritto una lettera giorni fa per la mostra di Toni. Le riscrivo per sollecitare l'invio delle opere. L'esposizione avrà luogo dal ventuno al trenta novembre, e non c'è tempo da perdere. È indispensabile che i quadri giungano subito a Milano, e comunque non oltre il diciotto. Mi spedisca pure quante fotografie ha di essi, per la riproduzione nel catalogo. Per questo è anche necessario che Ella scriva una breve nota biografica del Suo protetto. Questa cosa è anche urgentissima. Mi perdoni la fretta della presente, ma temo che la mostra senza la Sua fattiva collaborazione subisca dei ritardi che sarebbero dannosissimi per tutti. In quanto alle spese ci metteremo d'accordo più tardi: adesso occorrono le opere, le fotografie, la nota biografica. Le sarei riconoscentissimo se mi assicurasse telegraficamente”. A favore dell'esposizione delle opere di Ligabue aveva scritto anche il 3 settembre 1930 Carlo Conte: “E Toni? C'è il Signor Persico organizzatore delle mostre della Galleria nuova che scriveva che desidererebbe vedere qualche cosa a mezzo quelle fotografie che mi dicevi di spedire allo stesso sig. Persico”. Il Milione avrebbe aperto in autunno e avrebbe avuto interesse a presentare artisti nuovi e condurre avanti, come fece, una forma di arte non accademica, né tradizionale e proprio Conte era stato mediatore della mostra che Mazzacurati intendeva fare. Il silenzio di Marino con Persico continuava come dimostra la lettera che questi gli scrive il 20 gennaio 1931, in cui sollecita che si faccia vivo e quindi: “Scrivimi dunque. E dimmi ancora se hai intenzione di aiutarci per la mostra del carabiniere. Naturalmente le mille lire, che potrebbero essere anche ottocento, contribuiranno anche a facilitare la tua esposizione in aprile con Toni. Scrivimi anche di questo, benedetto Mazzacurati”. Non sappiamo per quali ragioni la mostra non si fece. Certo le prime difficoltà economiche, che sarebbero divenute drammatiche nel 1933, si facevano sentire in casa Mazzacurati e doveva essere difficile riunire le opere di Ligabue per una mostra, seppur modesta ed esemplare come forse questa voleva essere.
Mazzacurati torna a pensare ad una personale di Toni nel 1940, come dimostra una lettera a Walt Arslan (Padova, 1899 - Milano, 1968) al quale scrive il 23 settembre, da Roma: “Tu hai sempre quel quadro di animali di Ligabue? Ebbene, ora sto raccogliendo tutte le opere di costui, per farne una mostra che riuscirà interessante dato il carattere popolaresco di questi dipinti. Se tu me lo vuoi mandare, in cambio ti regalo un mio bronzetto e te lo spedisco subito”. Rossana Bossaglia negli anni Cinquanta aveva visto in casa di Eduardo (Jetwart) Arslan quell'opera di Ligabue, di cui ritrova, a distanza di anni traccia nel carteggio tra il pittore e lo storico dell'arte, degli anni quaranta quando Marino cercava di riunire i quadri di Ligabue, forse per una mostra, e proponeva uno scambio che non avvenne.
Riuscirà ad organizzargli la mostra romana dal 4 al 16 febbraio 1961, una personale alla galleria “La Barcaccia” in piazza di Spagna, presentato da Giancarlo Vigorelli, che ne consacra il raggiunto successo.
Stando a Roma Mazzacurati richiedeva continuamente le opere di Ligabue che presentava ad amici, artisti o critici, come nel caso di Bartolini, che scrisse tre esemplari articoli tra il 1940 e il 1952 editi sulla rivista della Biennale di Venezia in quell'anno, o a galleristi, vendendole anche ed inviandone il ricavato al pittore. Svolse questa funzione anche nel secondo dopoguerra e fu certamente il più attivo agente dell'artista, promuovendolo in ogni modo. All'annuncio della morte del pittore, oltre a scrivere un'appassionata testimonianza, Maz-zacurati realizzò un omaggio ritraendolo con una sua tigre e foderando la tela con i giornali di quel giorno, che riportavano la ferale notizia.
Mazzacurati sistema Toni “in una baracca che avevo attrezzato con un letto e una stufa”, e lo invita nel suo studio nella Palazzina, la villa Malaspina di Gualtieri.

L'incontro con Arnaldo Bartoli
Possiamo incontrare Arnaldo Bartoli a Guastalla, in un momento irripetibile: “La giornata canicolare aveva svuotato la città... Strada Gonzaga deserta. Pendevano inerti dai negozi, dai caffè le tende stinte; sbarrate erano le porte, e l'occhio che poteva spaziare in tutta la lunghezza cittadina, non scorgeva anima viva. Se non il messo del municipio che pisolava su una sedia, al riparo sotto il voltone... Sembrava che sulla città gravasse un incantesimo: irreale, fantastica, appariva e sarebbe sembrata finta se dalle chiese, anche esse dai nomi curiosi - Della Morte, Dei Servi - non fossero arrivati a intervalli i suoni delle ore cadendo e spargendosi nell'atmosfera rovente”.
È su questo scenario che inizia il romanzo di Giannetto Bongiovanni (Dosolo 1890-Brescello 1964) intitolato Misteri al “Palazzone”, edito nel 1945 dalle edizioni Alpe di Milano, di cui Arnaldo Bartoli detto Canel (“un pittore autodidatta il quale aveva lasciato il negozio paterno per i pennelli, estroso, conoscitore del colore, con una innata diabolica disposizione a vedere negli uomini i difetti fisici e morali: i suoi ritratti, perciò, non piacevano mai agli interessati”), non solo è protagonista, seppur sotto finto nome, ma anche, in un certo senso, coautore se dobbiamo dar credito alla dedica autografa dello scrittore sulla copia conservata alla Biblioteca Maldotti di Guastalla di questo lungo racconto giallo: “Al caro amico Canel detto anche Bartoli che ebbe l'idea della scala segreta, Dosolo, aprile 1946”.
È in questa atmosfera padana accaldata, con il sole a picco, il cielo livido quasi nell'eccesso di luce, che piace incontrare Bartoli (Reggio Emilia 1900-Brugneto di Reggiolo, Reggio Emilia 1993). Iniziò a dipingere nel 1928 “per scherzo”, raffigurando un piatto di pesce. Marino Renato Mazzacurati lo incoraggiò: “Dietro consiglio di Marino mi appropriai maggiormente della tecnica pittorica - ha lasciato scritto Bartoli - ... cominciai a vedere il mondo in un altro modo, e la donna sotto un altro aspetto e la società e tutto il resto”. Questa lucida volontà di impadronirsi dei mezzi tecnici, di essere assolutamente consapevole dei processi creativi e degli esiti del linguaggio artistico, spinse Bartoli, sin dall'inizio, a dare grande rilievo alla grafica, realizzando disegni, acqueforti, xilografie, linoleografie. Culturalmente per lui fu anche importante la lunga frequentazione con lo scrittore Giannino Degani (Reggio Emilia 1900-1977). Così da una primitiva adesione ad una pittura naturalistico-romantica, dalla scoperta del paesaggio Bartoli passa alla rappresentazione dell'uomo, abbandona gli influssi simbolisti, decadenti, postimpressionisti, aderendo alla quotidianità, ricollegando, come scrisse Degani nel 1943, la lettura personale di Giotto con Cézanne.
 La scoperta di Giotto da parte di Bartoli Degani la rievoca anche in Sugli Appennini nevica (Reggio Emilia 1947), non come regressione neoprimitivistica, ma, al contrario, come necessità di una serrata riflessione “sotto un nuovo punto di vista che riguarda la composizione”, sul rapporto arte e natura, sulla consapevolezza dell'artista in ogni momento del suo operare, sulla ricerca di un linguaggio pittorico essenziale, attento alla costruzione del quadro, indagatore delle forme sottese al reale, asciutto nel definire piani, nello scegliere ed impastare i colori, lucido nel rifiuto di ogni naturalismo e di ogni cedimento sentimentale. A queste scelte e scoperte il pittore rimarrà fedele tutta la vita.
Nel 1946 per sei mesi si trasferisce a Milano, incoraggiato da Degani, come collaboratore e redattore de l'Unità, ma scappa. “sono fuggito - scrive - inorridito perché mi mancava quello che avevo trovato nel mio fiume, non c'erano accanto a me uomini che vivessero a contatto con la natura... Passavo le giornate nella mia stanza o in giro per la città a cercare quello che non sono riuscito a trovare. Poi sono tornato a Guastalla, nel mio elemento. Ho scoperto, attraverso la mia esperienza, che il mondo si può ridurre a pochi metri quadrati, a pochi personaggi, quando si vuole rappresentare quello che c'è di eterno nella vita dell'uomo”.
