Arte

La biografia di Keith Haring
Keith Haring
Bimbo Radiante. Keith Haring di Luca Beatrice

Bimbo Radiante. Keith Haring

Testo in catalogo di Luca Beatrice

Keith Haring - Untitled (Burnign Skull), 1987 - Smalto su alluminio, 112x18,5x23 cm

Keith Haring è l'archetipo dell'artista del XXI secolo. Un secolo che sarebbe stato globale, che avrebbe fatto crollare i confini nazionali e geografici, un secolo senza tempo in cui gli abitanti del mondo avrebbero condiviso una quantità immensa di informazioni. Un secolo globale  e senza tempo perché avrebbe mandato segnali riconoscibili dai contemporanei ma anche  da chi vide l'arte sui muri nel Paleolitico. (…) Keith Haring poteva anche far discutere, ma non c'era nessuno a cui non piacesse. Sarà anche stato scioccante, sovversivo, offensivo ma tutti lo amavano. Tutti sapevano che era lui che dipingeva sui muri.
Timothy Leary

“Se non fossero stati artisti, avrebbero fondato dei gruppi rock”. E' il critico Jerry Saltz ad affermarlo parlando dell'arte americana degli anni '80, e in particolare di Keith Haring, Kenny Scharf, Donald Baechler e Jean-Michel Basquiat, ovvero di quei ragazzi che si misero in evidenza nella epocale mostra newyorkese “The Times Square Show”, di fatto l'apertura di un periodo straordinario, ahimè irripetibile in cui tutte le cose sembrarono cambiare in un istante, dopo il grigiore dei decenni precedenti.
Irripetibili anche perché erano gli anni dei nostri vent'anni, e quelli non tornano davvero più.

Keith Haring - Mask, 1988 - Acrilico e inchiostro su cartone, 61x37x10 cm

Il 12 febbraio, Keith Haring, ormai provato dalla malattia, sdraiato sul letto in stato di semi-incoscienza, chiede carta e penna e scarabocchia a fatica il suo “Radiant Baby”, che per tutti è stato simbolo di vita, vitalismo, vitalità. Keith muore il 16 febbraio 1990, quando gli anni '80 erano davvero finiti.
Non si sa bene quando siano iniziati, ma finirono certamente il 31 dicembre 1989, ci ricorda ancora Saltz: “erano stati così pieni d'energia, frenetici e posseduti, quasi rabbiosi nella loro intensificazione, tanto che non poterono più sostenere quell'andatura e dovettero fermarsi… Da un lato, gli anni '80 andarono a sbattere contro un muro e si fermarono; dall'altro, esaurirono ogni goccia della benzina che avevano nel serbatoio. Il critico Alan Schwartzman ritiene che la fine del decennio si debba situare un giorno più tardi, il 1 gennaio 1990, giorno in cui il necrologio di Scott Burton apparve sul New York Times. All'inizio del decennio, Burton si era annunciato come un grande artista; alla fine morì di Aids. E l'Aids non esisteva al principio degli anni '80 mentre infuriava alla fine”.

Joan Haring, la mamma di Keith, racconta che suo figlio, prima ancora di compiere un anno, dopo cena si sedeva in braccio al padre e disegnava scarabocchi con i pastelli a cera. “Sei sempre stato buono a non disegnare sui muri”, lo lodava la mamma. Un giorno, aiutando suo padre a imbiancare la casa, intinse le mani nella vernice e impronta dopo impronta, ricoprì i muri della cantina. Ecco la sua scoperta del graffitismo.
Come tutti i nati in una piccola provincia, 4 maggio 1958 Kutztown, Pennsylvania, sentì fin da ragazzo la necessità di appartenere a un gruppo per poter evadere in qualche maniera alle costrizioni di un piccolo paese cattolico e benpensante.
Cominciò con i boy-scout, poi il baseball, quindi sui tredici anni incontrò il movimento Jesus Save: lesse la Bibbia, l'Apocalisse e “Addio Terra, ultimo pianeta” di Hal Lindsey. Fu allora che divenne un freak, un Gesù freak: si convinse di poter rinascere e tentava di convincere anche gli altri. Poi si avvicinò alle droghe leggere, verso i quindici anni.

Il suo modo di essere ribelle non era sguaiato, ma piuttosto ironico e canzonatore. Non si sarebbe mai firmato SAMO, Same Old Shit, come Basquiat, ma preferiva colpire ciò che non gli piaceva della società in maniera non troppo chiassosa. Anche nella sua prima mostra, al Pittsburgh Center of Arts nel 1976, dove tra i disegni comparvero sesso e bestemmie, i genitori cattolici e conservatori non poterono accusarlo o sentirsi feriti, ma piuttosto complimentarsi per il suo lavoro ed essere orgogliosi del successo del figlio.