In questo ritorno di Bartoli a Guastalla, nella sua tenace fedeltà ad un ambiente, agli umori di una terra, ad una gente, che è venuto scrutando, dipingendo e ridipingendo lungo l'arco di una vita, non c'è nulla di provinciale, nessun senso di rinuncia, di frustrazione, di immiserimento quotidiano di un'esistenza e di un'arte che avrebbero potuto essere diverse, ma, al contrario, la riconferma di una scelta. Non deve ingannare il fatto che il mondo che egli rappresenta sembri sospeso, al di fuori del tempo, fatto di uomini che ciondolano in umili lavori manuali, vagano nelle golene del Po, riposano in osterie affumicate, percorrono strade di paesi che appaiono dimenticati su surreali biciclette o avvolti da tabarri che evocano epoche lontane. Non sono mai comunque scenari microscopici di piccoli mondi immemori e smemorati, quasi sospesi in una non vita. La gente di Bartoli - perché di gente, di un intero popolo, si tratta - si muove coralmente, in un'asciuttezza di rapporti che rende il senso profondo di una solidarietà che non cede a sentimentalismi, restituisce a ciascuno la propria individualità, la propria personalità. Il fatto che egli dipinga i protagonisti delle sue opere senza volto, che ne allunghi la figura, asciugandone le forme, restituendo loro l'ossatura distorta in spigolosi e vegetali contorcimenti, accentua il senso di questa continua affermazione della dignità dell'uomo, il bisogno di assoluto, di perenne, di sostanziale. Questo suo sentire è confermato dalle sue poesie, dai suoi racconti lucidi ed essenziali, che si muovono in un ambiente reale, ma anche stralunato, sempre pronto a farsi coinvolgere e sconvolgere da una bizzarra fantasia, da una voglia irrefrenabile di ridere, da una insospettabile disponibilità all'assurdo, che rende sconcertante il suo narrare.
Arnaldo Bartoli è stato uomo di Po, razza selvatica e tenera, ormai estinta, di esseri che vivevano in simbiosi con il grande fiume, lo amavano, lo rispettavano, lo percorrevano con tutti i mezzi, diffidenti e ruvidi nella loro passione, solitari o comunque parsimoniosi e cautamente diffidente nel condividere i loro segreti, le loro scoperte. Per cui non a caso Cesare Zavattini (Luzzara, Reggio Emilia 1902-Roma 1989) comprese il valore della straordinaria confidenza che Bartoli gli faceva nel 1953 sui modi di catturare - qui si dice pescare - le rane, al punto che prese appunti e ne scrisse in Straparole, edito nel 1967: “Bartoli mi parlò di quelli di Dosolo il paese mantovano, dirimpettaio di Guastalla, al di là del Po, centro dell'opera dello scrittore Giannetto Bongiovanni, che non vanno con le lampade alla sera ad accecare le rane, facilmente riempirebbero i secchi, ma sono dei puri, anche se ci campano con questo mestiere: escono di casa alla mattina quando si incomincia appena a vedere, il ranaro deve essere scalzo e nascosto, Bartoli usa il cannocchiale: le rane mettono fuori dall'acqua verde gli occhi, si vedono solo i due occhioni sempre in attesa, in ascolto, si può dire, di chi sa cosa, con la sua canna corta o lunga, a seconda dei casi, Bartoli getta l'esca, la rana vede e canta vien fuori. L'esca è fatta con tre batuffolini di bavella, bisogna agitare la canna in modo che i batuffolini si muovano come insetti e la rana si decida, perché è vorace: questa bavella si impiglia nel palato, la rana capisce subito l'inganno e spalanca la bocca per liberarsene ma, un attimo di un attimo prima, il ranaro le ha già impresso una forza di caduta a rovescio, per cui è attratta al volo verso il suo carnefice che allunga la mano, l'afferra nel momento che resta ferma nell'aria, prima cioè che esaurita la forza che ho detto, possa ricadere nell'acqua, e la butta con un gesto meccanico, senza neppure voltarsi, nello sportellino della borsa di vimini a tracolla. Quando la rana si sente strappata dal collo della canna, fuori dal suo elemento regale, si allarga più che può, per rallentare la fine, diventa davvero più grande, ma la manona di Bartoli è già lì”.
A questa pagina fa quasi da contraltare il racconto di Bartoli intitolato Il ranone che fa parte del volume A memoria d'uomo. Immagini e racconti della Guastalla di ieri (Guastalla 1984).
Ecco attraverso la pesca delle rane i destini del pittore incrociarsi con quello dello scrittore e sceneggiatore cinematografico. Non era certo la prima volta, ma è singolare il modo. Ed essi si erano incontrati anche nella attenzione che hanno sempre mostrato verso Ligabue, nella comprensione che hanno avuto del suo valore artistico, nella partecipazione alla sua fragilità umana, nel tentativo silenzioso, ma reale di alleviarne l'angoscia.
Bartoli incontra Ligabue, negli anni trenta. Ancora una volta è Marino Mazzacurati che offre l'occasione per mettere in contatto i due, che condivideranno tanta parte dell'esistenza in un rapporto talora conflittuale, ma sempre improntato ad un rispetto reciproco, ad una studiata attenzione vicendevole, non senza sottili, segrete e tenute ben a freno, vene di rivalità artistiche: “Ho conosciuto Toni a casa Mazzacurati, - ha scritto Bartoli - ero andato a trovarlo nel suo studio per vedere un grande nudo, che stava dipingendo, quando entrò lui. Mi guardò a testa bassa emettendo quasi un grugnito, e andò ad accucciarsi nell'angolo più lontano della stanza. ‘Questo è Toni del quale ti parlai', disse Renato Mazzacurati, ‘anche lui pittore, dorme qui, nel fienile. Mi si è rivelato l'altro giorno, entrando qui, mentre lavoravo, mi disse che anche lui dipingeva. Incuriosito, gli diedi un paio di tavole di compensato e, messogli a disposizione il mio materiale, dipinse questi due quadri'. Mi mostrò due opere che anch'io trovai interessanti; forse fu questo apprezzamento che lo ben dispose nei miei riguardi; lo dimostrò cessando il grugnito. Portammo poi il discorso sull'amore per gli animali, e ciò servì a rafforzare quel senso di fiducia che notai in questo primo incontro; però, quando, nel congedarmi, mi avvicinai a lui per salutarlo, con un balzo si portò fuori dalla porta e scomparve”.
Più volte in interviste Bartoli è tornato a raccontare dei suoi rapporti con Ligabue, non solo del primo incontro, del quale ricordava che un quadro rappresentava una giraffa aggredita da un leone, ma anche dell'ospitalità che offrì a Toni nel suo studio per molto tempo.

Ho fatto senza scuola
Dopo l'incontro con Mazzacurati Toni venne impadronendosi della tecnica ad olio ed elaborando un proprio stile, indifferente ai suggerimenti che Marino gli dava.
Lo stesso Ligabue si vantava con Ugo Sassi che il maestro si fosse interessato a lui, proprio perché egli era refrattario a qualsiasi insegnamento: “ma che imparato! Mazzacurati mi ha preso perché io ho fatto senza scuola... dono di natura. Autodidatta”.
Nello stesso nastro registrato sosteneva di aver dipinto i primi quadri nello studio di Mazzacurati, ma poi “più avanti, continuando il discorso, si contraddice e ricorda di avere lavorato, in precedenza, a un quadro per un certo Nicolini, meccanico di Gualtieri”. È certo che tutti gli oli sopravvissuti sono posteriori a quell'incontro.
Nelle prime opere Toni ci appare come un dilettante di genio, un artista che sta inventando il proprio linguaggio personale, talora sgrammaticato, asintattico, balbettante persino, per certi aspetti, ingenuo, intuendo più che imparando soluzioni formali da autodidatta, cercando di domare una tecnica non docile. La genialità di Ligabue, spesso anche in queste opere frutto di una pittura declinata in dialetto, quasi, consiste nelle invenzioni tecniche che gli permettono di risolvere alcuni particolari nel gusto, istintivo, della scansione paratattica, come di figurine accostate tra loro, tratte da una iconografia che viene attingendo dalla quotidianità. Ne nasce una impaginazione semplice, ma equilibrata, nella quale prospettiva e realtà vengono deformate a fini estetici. Una sottile struttura geometrica viene definendo i piani, spesso indicati semplicemente come paralleli e orizzontali, ma che vengono velocemente complicandosi con schemi più complessi, con diagonali, con croci, con forme circolari, sempre chiuse però tra una base ed un cielo, al di sopra, orizzontali che collegano o bloccano le immagini. Da questa sapienza compositiva nasce anche la capacità di accentrare l'attenzione sulle figura o le figure principali e narrarne il dramma o gli eventi.
Coraggio non indifferente per un ‘dilettante' qual era che partiva da una minuziosa adesione alla realtà umile, di ogni giorno, fatta di polli, di aie, di animali domestici, di case coloniche, di contadini al lavoro e di carraie che si perdono nei campi, da cui staccava frammenti e che assemblava in un puzzle, che tentava di essere una narrazione. Ligabue infatti sin dall'inizio manifesta una vocazione ed una volontà narrativa; ha il gusto del racconto, dell'avvenimento, dell'affabulazione popolaresca, nelle prime opere semplicemente aneddotica, quindi, man mano che veniva affiorando la sua personalità e veniva dotandosi di adeguati strumenti espressivi, favolosa, simbolica, epica e mitica.
Le prime opere sono realizzate su compensati o su assi di legno, ma non manca una tela datagli da Mazzacurati sulla quale egli ha abbozzato un ritratto forse della moglie Pia e Toni una scena di animali selvaggi, nota come Re della foresta o La giraffa sbranata (cat. 2), con un leone che uccide una giraffa, attorniato da due iene, mentre sullo sfondo due sciacalli arrivano velocemente attratti dall'evento. In basso lo scheletro di un animale dalle corna ricurve dal quale le iene si distolgono interessate alla nuova vittima.
Le macchiette, la goffa caricatura sarebbero state soluzioni facili, quasi obbligate nella figura umana da parte di chi non aveva nozioni prospettiche e delle proporzioni. E qualche cedimento in questo senso lo ha avuto anche Ligabue che avrà sempre un certo impaccio nel risolvere la figura umana inserita in un ambiente naturale, non il ritratto. A salvarlo da questo facile adagiarsi in raccontini fatti di niente è la sua passione per gli animali, insieme al suo incredibile istinto di pittore. Gli animali lo costringono a cercare di riprodurne il movimento e a studiarne la conformazione e le caratteristiche, a situarli nello spazio, a scoprire angolazioni diverse per riprodurli. All'inizio, infatti, da dilettante, li raffigura staticamente riprendendoli di profilo. Sono silhouette di gusto araldico quasi, poste tutte sulla stessa linea, irrigidite, paratattiche, in una sequela di sagome da illustrazione infantile. Ne studia con pazienza la forma, i rapporti tra loro, le proporzioni, i movimenti più semplici, ma caratteristici di ciascuna specie, come l'alzare una zampa, l'ergersi di un collo. Poi questi contorni prendono, grazie al colore, sempre più corpo, fino a muoversi. È il colore lo strumento linguistico del quale Toni si impadronisce più velocemente, agevolato anche dal fatto che non sentirà mai il bisogno di disegnare prima il soggetto che vuol rappresentare, ma giocherà sull'impasto cromatico, sul trarre da pochi tubetti sfumature, varianti e toni estremamente diversificati e sempre più complessi ed articolati, senza incongruenze, senza esitazioni. I rapporti cromatici risultano sin dall'inizio sicuri, determinati, coordinati, senza ‘stecche', in una fantasia che nei primi quadri si trasforma in atmosfera, in stesure ‘tonali' che ricordano lo sgranarsi luminoso delle nebbie autunnali o la indeterminatezza di certi tramonti estivi padani, sfatta nel denso pulviscolo che vela anche i raggi più crudi. Lo sfondo non viene quindi definito, ma solo accennato, per cui questa acquisita libertà gli permette di inventare orizzonti fantastici con mezzi spesso molto poveri, addirittura ricorrendo a stilemi, a veloci stilizzazioni talora ripetute come cliché. Solo in un secondo tempo recupererà, su un piano però di creazione fantastica e non di citazione del reale, un gusto definitorio, miniaturistico che insegue ogni particolare dove l'occhio può vedere, sono le opere della piena maturità per le quali si può applicare la definizione di Giancarlo Vigorelli del 1961 che in Toni vide un artista “gotico-padano”. Lo stesso discorso prospettico viene dapprima accennato e poi risolto con una specie di prospettiva alla “fiamminga”, puramente ottica e visiva, naturale, non certo erede della quattrocentesca alla italiana, di carattere matematico, intellettuale e artificiale.

Il quadro nella testa
Sul modo di dipingere di Ligabue abbiamo due testimonianze preziose. La prima è quella di Andrea Mozzali: “Ligabue quando doveva dipingere un quadro se lo figurava già finito tutto nella testa. Non faceva nessun disegno, ma il quadro dipinto a olio lo cominciava da un particolare, generalmente dalla testa dell'animale, che lui voleva riprodurre. Finita la testa perfettamente, non aveva bisogno di ritocchi. Poi continuava col corpo, con zampe ecc. Gli altri animali, la preda, la vittima della belva, poi faceva tutto il paesaggio, ma pezzo per pezzo finito completamente che non aveva più bisogno di nulla”.
In realtà all'atto del dipingere si preparava immedesimandosi in ciascuno degli animali che avrebbe rappresentato, adattando il proprio corpo altrimenti goffo e deforme, a riprodurne movenze, atteggiamenti tipici, sbattere di ali, digrignare di fauci, scatti di zampa ad aggredire, a difendersi, mentre ruggiva, ululava, mugghiava, pigolava e faceva mille altri versi, ripetuti ossessivamente. Interrotti solo dal comprimersi le orecchie per modulare a labbra chiuse una nenia, tra il lamento, la ninna nanna e un arcaico ricordo di flauto, nasale e lamentoso, misterioso richiamo per scatenare forze occulte. Gesti magici, come cerchi per terra, rafforzavano la preparazione. Pennellate rapide con gesti veloci, decisi. Poi si allontanava di scatto, per vedere l'insieme. Se il quadro non rispondeva alle sue aspettative lo colpiva con la testa. Seguiva un raccogliersi su se stesso, in posizione fetale, abbracciandosi le gambe e lamentandosi con suoni brevi, tra il gemito, il sospiro e il verso, come in un segreto compianto per un dolore inconsolabile, dal quale poteva sollevarsi all'improvviso per ricominciare a dipingere o nel quale poteva rimanere prostrato per ore, inerte e vinto.
L'altra testimonianza è di Aldo Bertolani il direttore dell'Istituto psichiatrico di San Lazzaro in una lettera scritta da Reggio Emilia il 22 marzo 1941 a Luigi Bartolini: “Laccabue è un lavoratore lentissimo. Soltanto ora ha finito il suo autoritratto. Aspetto che i colori siano asciutti, poi vi spedirò il quadro insieme a un altro (cortile (con troppa erba) di una casa colonica) che l'artista ha voluto prima eseguire. Laccabue dipinge senza disegno preventivo. Comincia dall'alto della tavola e scende, con pentimenti e correzioni, sino al margine inferiore”.
Ligabue dunque è in grado di ricostruire mentalmente la forma ed il movimento caratteristici dell'animale, con una memoria sorprendente. In quanto ai soggetti, spesso si citano libri di zoologia ottocenteschi, che poteva vedere alla Biblioteca Maldotti di Guastalla, oppure litografie popolaresche con scene di genere, illustrazioni dell'infanzia, persino i fumetti, ma fino ad ora non è stato possibile indicare un solo caso nel quale Ligabue abbia esplicitamente “copiato”, quasi che attingesse ad un'iconografia che appartiene ad un inconscio figurativo collettivo, atemporale, astorico. Molte immagini le assorbiva dal cinema, che amava molto. Ci si ricorda ancora di quando durante le proiezioni tifava per gli animali contro gli uomini, con una passione che disturbava gli altri spettatori, che spesso protestavano.

L'iconografia rivitalizzata
L'iconografia di Ligabue è fatta di stereotipi, alcuni antichissimi come il cinghiale o il cervo assaliti dai cani, con le femmine più feroci ed audaci dei maschi, o i due cervi che combattendo tra loro rimangono impigliati con le corna e diventano facile preda dei cani che sopraggiungono, o la slitta assalita nella neve dagli orsi o dai lupi, o il castello riflesso nell'acqua immota del fossato, o il pastore che suona il flauto riposando sotto un albero mentre intorno a lui il gregge bruca: sono tutti motivi figurativi così antichi che alcuni erano forse già vecchi in età ellenistica, ormai svuotati da ogni carica espressiva dal tempo e dall'eccessivo uso, così sviliti da ridursi a soprammobili di gesso, a illustrare calendari da pochi soldi, ad insegne di bettole infami e a rintanarsi in sperduti angoli (ma quali?) dai quali è come se Ligabue li avesse tratti per ridare loro vita, per farceli scoprire come un'invenzione iconografica nuova ed originale (anche se dentro ci turba un senso di déjà vu, che è forse una delle tante ragioni per cui Ligabue affascina pubblici così enormi ed eterogenei). Toni che recupera stereotipi, ma anche ne crea, si allontana dalla realtà, come mera adesione e riproduzione, per interiorizzare le immagini che predilige, ruminarle, sgretolarle e adattarle ad una visione che tutta sua, arcaica, magica, diventa un'emozione, un archetipo che si nasconde in ciascuno di noi e viene da epoche lontane, come un relitto od un fossile. E questo superamento della realtà, nella maturità, si manifesta con un eccesso di realismo, con un particolare iperrealismo proprio del linguaggio di questo artista.
Il gioco delle varianti tra soggetti è quindi fondamentale: molte opere sembrano ripetitive, si pensi ai pollai o alle lotte di galli apparentemente tutti uguali, che invece costituiscono come un'unica interminabile sequenza di uno scontro che non ha fine e proprio per questo diviene più angoscioso, più alienante, anche per chi guarda le opere. Le scene di violenza di Ligabue sono infatti senza un vinto od un vincitore definiti. Certo si comprende benissimo chi ha fatto la prima mossa, chi ha teso l'agguato, chi si è avvantaggiato della sorpresa, ma l'aggredito non è mai definitivamente annientato. Gli rimangono risorse, può ancora capovolgere le sorti dello scontro. È la fotografia, l'istantanea dell'atto dell'aggressione che interessa l'artista più che l'esito dell'evento, perché la violenza non ha fine. Anche l'animale che tiene una preda in bocca, che credeva di gustarsi il premio della sua ferocia può essere a sua volta vittima di un'aggressore che lo attende nell'ombra, indifeso per il recente trionfo. Il pittore coglie questi momenti di trepidazione, di paura e di eccitazione e li trasforma da storie di animali in situazioni simboliche, universali e profondamente umane.