 “Se avessi passato le mie giornate a stampare caratteri, avrei finito con il perdere interesse nel mio vero lavoro. Beh, decisi che se dovevo essere un artista, lo sarei stato nel senso vero della parola e lasciai la scuola”.

Nel 1976 arriva  a  San Francisco con Susan, la sua ragazza, in autostop, come un vero hippie. Si porta dietro “The Art Spirit” di Robert Henry, scritto nel 1923 dal pittore e professore americano. Quel libro esprimeva amore per l'arte e per la vita, gli parlava come avrebbe fatto un amico.
In California scopre l'universo gay e omosessuale: in quegli anni a San Francisco stava nascendo la più grande comunità gay americana che viveva al Castro District, come sa chi ha visto “Milk”, l'ultimo film di Gus Van Sant con Sean Penn (premio Oscar).
Poi, nel 1978, finalmente New York. Scopre i graffiti in strada e in metropolitana. Lo intrigano soprattutto quelle calligrafie che rimandano all'antica arte cinese e giapponese e ai pittori che aveva studiato a scuola: Dubuffet, Tobey, Alechinsky, Pollock, Klee, Ossorio. I suoi preferiti.
Nel frattempo l'East Village ha visto il tramonto della cultura hippie e la prepotente affermazione della nuova scena punk-rock che si stava muovendo dall'Inghilterra verso New York. Tra i giovani era sentita soprattutto la necessità di mettere in piedi una band: chiunque si incontrava e con i pretesti più assurdi, decideva di fondare un gruppo, soprattutto se non sapeva suonare. Oppure decideva di fare l'artista, senza saper dipingere.
Stiamo parlando della New Wave, dei Talking Heads, degli artistoidi delle accademie nel Rhode Island, del CBGB'S sulla Bowery dove si esibirono i Television, Blondie, Ramones, dove era di casa Patti Smith.

Keith Haring entra in contatto con le realtà di colore, scopre un background completamente diverso dal suo e ne rimane affascinato: è l'universo funky, anima punk su musica nera. Si taglia i capelli cortissimi, indossa jeans due taglie più grandi, in radio dove fa il dj suona soprattutto black music e soul.
Usa come studio i locali del Club 57, nei sotterranei di una chiesa frequentata dalla comunità polacca. Una “grande e orgiastica famiglia”, dove tutto era possibile, e tutto si poteva fare e sperimentare, comprese le droghe e ogni tipo di promiscuità: era lo spirito del tempo, il fantasma dell'Aids ancora non esisteva.

Inverno 1980: inizia a disegnare graffiti per strada. “La mia tag era un animale che finì con l'assomigliare sempre di più a un cane, e poi inizio a disegnare un omino che camminava a quattro zampe e più lo disegnavo, più diventava The Baby, il bambino. Disegnai per strada varie combinazioni del cane e del bambino (...) Utilizzavo queste immagini tenendo sempre a mente l'idea di cut-up sviluppata da William Burroughs e Byron Gysin”.

Poi arriva la grande mostra “The Times Square Show” a cui parteciparono tutti, ma proprio tutti. Si parla sempre degli artisti che ebbero successo, di Basquiat, Haring, Rammelzee, Futura 2000, A One, Lee Quinones e si dimenticano gli altri, come Fab Five Fred, che fu il vero trait d'union tra i graffitari di Downtown e quelli di Uptown.

Una pubblicità natalizia del whiskey Johnny Walker, sullo sfondo un paesaggio innevato e tranquillo, Keith disegna una fila di bambini e in un angolo in alto un disco volante che emetteva dei raggi: “Radiant Baby” nasce così. Non è un bambino radioattivo, ma è il raggio del disco volante ad averlo reso luminoso. L'immagine dell'uomo con il buco nella pancia, invece, gli viene in mente dopo l'assassino di John Lennon, che i Beatles sono sempre stati un suo mito.

Come Andy Warhol, non aveva paura di lavorare quindici ore al giorno, e non sapeva esattamente se quello che stava facendo fosse importante oppure no.

Stampa le sue tag su spillette e le regala in metropolitana. Voleva che le persone si avvicinassero al suo mondo e che tutti potessero possedere una parte del suo lavoro, anche chi aveva pochi dollari e invece dei quadri poteva solo comprarsi una t-shirt.
Dice: “Sarei stato io il gallerista di me stesso e avrei venduto a chi volevo io, mantenendo così la mia integrità e il mio distacco dal mondo dell'arte”. Nell'impossibilità di farlo scelse Tony Shafrazi, che aveva aperto uno spazio a SoHo, forse perché prima di fare il gallerista era stato famoso per aver spruzzato vernice spray  contro “Guernica” di Picasso al MoMA, un gesto idiota non c'è che dire, nel tentativo di “riportare il quadro alla sua funzione originale di simbolo degli orrori della guerra”. Un hippie contro la guerra in Vietnam.