C'è anche talora una sottolineatura persino eccessiva di possibili elementi simbolici, soprattutto nelle opere precedenti alla seconda guerra mondiale. Si pensi alla presenza di teschi, di scheletri umani, di insetti che percorrono il terreno, talora in modo inopportuno ed eccessivamente insistito, al limite di facili citazioni retoriche. Hanno l'ingenuità delle narrazioni popolari che aggiungono elementi stereotipati di orrore, per suggestionare gli ascoltatori. Sono come gli scheletri, loro fratelli, dei baracconi delle fiere, dei film muti, sottolineature dell'effetto del brivido, del sottile e perverso piacere della paura, eccessi narrativi. Ebbene questi elementi ritornano con ben altra carica emotiva nelle opere più mature. La situazione è la stessa: agguati, lotte, difese o assalti disperati, ma il quadro ha una tale intensità artistica, una tale vitale potenza, che queste intrusioni si trasformano in inquietanti allusioni, in segreti rimandi, sono relitti di una storia mitica della cui tragicità la scena principale dipinta non è che il perpetuarsi incessante, sfiorano la più criptica ed ossessionante rappresentazione, che sconfina con l'inconscio, con gli incubi più privati di ciascuno. Non sono simboli, ma rimandi, indizi di un più complesso problema che nasconde il mistero del vivere.
Ligabue incomincia ad avere ben presto alcuni estimatori, tra i quali il flautista Licinio Ferretti, il Severino Gazzelloni, di quegli anni, che lo ospita nel 1932, per diversi mesi nella sua casa a Baccanello di Guastalla. Nel 1934, il 23 agosto, Ligabue viene accolto nel ricovero Carri, struttura che serviva da infermeria, ospizio di mendicità e reclusorio. Da qui spesso si allontana. Qui inconterà il Laccabue, il padrino che eviterà sempre. Del resto da tempo aveva trasformato il proprio cognome in una forma presente nel reggiano che riteneva più “nobile”, più adeguata ad un artista.
Sandro Volta firma il primo articolo su Ligabue il 24 aprile 1931 su Il lavoro fascista. L'articolo è corredato dalle foto di due opere, forse fornite da Mazzacurati, che aveva, come si è detto, sollecitato l'intervento.
Il giornalista tratteggia Ligabue, anche se si capisce che non lo conosce personalmente: “Toni Ligabue, chi lo conosce, dicono che sia un giovinastro sulla trentina abbastanza malandato nel fisico: allampanato, mezzo sbilenco e senza più un dente in bocca. Anche dell'intelletto pare che gli manchi qualche numero, ed è difficile fare una conversazione con lui, sia pure su argomenti giornalieri, con più di dieci parole filate. Preferisce esprimersi a gesti, a alzate di spalla, a fischi, a mugolii, ama star solo e, quando può, si rintana. Ha insomma una natura foresta ch'è impossibile addomesticargli”.
Descrive con molta precisione i rituali che usa per immedesimarsi negli animali che sta dipingendo. Conclude: “I suoi quadri costituiscono così un'avventura delle più suggestive, ma non è tanto di questo interesse romanzesco che volevo dire, quanto della raffinata sensibilità che li anima, innalzandoli ad espressioni di vera arte. Un delicato arabesco lega ogni opera e la squisitezza dei colori, l'eleganza delle linee è tanta che si pensa a un arazzo o a un tappeto prezioso”.

La Pia Cantina di San Francesco
La frequentazione comunque anche negli anni trenta tra Bartoli e Ligabue fu notevole se Ligabue fu ammesso, seppure probabilmente in posizione marginale - ma era la sua stessa umoralità a farlo spettatore, attento e silenzioso, più che protagonista -, alla ‘Compagnia dei Gaudenti', come la chiama Giannetto Bongiovanni presentandola nel romanzo citato, costituita da Aldo Mossina “un avvocato senza cause, studioso di storia locale, che passava il tempo a far copiare ai giovani di studio documenti di una storia di Guastalla che aveva in animo di scrivere”; con Bartoli erano i suoi fratelli Emilio, Renato e Giuseppe, il violinista Ermanno Marchesi, padre dello storico verdiano e scrittore Gustavo, “terribile mangiatore detto ‘verme solitario'”, quindi Artemio Agazzani “un direttore di banca Mazzini, appassionato per il canottaggio” e altri. Lo scrittore così sintetizza la Compagnia: “Costoro erano formidabili cacciatori, pescatori sapienti e pazientissimi e, tutti, terribili mangiatori e bevitori, le cui gesta venivano raccontate nell'oltre Po, dove avevano divorato enormi ‘spalle cotte' e forme intere di parmigiano. Essi, oltre alla bella vita, amavano la città, sempre pronti a difenderla, a patrocinare e promuovere iniziative che potevano darle luce e decoro”.
In realtà la Pia Cantina di S. Francesco, come viene chiamata dalla sede nella quale si riunivano, era il centro di una classe intellettuale colta, un po' ribelle, che giocava tra atteggiamenti scapigliati, apparenti provincialismi, un ruolo fondamentale di svecchiamento della cultura e delle istituzioni locali. Ha funzionato dal 1933 al 1955/56. La rinascita della Biblioteca Maldotti, il recupero della storia e della identità locale, la festa popolare della gnoccata, la creazione del Lido Po come luogo di svago, di attrazione turistica, di iniziativa sportiva, il desiderio di superare il grande fiume con un ponte che legasse l'Emilia con la Lombardia, l'interesse per il mondo della produzione, della pubblicità, dell'industria nascente su basi vocazionali, come quella del compensato che usava i pioppi delle golene, la diffusione di un'idea della Bassa che ancor oggi aleggia, tutto questo si deve a loro, alla loro intensa attività, apparentemente svagata, ma che ha lasciato mille segni creativi e di fantasia, raccolto adesioni, promosso relazioni, suscitato echi.
Tra i fondatori del sodalizio anche il consueto Andrea Mozzali che tanta parte ebbe nella vita di Ligabue. Collaterali, ma non per questo meno significativi, furono personaggi come Carlo Bisi (Brescello 1890-Reggio Emilia 1982) noto come autore di strisce illustrate per il Corriere dei Piccoli, al quale collaborò dal 1916, e per il quale aveva inventato personaggi come il Sor Pampurio, Marcello Nizzoli (Boretto 1887-Camogli 1969), padre del design italiano, Dino Villani (Nogara 1898-Milano 1989), padre della pubblicità italiana, il pittore Pompilio Mandelli (Villarottta di Luzzara 1914-vivente), l'astrattista Vivaldo Poli (Reggio Emilia 1914-Novellara 1982), il meno noto acquerellista Mario Bolzoni (Parma 1913-Lecco 1974), senza tener conto di scrittori come Giannetto Bongiovanni, Giannino Degani, di cui si è detto, di storici dell'arte come Giovanni Copertini (Parma 1893 -1969), di uomini di cultura come Aldo Cerlini, poi professore all'Univeristà di Genova, che frequentava la Pia Cantina quando redigeva il volume sulla Maldotti per la collana del Mazzatinti e dei musicisti. il grande libro degli ospiti - ora conservato alla Maldotti - porta le loro firme, il loro motti, le tracce delle serate che li ha visti protagonisti.
Uno dei segni più evidenti della frequentazione della Pia Cantina di San Francesco (P.C.S.F., come con evidente ironico riferimento alle sigle del Partito Nazionale Fascista, si sintetizzava) da parte di Ligabue è la scultura di Bacco, datata al 1939, soggetto estraneo alla sua cultura e alla sua sensibilità, nonostante lo straordinario particolare del gatto che azzanna un topo sotto la botte su cui sta un tondo dio del vino, coronato di pampini, che beve da una rozza coppa, ma in ben altro modo comprensibile se si pensa che si tratta della rielaborazione di una scena reale alla quale l'artista aveva assistito e che chi cavalca la botte altri non è che Aldo Mossina, l'avvocato e storico estroso, in una delle sue esibizioni per la ‘Compagnia dei Gaudenti'. Un'associazione che dobbiamo pensare, come ho scritto nel saggio più completo che le ho dedicato sul catalogo edito dal Comune di Guastalla in occasione della mostra Luci negli anni bui. Cultura e società fra le due guerre, organizzata nel 1987, muoversi tra “l'accademia e l'osteria”, nella quale gli scherzi e le beffe strapaesane si mischiavano a conversazioni serrate, improvvise partenze per vedere all'estero mostre o pittori discussi, assistere a spettacoli, letture esaminate con accanimento e gusto, insomma un tessuto vivo dal quale un pittore attento dall'occhio prensile com'era Ligabue ha ricevuto la sua linfa vitale, al punto da essere come è noto, già proposto sin dal 1941 dallo scrittore-pittore Luigi Bartolini (Cupramontana 1892 - Roma 1963), come modello contro gli estetismi dell'epoca, dopo averne scoperto le opere nello studio romano di Marino Mazzacurati.

Il San Lazzaro di Reggio Emilia
In Ligabue vi è molto del retaggio più vivo della pittura ottocentesca, come altrettanto egli deve all'espressionismo, ai Fauves e, specialmente in alcune prime opere, al colorismo dimesso ed asprigno della iniziale Scuola Romana. Retaggi che gli derivano certo dalle sue frequentazioni. Come è indubitabile, che, magari in una sorta di osmosi, sia arrivata a lui la lezione di Van Gogh. Bisogna comunque essere chiari: la ricerca di Ligabue, e quello che fino ad ora si è detto lo dimostra, era personale ed avveniva per processi né logici, né prevedibili. Egli aveva occhio d'artista e sapeva cogliere in ciò che vedeva ciò che era utile per la sua pittura, pure conservando asprezze e scabrosità, sgrammaticature, ma che gli permettesse di esprimersi pienamente al di fuori e al di là di ogni elemento biografico o di ogni autobiografia. Toni, nonostante la leggenda ancora viva su di lui e quello che egli stesso voleva far credere o credeva (quando diventava leone per dipingere, ad esempio), non confonde la pittura, l'arte con la vita. Non è quindi l'ultimo artista romantico, l'ultimo “pittore maledetto”, ma un artista moderno nel vero senso della parola. Naturalmente ci sono opere decisamente brutte, abortite, che fanno parte delle occasioni mancate, che risentono della sua alterna vicenda psichica.
Nel 1937 vi è il primo ricovero all'ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, dove entra il 14 luglio. Il 5 luglio il dottor Gioacchino Tanara di Gualtieri ne aveva chiesto il ricovero, qualificandolo per la prima volta, in un documento ufficiale, come “pittore”, anche se con la precisazione: “vive di elemosina perché non ha mai voluto dedicarsi ad alcun lavoro. A tempo perso e quando ne ha l'estro, dipinge. Non ha abitazione”. La richiesta di ricovero è motivata con il fatto che: “Nessuno lo può avvicinare, perché tutti minaccia, grida, urla, e spaventa donne e bambini. Si batte la testa, la fronte, il naso con sassi, fino a sanguinare abbondantemente”. È uno dei suoi ricorrenti atti magici: egli credeva così di rigettare gli umori malefici, attraverso la ferita alla tempia, che spesso vistosamente aperta e sanguinante si vede in molti autoritratti; dolorosamente modellando il naso, invece, cercava un profilo affilato, aquilino, dantesco, corrispondente al genio che sentiva di essere. L'aquila è l'unico uccello che può guardare il sole ed è quello che vola più in alto.
All'ingresso il suo stato viene così riassunto “condizioni psichiche piuttosto scadenti. Presenta una ferita lacero contusa al dorso del naso, prodottasi volontariamente in un momento di forte depressione. Mentalmente confuso, depresso, piagnucoloso, agitato tanto da obbligare all'uso di mezzi contentivi. È però abbastanza orientato”. Il 24 luglio all'esame metodico: “Il Laccabue che era entrato nell'Istituto in condizioni mentali fortemente depresse, dopo un paio di giorni, slegato, è andato rapidamente calmandosi. Ciò è dipeso dal fatto che, avuto a sua disposizione tutto l'occorrente, egli si è dedicato alla pittura che sempre, a quanto risulta, egli à coltivato (...). Egli parla poco, a meno che si tratti della sua arte, alla quale si applica con laboriosità ed attenzione”. Le dimissioni sono datate al 3 dicembre 1937. L'infermiere del manicomio Celso Zanni lo accompagna a Gualtieri in autobus, dopo che è stato rivestito completamente.
Il 23 marzo 1940 Ligabue viene di nuovo accompagnato all'ospedale psichiatrico di San Lazzaro per un secondo ricovero, richiesto d'urgenza lo stesso giorno.
La scena è la stessa dei ricoveri precedenti: “Il malato, recidivo, rientra in Istituto confuso, disordinato nel contegno, piuttosto eccitato”, ma dopo alcuni giorni si acquieta e, ormai esperto dell'istituzione ospedaliera, si mostra attento e pronto a rispondere a tono alle domande, anche se “chiede continuamente di essere dimesso”. È per questo collaborativo al massimo al punto di mostarsi “di umore euforico, parla volentieri, ha numerose iniziative spesso poco opportune. Tiene abbastanza la pulizia personale, si nutre e dorme regolarmente”. Il 20 aprile 1940 viene trasferito al reparto Esquirol, all'interno dello stesso Istituto Psichiatrico. Naturalmente anche in questo periodo di degenza ha modo di dipingere.
Probabilmente è in questo momento che Luigi Bartolini, incuriosito come al solito dalle informazioni avute da Marino Mazzacurati, richiede a Toni tramite il direttore Bertolani, come si è già detto, un autoritratto che gli verrà inviato dal Bertolani solo il 12 luglio 1941 “perché i colori non si decidevano ad essiccare”.

Il ritratto di se medesimo
L'autoritratto inviato a Bartolini dovrebbe essere quello edito da Camurani nel 1980 e sarebbe il primo di una lunga serie. Ligabue vi appare giovanile con una sola sottile linea di baffi, labbra carnose, carnagione chiara che contrasta con i capelli, che stanno diradandosi sulla fronte ed i baffi neri. L'occhio è attento a guardarsi e a riprodursi ed ha la stessa calma contemplazione della scena ordinata, pulita. È irrigidito nella camicia bianca con cravatta, una giacca blu chiaro. Lo sfondo è una parete con motivi geometrici giallo su rosso, sulla quale è appeso un suo quadro con uccelli od animali sotto le palme. Tutta questa quiete rimanda alle cure ed alle sollecitazioni che gli venivano fornite in manicomio. Il realismo attento del volto contrasta con la pennellata impressionistica dello sfondo, con la soluzione, risolta solo con l'inserimento della cromia del pavimento, della prospettiva che manca. La parete ricorda le molte soluzioni fauves di questi anni, mediate da Mazzacurati. Questo autoritratto trova il suo corrispettivo, anche cronologico, in un altro, presentato a Gualtieri nel 1996 e a Zurigo nel 1999. Anche in questo la tensione del ritrattato sembra tutta concentrata nel minuto ed attento osservarsi, quasi venisse facendo un catalogo di sé con gli occhi.
Forse prima aveva fatto alcuni ritratti, dei quali comunque l'unico rimasto sembra essere il Ritratto di Elba (cat. 89), sicuramente del 1935, una bambina che la leggenda vuole che sia morta cadendo in un paiolo di acqua calda. In realtà si tratta di Alda Bianchi, figlia di Idonio (Castelnovo di Sotto, Reggio Emilia 24 aprile 1899-Gualtieri, 10 giugno 1951) e di Nella Cavazzoni (Genova 27 aprile 1902-Gualtieri 12 novembre 1966), l'uno mezzadro e l'altra casalinga che abitavano nella Palazzina, la villa Malaspina nella quale aveva lo studio Mazzacurati. La piccola Alda era nata a Castelnovo di Sotto l'11 maggio 1929 e muore a Gualtieri il 21 gennaio 1935 per difterite e nefrite acuta. La madre era incinta e partorirà il 5 maggio dello stesso anno un maschio che chiamerà Aldo, a memoria della piccola della quale, si racconta chiese un ritratto a Ligabue, che fece uno dei suoi più intensi capolavori giovanili. Altri ritratti maschili e femminili Toni realizza dopo la seconda guerra mondiale.
Una ininterrotta sequenza di autoritratti appare a chiunque pensi a Ligabue. Un volto che affiora dai molti quadri che ce lo restituiscono, al limite dell'ossessione, in un album di giorni diseguali, che egli ha ripetuto come una icona per la seconda parte della sua vita, ed è diventato nell'immaginario più vivo ed intenso di quello che appare stranamente placato in molte fotografie che ci restano di lui. Ma l'iconografia degli autoritratti è di volta in volta intensa, eccitata, goffa, grandiosa, terribile o grottesca, struggente nella confessione delle proprie interiori paure, infantile nell'impaccio, aggressiva nell'eccitazione di un'inquietudine segreta ed instabile, sfrontata con sguardi di sfida, in una galleria di situazione e di emozioni che trascorre attraverso tutti i sentimenti dell'esistenza. Un diario intimo che l'artista è venuto annotando con ostinazione maniacale: registrazione implacabile di un momento esistenziale, ma anche trepidazione fatta pittura, perché Ligabue non si limita a sottolineare i sintomi, a indagare i segni delle sue private passioni, ma li trasforma in linguaggio, in colore e forma che aderiscono al sentire, si impastano con esso. Nessuna neutralità è possibile, è accettabile. Egli coinvolge prima se stesso per renderne complice lo spettatore che lo guarda mentre si guarda. Ed i due sguardi diventano lo stesso vedere, lo stesso grumo di emozione mescolata con i colori. Ogni autoritratto è calato nel giorno e nell'ora in cui è stato realizzato, sia esso pittura, disegno o incisione - fino ad ora solo una testa è nota in scultura -, al punto che il volto subisce così forti distorsioni, così radicali deformazioni, che talora pare di trovarci quasi di fronte ad interventi di autolesioni, come se le ferite che si produceva alla testa ed al naso, venissero a contaminare l'intera figura, il sangue ad impastarsi con i colori, come se l'automutilazione sacrificale che compiva su di sé potesse continuare ed accrescersi nella pittura, nel segno della matita o del bulino. In queste opere Ligabue fa di se stesso il protagonista delle sue storie. C'è un gusto per il travestimento, per il mettersi in maschera, spesso giocoso e gioioso, come nei molti autoritratti con cappello. Il cappello per lui è indice di dignità, di autostima, uno status symbol, per cui ne esalta la funzione simbolica il carattere connotativo. Basta guardare agli autoritratti con berretto da motociclista, o a quello con cappello di paglia da agrario, o a quello con il copricapo da fantino, quadri in cui dispiega alla propria fantasia tutte le vite possibili, di cui riesce a rivestirsi. Emblematico l'Autoritratto con mosca (cat. 862), dove l'insetto è posato al centro della fronte di un volto quieto e disteso. Insetti, in molti altri casi, gli volano vicino, come mosconi, libellule e farfalle, ma quest'opera è particolare, pacificata, serena.