Il lavoro in metropolitana continuava, e stava diventando un vero e proprio fenomeno. I poliziotti lo amavano e a fatica dovevano fargli la multa -“ne avrò prese più di cento e tutte regolarmente pagate”- Una volta lo arrestarono, ammanettandolo, poi al distretto, gli agenti, scoperto chi fosse, gli vollero stringere la mano.
 
Disegno, sound, ballo, energia allo stato puro. Inizia a inserire gli elementi della cultura hip-hop nei suoi disegni, rap, scratch, breakdance, electric boogie.
Conosce Andy Warhol a una mostra alla Fun Gallery, nell'East Village. Andy lo porta alla Factory; nello stesso periodo conosce Madonna, che stava con Basquiat, al Paradise Garage.
Madonna  racconta: “il lavoro di Ketih iniziò nelle strade e attirò l'attenzione delle stesse persone che si interessavano a me, soprattutto neri e ispanici, persone con basso reddito e un background umile. La sua arte piaceva alle persone che apprezzavano anche la mia musica. Venivamo dallo stesso mondo e quel mondo ci aveva ispirato. Ci sono colori audaci, figure infantili e molti bambini ma se si osservano le sue opere da vicino ci si accorge che sono molto potenti e che mettono quasi paura (…) evidenzia giocando, i pregiudizi e le fobie della gente. In questo senso i suoi lavori sono politici”. 

I bambini gli piacevano davvero molto, forse perché non era ancora diventato grande e mai avrebbe avuto tempo di diventarlo. Un “bimbo radiante”. “Quel che mi è sempre piaciuto dei bambini è la loro immaginazione, una combinazione di onestà e libertà che permette loro di esprimere qualsiasi cosa gli passi per la testa. E poi mi è sempre piaciuto il loro senso dell'umorismo e l'incredibile istinto nei confronti di ciò che li circonda e di sentire le energie che provengono dalle persone (…) o forse per la mia faccia buffa, o perché mi comportavo come loro sono sempre stato amato dai bambini, e vedendomi ridevano sempre”.
Non è vero che il lavoro di un artista debba prima essere apprezzato da un'elite di persone. Keith Haring  si fece amare dalle masse, da tutto il mondo: “le mie opere entrarono nella cultura popolare prima che il mondo dell'arte si accorgesse che esistevo e così quest'ultimo non poté prendersi il merito di averle fatte riconoscere dalla gente”. A lui arriva prima il pubblico, poi l'establishment.

Juan Rivera, il suo ultimo compagno, racconta che Keith amava le cose “normali”, come guardare cartoon alla tv e mangiare cose a casa. “Devo dire che all'inizio il suo lavoro non mi sembrava così speciale ma quando glielo vidi fare - Gesù!- era stupefacente! L'energia sgorgava attraverso di lui: iniziava da un certo punto e quando aveva finito non si capiva come e da dove fosse partito! Tutto il lavoro era racchiuso in una grande immagine nella sua testa”.

Ogni 4 maggio, il giorno del suo compleanno, organizza gigantesche feste che chiama “Party Life”. Spettacolare quello del 1985, con tutti i suoi amici e gli artisti che lo amavano. Realizza cinquemila t-shirt stampate da regalare a ogni ospite. L'invito alla festa era costituito da un unico piccolo puzzle in bianco e nero che confeziona in una scatola contenente anche due spillette che dovevano essere presentate all'ingresso, come lasciapassare. Boy George canta “Happy Birthday to You” e sono in molti a commuoversi.
Forse perché era, in anticipo, il giubileo del nostro grande freddo.

Keith è stato una sorta di mutante, “trasportato nel XXI secolo dalle onde del XX e ha risalito la battigia”.

Aveva ragione William Burroughs: “Così come nessuno può guardare un girasole senza pensare a Van Gogh, nessuno può scendere nella metropolitana di New York  senza pensare a Keith Haring. E' questa la verità”.

Riferimenti bibliografici
John Gruen, Keith Haring, 1991. Ed. it Baldini Castoldi Dalai, 2006.
Keith Haring, Diari, Ed. it. Mondadori, 2005.
American art of the 80's, cat. Electa, mostra Palazzo delle Albere, Trento 1991.


Keith Haring
Milano - Vecchiato Art Galleries
Dal 9 aprile al 30 giugno 2009
A cura di: Luca Beatrice