Il capolavoro assoluto è il grande Autoritratto con cane (cat. 242) Sarebbero venuti altri autoritratti in un album teso a documentare una vita: uno solo datato al 1957, tutti gli altri senza data, ma con attenzione è possibili ricostruire il trascorrere del tempo sul viso dell'artista, i segni lievi di un invecchiare che egli registrava con fredda oggettività. Alcuni sono rimasti interrotti come lo splendido Napoleone a cavallo (cat. 847) dai gesti stanchi delle braccia senza mani, ma altri fastosi e festosi come il grande Autoritratto (cat. 850) in cui sta dipingendo un gallo in mezzo ad una giungla di fantastiche forme vegetali, quasi screziate orchidee, in un tripudio di vegetazione e di voli di libellule, tale da far arrestare il cane che d'improvviso vi si è accostato. In molti nell'azzurro immoto del cielo è il volo di corvi, di falchi alti levati con piccoli sbaffi raggrumati. Fino all'ultimo, quando lascia incompiuto un estremo autoritratto in una specie di nebbia blu con pioppi di un verde tenero che sembrano candele appuntate verso l'alto (cat. 867).
Molto recentemente questi autoritratti sono stati esaminati da Stefano Ferrari dell'Università di Bologna, autore di un importante studio sul tema generale: Lo specchio dell'Io. Autoritratto e psicologia edito da Laterza 2002, nel quale tra tanti famosi artisti c'è anche Ligabue. Pochi mesi fa l'analisi del docente si è fatta più incisa fermandosi su Ligabue, sulla sua immagine interna e sul modo con il quale cercava, attraverso la scrittura e la riscrittura del proprio volto, di farla coincidere con quella che vedeva nello specchio, in una coazione eccitata, che corrispondeva anche ad un diario personale. Il senso di solitudine, di tristezza e di sconfitta, domina queste rappresentazioni di sé che sono diverse ed insieme tutte uguali.
La guerra ed il dopoguerra
Ligabue esce dall'ospedale psichiatrico perché Andrea Mozzali firma per lui ed accetta di farsene carico. Era il 16 maggio 1941 e, prima di uscire, ancora una volta gli era stato fornito un vestito.
Durante la guerra Ligabue riprese a vagabondare, vivendo spesso di espedienti. Con l'occupazione fece l'interprete alle truppe tedesche, verso le quali non mostrava nessuna simpatia: ricordava troppo bene il padrino bavarese ubriaco e la violenza con la quale, in cucina, lo percuoteva con la cinghia dei pantaloni.
Alla fine di gennaio o ai primi di febbraio 1945 accadde l'episodio che poteva costargli la vita e che in parte è ancora avvolto dal mistero, nonostante le molte illazioni, spesso fantasiose, proposte in questi anni. Egli stesso raccontò, rientrando in manicomio “che una sera della scorsa settimana ha accompagnato un tedesco all'osteria ed ha bevuto con lui nove bottiglie di vino. Quando furono entrambi ubriachi il tedesco ha dato dei pugni al paziente ed il paziente ha a sua volta percosso il tedesco sulla testa con una bottiglia. Il paziente teme per questo fatto che gli venga fatto del male ed è molto ansioso”. È l'unico episodio di aggressività verso altri e Ligabue sostenne sempre che si era trattato di autodifesa. E possiamo credergli, anche se non svelò mai i motivi della lite. Egli infatti era spesso violento a parole, ma, incalzato, scaricava la propria ira impotente su se stesso.
Entra al San Lazzaro il 14 febbraio 1945. La diagnosi è la solita di “psicosi maniaco-depressiva”. E come sempre desiderava uscire al più presto. Il 2 marzo fu trasferito al reparto Lombroso, un padiglione degli anni settanta dell'Ottocento, esemplare della tecnologia manicomiale positivistica, posto quasi al centro del grande complesso ospedaliero a ridosso della ferrovia Milano - Bologna. Qui poteva essere libero di muoversi, ricevere visite e dipingere. Ne uscì solo il 6 novembre 1948, dopo quasi tre anni.
Senz'altro il ricovero al San Lazzaro ha contribuito a dargli una clientela diversa da quella di Gualtieri, incominciando dai medici, dai ricchi borghesi cittadini, da molte persone che incominciarono ad interessarsi sia del personaggio che della sua opera. Non a caso, molti anni dopo Romolo Valli, che lo era andato a trovare varie volte al manicomio, acquistando anche delle opere, rievocò questi incontri nella propria puntata della serie televisiva RAI “Io e...”. Nel 1946 lo intervistò Ferrante Azzali che fece un articolo importante su di lui per L'Europeo, nel quale Ligabue confessava la propria difficoltà a rendere la lontanità, che il giornalista interpreta come prospettiva, mentre essa non aveva solo valenza spaziale, ma riguardava il processo stesso di creazione eidetica cui ricorreva Ligabue per far emergere anche dal passato un'immagine, un ricordo. Il termine si collega a quel processo di costruzione in sé dell'immagine molto prima che essa possa prendere corpo sulla tela.
Nel 1945 Zavattini, attraverso Arnaldo Bartoli incomincia ad interessarsi a lui. Un ricco carteggio di Ligabue con Bartoli documenta anche la produzione di questi anni, mentre, nello stesso 1945 si pensa di realizzargli una personale, grazie all'interessamento di un signore di Montecchio, che possiamo supporre sia l'artista Armando Giuffredi, visto la corrispondenza di lui con Ligabue ed il fatto che acquistò sue opere, visitandolo al San Lazzaro sin dal 1946. Certamente è durante il soggiorno reggiano, in manicomio, che la fama del pittore si diffonde davvero oltre la cerchia paesana e tocca, attraverso medici ed infermieri che se ne fanno collezionisti, mediatori, sostenitori un pubblico veramente interessato alle sue opere e che le poteva apprezzare, costituito da professionisti, industriali, commercianti, insomma da quella ricca borghesia che poteva permettersi le opere di un pittore e valutarne la qualità.
Il 3 dicembre 1948 Ligabue trova ospitalità al solito ricovero Carri di Gualtieri. Lentamente la sua fama cresce. Gli articoli si susseguono, partecipa a mostre, vince premi, collezionisti si interessano alle sue opere. Inizia a collezionare le rosse moto con le quali scorrazza nella pianura, alle quali si affiancheranno alcune vecchie automobili, che farà guidare da Vandino Daolio il quale, con il nome di Vandick cercherà la sua fortuna come pittore naïf.
Nell'estate del 1955 Ligabue si fermava per un certo tempo a Gonzaga, ospitato alla Gazolda da Leo Bruno Brighenti, che lo convinceva a dipingere ed a lasciare dei quadri per una mostra che faceva propria Parmiggiani, segretario della pro loco, che coinvolgeva il sindaco Odino Braglia e Lelio Stentarelli segretario della Fiera a organizzare al pittore una personale, la prima in assoluto, in occasione della Fiera Millenaria dall'8 settembre. Sede della mostra il pianterreno di una casetta affittata per dieci giorni, dentro lo spazio fieristico. Catalogo di quattro facciate con testo di Cesare Parmiggiani, stampato da Silvano Pasqualini, tipografo in Gonzaga. In copertina un autoritratto del pittore ed in mostra venti opere. Modesto il successo, se non nullo. Poche righe su alcuni giornali. Tuttavia Ligabue diventa sempre più famoso nell'area. Ben diverso il successo che ottennne con il premio Suzzara dell'anno successivo.
Nel 1956 Cesare Zavattini fa parte della giuria del Premio Suzzara, presieduta da Francesco Flora. L'esposizione si tenne dal 16 al 30 settembre. Si trattava della nona edizione e con lo scrittore luzzarese erano Luciano Budigna, Renzo Biason, Luigi Bauselli, Vincenzo Costantini, Mario Lepore, Gastone Daré, Raffaellino De Grada, Stefano Cairola, Mario De Micheli, Ugo Nebbia, Orio Vergani, Tebe Mignoni e Dino Villani, che con Za aveva fondato il premio stesso all'insegna del tema “lavoro e lavoratori nell'arte”.
C'è una foto famosa che mostra Ligabue impettito, con in mano il cappello e probabilmente la pergamena del premio, mentre spiega la propria opera ad un attento Francesco Flora.
Probabilmente in seguito al premio Ligabue detta una lettera a Cesare Zavattini, datata Guastalla 27 dicembre 1956, il cui originale manoscritto non senza alcuni errori è ora conservata presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia: “Sig. Comm. Zavattini, Ho appreso sulla Domenica del Corriere, che Lei avrebbe intenzione di impegnarmi per un film. Quando crede sono a sua disposizione e potrà trovarmi o scrivermi all'ospizio di Gualtieri che in questi giorni ci sono: oppure qualche volta sono a Gonzaga presso il Sig. Brighenti Bruno pure di Gonzaga che ha anche dei Bellissimi miei quadri. Auguri di Buon anno Antonio Ligabue”.
Il 18 gennaio 1957, da Roma, Zavattini rispondeva al pittore con una lettera dattiloscritta, che come al solito egli dettava ad una segretaria: “Caro Ligabue, la ringrazio degli auguri che le ricambio di tutto cuore. Per quanto riguarda la notizia del film, devo dirle che i giornalisti sono stati secondo il solito molto fantasiosi. Buon lavoro e arrivederci con la primavera”. Una specie di intuizione. Comunque Zavattini venne legando sempre più il proprio nome a quello del pittore di Gualtieri, come è noto.
Dal 4 al 16 febbraio 1961 la personale alla galleria “La Barcaccia” in piazza di Spagna, presentata da Giancarlo Vigorelli ha uno straordinario risultato.
Esce dal Carri il 1 aprile 1961. Poco dopo ha un incidente motociclistico. Ironia della sorte, dopo aver guidato per decenni senza patente, che il 15 febbraio di quell'anno gli era stata concessa, dopo aver calmato vigili e poliziotti che lo fermavano con quadri. L'8 giugno 1961 viene infatti ricoverato nell'ospedale di S. Maria Nuova di Reggio Emilia per aver ‘riportato trauma al polso sinistro e al ginocchio destro”. Viene dimesso il 6 luglio. Trasferisce il proprio domicilio a Guastalla, dove gli viene dedicata nel 1962 una personale. Nella sera del 18 novembre, mentre questa personale è in corso, viene colpito da una “emiparesi per vasculopatia cerebrale” con “disturbi alla parola senza perdita di coscienza”. Portato all'ospedale di Guastalla il giorno seguente fu ricoverato alla Clinica Villa Marchi di Reggio Emilia, nel reparto neurologico, per la “comparsa di uno stato di agitazione psicomotoria”. È lui stesso a chiedere di ritornare a Gualtieri. Viene ricoverato al solito Carri. Qui viene battezzato il 18 giugno 1963 - ma tutti i documenti avevano sempre dichiarato la sua appartenenza alla Chiesa cattolica - e cresimato il 24 luglio 1963 dal vescovo di Guastalla. Così Zavattini lo descrive in una lettera di quel periodo: “... Lo sa che Ligabue è a letto, nell'ospedale di Gualtieri, con un braccio, proprio quello destro, e una gamba paralizzati? Sono andato a trovarlo un paio di volte ed è una gran pena; pazzo, solo, finito, con quei lampi nei quali vede la sua condizione e piange e bestemmia spaventosamente (non nomina mai la pittura) e nel cortile dell'ospedale, sotto la finestra della camera dove lui sta, spiccano due grandi automobili sue, coperte con le funeree fodere di plastica”. Morì il 27 maggio 1965, alle ore 20, mentre a Reggio Emilia una grande antologica ne consacrava la fama ed usciva, come catalogo, la prima monografia su di lui.

Giudizi sulla sua pittura
Per Paolo Fossati “non siamo lontani, in termini di stretta pittura, dal cosiddetto espressionismo italiano con una ripresa (o continuità) fortissima di interesse per una tradizione secessionista e ‘decorativa' ” (1985). Di espressionismo parla anche Edith Schloss, recensendo sull'International Herald Tribune alla fine di agosto 1985 la mostra, curata da Augusto Agosta Tota, che avevo presentato a Lerici insieme a Franco Solmi. Le Figaro intitolò il suo articolo a nove colonne, nel 1982, in occasione della personale che ho presentato a Parigi, sempre curata da Augusto Agosta Tota, Ligabue ou la différence, intendendo la diversità che lo rendeva particolare anche rispetto ad un artista francese come Van Gogh, a cui spesso lo si apparenta. Così lo stesso Sgarbi, nel catalogo della mostra di Palazzo Bricherasio parla di “un linguaggio figurativo a spiccato carattere espressionistico”.
Franz Billeter, con il quale ho presentato la mostra, a cura di Augusto Agosta Tota, che inaugurava le manifestazioni del centenario della nascita del pittore al Kunsthaus di Zurigo nel 1999, ha scritto: “L'eccezionalità di Ligabue nel panorama figurativo italiano, la sua capacità visionaria, la sapienza cromatica, l'energia grafica e plastica di questo autore, sono la prova di un grande talento, che non si deve ricercare nell'eccentricità dell'artista, anzi al contrario, esso è riuscito a sprigionarsi nonostante le difficoltà psicologiche, gli squilibri ed i mille ostacoli di una vita di emarginazione”.
In realtà, come ho dimostrato nella mostra organizzata da Augusto Agosta Tota a Gualtieri nel 1999 e portata a Roma negli spazi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, messi a confronto i ritratti e gli autoritratti di Toni con quelli dei suoi contemporanei si vede che egli è figlio degli anni Venti e con coerenza, tutta personale, ha avvertito la problematica di quella stagione artistica, ne ha colto l'impegno nella e per la pittura, ne ha condiviso il gusto per una distillazione di forme e di colori, che non poteva che essere un'impresa individuale - non da isolato - nell'urgenza di una propria visione del mondo, nel momento in cui c'era una pretesa di ritorno all'ordine nell'arte contemporanea, nel momento in cui le avanguardie storiche erano profondamente in crisi e sembrano aver esaurito il loro slancio rinnovatore. Scorrete una storia dell'arte italiana del secolo che si è appena chiuso e vedrete che Ligabue è e fu tutto tranne che isolato. Vedrete quanto grande sia.
 
Il mito
“Ella saprà che la mia opera è già stata giudicata da competenti, originale e artistica e vari giornali di me hanno molto favorevolmente parlato (...). Non è un peccato che tali energie vengano consumate in questo luogo ove il basso morale e la mancanza assoluta di spazio e di mezzi mi tarpano ogni energia? Io che potrei produrre opere degne di figurare nelle Gallerie?”. Queste le domande accorate che Antonio Ligabue, con alto senso delle proprie capacità e potenzialità artistiche, rivolge al sindaco di Gualtieri in una lettera non datata, ma del 1948, scrivendo dall'Ospedale Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia dove era stato ricoverato per la terza volta.
E alla fine ha vinto lui. Ha avuto ragione il diseredato, l'emarginato, l'artista diverso. Forse al di là di quanto sperasse, di quanto potesse prevedere, perché oggi Ligabue è non solo uno dei più importanti artisti italiani del XX secolo, noto a livello internazionale, ma come pochi altri è diventato soggetto di creazioni artistiche, pretesto per raccontare quel tempo, reinventarlo, ritrovarlo con linguaggi altri e diversi. È stato danza con Monica Casadei e il gruppo Artemis, che hanno proposto prima a Rovereto e poi a Bologna in occasione del festival Danzaduemila un intenso Antonio Ligabue, che dopo ha girato diverse città. Solo tre anni prima l'ultimo omaggio gli era tributato da un romanzo: Beast in the Mirror. The Life of Outsider Artist Antonio Ligabue, scritto da Karin Kavelin Jones ed edito dalla Capra Press di Santa Barbara, California. Con questa biografia romanzata si riparte dal personaggio, dal genio isolato, ai margini della società e della ragione, riproponendo la figura ormai leggendaria di un Michelangelo della Bassa errante e stralunato. Lo stesso dio rustico che su moto rosse, mistico blasfemo, troviamo sullo sfondo di diversi romanzi di Alberto Bevilacqua, fatto vivere “in un tempo mitologico e dissociato”. Così nelle realistiche invenzioni di Gustavo Marchesi, critico e storico musicale ma anche raffinato scrittore, che quando scrive di Ligabue non riesce a non reiventarlo con il suo Po. Pittore dell'indicibile per Alberto Moravia che lo vede immerso “nella solitudine dell'inconscio”, mentre Davide Lajolo, in un dialogo immaginario con Zavattini, parla “della forza del suo fiato che pareva interminabile”, in un urlo senza fine con rimandi di infiniti echi. Padano esule “dalla brulicante e sanguigna Europa in cui egli si formò e nei cui crocicchi polverosi o fangosi potevano soggiornare carrozzoni con dentro rinchiuse tigri bellissime, di fuoco, per dirla con Blake”, lo descriveva Attilio Bertolucci. Tra memoria ed invenzione il Ligabue di Nerone del 1980, che come sintetizza il titolo è in realtà Forestiero sul Po. Alla ricerca di un personaggio misterioso e sfuggente, avvolto e mimetizzato non solo nella memoria di chi l'aveva conosciuto, ma anche nelle luci a picco, nelle nebbie e negli umori della pianura, è il protagonista di una romanzo-diario-avventura di Arnaldo Bagnasco, edito da Rizzoli nel 1979, che si intitola proprio per questo allusivamente Vita di Ligabue, biografia dell'immaginario collettivo. Bagnasco è colui che con Cesare Zavattini ha scritto lo sceneggiato televisivo sul pittore. Ligabue, uomo arcaico tra noi, dunque già nella sua esistenza partecipava di una mitologia che era proiezione di quella che ciascuno aveva dentro. Innumerevoli gli omaggi pittorici che ha provocato, ad incominciare da quello drammatico che Marino Renato Mazzacurati realizzò allorché ne apprese la morte, usando i giornali di quel giorno.
Ligabue è stato inevitabilmente anche soggetto della poesia, ad incominciare da quella altissima di Toni, il poemetto di Cesare Zavattini scritto per Franco Maria Ricci nel 1968 e più volte pubblicato da editori diversi, letto, declamato, recitato in pubblico (memorabile una serata con Flavio Bucci). “SEI/ semplicemente/ mirabilioso in un mondo/ che ormai si smeraviglia/ anche di te” scriveva una rivista d'avanguardia come “Carte Segrete”, nel 1975, in un omaggio poetico A Toni Laccabue che ha gli accenti della scrittura funambolica di Gianni Toti. Più umile la musa di Serafino Prati e di Guido Sereni, che canta di un Ligabue “comparso da secoli, pare,/ da un banco di sabbia/ Snottava accanto alla civetta,/ dotata di piume quasi impalpabili/ a rispetto del silenzio della notte,/ sgranando gli occhi all'oscurità/ senza impaurire al tuono o scroscio”.
In teatro è stato portato da Angelo Dallagiacoma, con un Antonio Ligabue, edito a Bologna da Cappelli nel 1980, che vinse il premio Ater-Regione Emilia Romagna, e che l'autore sta ancora riscrivendo. Ma ha costituito anche uno spettacolo per bambini delizioso realizzato dal Teatro delle Briciole - Teatro al Parco di Parma, su testo di Marina Allegri con regia di Maurizio Bercini, dal significativo titolo Toni. L'avventura umana di Antonio Ligabue.
Con il cinema Ligabue ebbe una dimestichezza personale, sia perché molto del suo mondo fantastico deriva proprio dalla passione di spettatore che, nelle arene estive, come documenta un filmato, commentava in sella alla sua moto gli attacchi della belve e le scene con animali dando gas, tra gli improperi di un pubblico comunque tollerante. Eccolo recitare nel 1960 in Il paese del sole a picco di Pier Paolo Ruggerini, lungo bianco e nero tra il documentario e la narrazione filmica. Raffaele Andreassi gli dedica ben tre documentari: Lo specchio, la tigre e la pianura del 1960, vincitore dell'orso d'argento al Festival di Berlino dell'anno successivo; Nebbia del 1961, presentato al Festival di Cannes, dove oltre a Ligabue troviamo Bruno Rovesti e Andrea Mozzali, e Antonio Ligabue pittore del 1962, tutti e tre a colori. In essi Ligabue recita se stesso, con straordinaria disponibilità a darsi, inventandosi e confessandosi nello stesso tempo.
Raffaele Andreassi ha così raccontato l'esperienza in una lettera a Zavattini del 30 marzo 1985: “qualche giorno fa ho trovato in un negozietto di libri usati una copia del tuo mirabile ‘Ligabue' (n.d.a. Edizioni Tascabili Bompiani) e mi ha sorpreso la conclusione del tuo “post-scriptum” là dove scrivi: “Mi ha impressionato un anno fa una scena col bacio nel film di Andreassi su Ligabue, il pittore stesso è in scena insieme alla donna idolatrata (ho saputo per caso in questi giorni che è morta nel settanta); davvero piacente, baciatevi ‘ciak', aveva gridato Andreassi: la donna esitava anche se ci stava per soggezione del cinema...”. Quel che mi preme dirti è questo: il film “Antonio Ligabue, pittore” è di sicuro un buon esempio di cinema verità, ed è stato girato quando l'artista non era ancora stato travolto dalle invenzione e dalle favole non solo popolari. I miei collaboratori di allora possono raccontare come si svolgevano le riprese nell'osteria di Pomponesco dove Ligabue si incontrò con la donna (non era la Cesarina) che aveva accettato di scambiare quattro chiacchiere con lui. Con il povero Toni, anche nei miei documentari precedenti, non era mai stato possibile rispettare copioni o piani di lavorazione: si andava a braccio, e il ‘ciak' si batteva con le mani alla fine della ripresa, e non sempre era possibile batterlo, così come era impossibile ripetere la scena. Ligabue entrava ed usciva di ‘campo' a suo piacimento: si grattava, si distraeva, si alzava, si sedeva, rideva: qualche volta imprecava contro chi tossiva. Per poterlo riprendere, da una certa distanza, avevamo sistemato delle luci fisse riflesse sul soffitto, il microfono era stato piazzato penzoloni al centro della stanza, e il carrello “Mancini”, a ruote libere, poteva, al minimo gesto o ammiccamento del sottoscritto, andare avanti o indietro, di lato, o parallelo al tavolo dove sedeva l'artista. Così fu possibile catturare immagini e suoni. Ma tu, per diretta esperienza, queste cose le sai benissimo. Posso assicurati che il silenzio intorno a Ligabue era assoluto; un silenzio fatto anche di tanta commozione. Quell'uomo ci dava la misura della sua solitudine, della sua sofferenza. Fu proprio Antonio che volle fare il disegno alla donna che si era seduta accanto a lui; ma ne avrebbe disegnati centomila pur di poterla trattenere accanto a sé. Il seguito di quell'incontro si sviluppò senza interventi da parte mia; ma è certo che il pittore ripeteva parole e gesti che aveva usato con la Cesarina. Preso da una emozione indicibile, ben difficilmente avrei potuto gridare le fatidiche parole dei cinematografari: baciateci, ‘ciak'! ”.
Flavio Bucci ha dato a Ligabue invece il volto, il corpo e l'anima, in un certo senso dannandosi per sempre, con un capolavoro come lo sceneggiato che la Rai ha prodotto nel 1977, da allora trasmesso e ritrasmesso quasi senza sosta. Nel 1978 lo sceneggiato con regia di Salvatore Nocita ha vinto il Gran Premio delle Americhe al Festival di Montreal e fu venduto a 94 paesi. Non meno successo ha avuto la versione cinematografica curata dallo stesso Salvatore Nocita.
Su Ligabue è stato creato un CD interattivo dalla Compel con interviste, testimonianze, opere. Sue opere ovviamente sono state usate per copertine di libri come l'edizione enaudiana di Kipling, ma anche, come è avvenuto per La Traversata della Siberia (cat. 239), sono state adoperate come base per puzzle; altre utilizzate per etichette di vini bianchi e spumeggianti lambruschi. Medaglie, monete d'oro, marenghi, su di lui sono state coniate dalla Zecca e dal Poligrafico dello Stato. Una lunga serie di annulli filatelici emessi dalle Poste segnano le moltissime mostre antologiche che in Italia, dal 1975 in poi, hanno ricordato e fatto conoscere l'artista, spesso con chiudilettera editi appositamente. Allorché le cento lire metalliche erano introvabili, nel 1977, furono emessi da istituti bancari miniassegni con il suo volto, oggi oggetto di collezione. Incisioni furono riprodotte in lastre in oro e argento Ha dato il nome ad un ristorante e a Gualtieri due piatti vengono proposti all'assaggio del turista, con contorno di aneddoti: “zuppa alla Toni” e “stracotto con polenta fasolata”. Questi sono i segni del dilagare di un mito. Ma ora Ligabue è di più: è un personaggio che rappresenta il mondo padano stralunato e fantastico, che ne ha fatto un personaggio picaresco, ariostesco, in combutta con uno strampalato Pietro Ghizzardi. Vagano durante la seconda guerra mondiale in un mondo sconclusionato e allucinato senza perdere la loro umanità: lo scrittore Roberto Barbolini, in Ligabue Fandango. Barbolini non è la prima volta che si richiama al pittore, almeno per le copertine dei suoi libri, ad incominciare da La strada fantasma, (Garzanti, 1991). Ma altri editori ed autori hanno usato opere del Ligabue. Ricordo Vallecchi nel 1976 per un autore malmostoso come Ardengo Soffici, presentato da Carlo Ludovico Ragghianti, con Scoperte e massacri. Per dire di alcuni, senza pretesa di completezza.

Antonio Ligabue. L'arte difficile di un pittore senza regola
Milano - Palazzo Reale
P.zza Duomo, 12 - Milano
Dal 20 giugno al 26 ottobre 2008
A cura di: Augusto Agosta Tota