Arte

Il gorgo del nero

di Flavio Arensi

La fonte di un genio è la sola immaginazione, la raffinatezza dei sensi che vede quello che gli altri non vedono, o lo vede in modo diverso.
Eugène Delacroix

Nel 1792 Francisco Goya y Lucientes (1746-1828) divenne sordo, proprio all'esordio della moderna temperie romantica, di una nuova epoca contrassegnata dalla novità del Gruppo di Jena e della loro rivista Atheneum. Si chiuse, in quegli anni, il leggero arzigogolo rococò, nel pieno terrore post-rivoluzionario francese (di fronte agli occhi addestrati delle tricoteuses parigine), poco prima Napoleone (1769-1821) riparasse i cocci del regno per un breve fatuo periodo di gloria imperiale, nel germinare degli slanci progressisti e delle insorgenze del popolo. Curioso come, un lustro più tardi, un altro personaggio cardine dell'arte europea, Ludwig M. van Beethoven (1770-1827), conobbe l'angoscia della sordità che, pur separandolo dallo strepito del mondo, gli concesse d'introiettare nella poetica del suono le percezioni amplificate della vita, il loro isolarsi dalla contingenza per diventare lucida analisi della realtà. Non è un caso, d'altra parte, che Los Desastres de la guerra di Goya poggino sul perno della quarantaquattresima tavola, Yo lo ví (L'ho visto io), tanto nel senso di una stretta cronaca del cataclisma morale del conflitto fra uomini, quanto come biografia e autobiografia di un'anima al cospetto del delirio delle coscienze: orrore abietto oltre la brutalità dell'incubo poiché lucido, al di fuori del torpore onirico; non meno asserente il quarantatreesimo e celebre foglio de Los Caprichos, El sueño de la razón produce monstruos (Il sonno della ragione genera mostri), tanto più collettivo per il chiaro proposito di rendere la visione irrazionale un'atroce presenza della quotidianità di ognuno. Negli anni sessanta circolò negli ambienti letterari madrileni una piccola pubblicazione del critico José María Moreno Galván1 (1923-1981) con le biografie in parallelo dei due artisti: entrambi (fatte le dovute differenze) seguirono in principio le orme di predecessori (prima scuola di Vienna per il musicista, i maestri spagnoli, napoletani e i Tiepolo per il pittore), quindi trovarono una ricca fase di maturazione (colma di messaggi civili e politici), infine un terzo periodo alienato da ogni influsso esterno, più intimistico eppure d'avanguardia, entro cui germogliarono non soltanto i segni della civiltà ferita, degli scontri umani, ma anche la natura, il sentimento dell'assoluto al centro della riflessione di ogni essere vivente (pensante). Allora, pur nella loro ampia e ampollosa prosa, le parole del drammaturgo viennese Franz Grillparzer (1791-1872) rivolte al feretro di Beethoven, nell'orazione funebre del 29 marzo 1827, potrebbero valere anche per Goya, proprio a sottolineare la novità linguistica che riuscirono a manifestare entrambi nel solco di una tradizione attualizzata, anzi cannibalizzata e riscritta: "[…] Dal tubare della colomba sino al rimbombo del tuono, dal più sottile intreccio di puntigliosi artifici sino alla terribile soglia in cui la forma si perde nel capriccio sregolato di forze naturali in conflitto tra loro, tutto ha percorso, tutto ha assunto in sé. Chi verrà dopo di lui non potrà continuarne il cammino, dovrà ricominciare dall'inizio, poiché colui che l'ha preceduto si è arrestato solo ai limiti estremi dell'arte2". Il limite estremo di Goya fu l'incisione, il gorgo nero dell'inchiostro steso sulla lastra.

Rispetto alla produzione pittorica, Goya lasciò parlare nella grafica lo sguardo tacitato dei lavori di committenza o delle opere religiose, quasi scrivesse il resoconto di un'intera epoca fra le pagine del suo diario personale; memorie appuntate sui taccuini da disegno e mediate ulteriormente appena tradotte sul rame, nell'insolito cambiamento metodologico di un autore diversamente poco incline a intervenire sulla tela con studi e bozzetti preparatori. Una riservatezza domestica e interiore che attinse dal buio dell'inconscio, portando anche in pittura alcuni notevoli risultati: cosa furono le Pinturas negras (1820-1823) della Quinta del sordo (non per nulla elaborate per l'intimità della sua dimora-ritiro), se non nuovi capitoli dei Caprichos? quel teatro del mondo (calderoniano) su cui far recitare l'uomo, spogliandolo dei filtri sociali, mettendolo cioè nella condizione di essere null'altro che se stesso. È probabile, una tale atmosfera privata (l'isolamento della malattia) insieme alla protezione dell'amico Gaspar Melchor de Jovellanos (1744- 1811), fra i principali esponenti della corrente illuminista nonché ministro (poi esiliato), fece ritenere a Goya di poter rendere pubbliche le sue intuizioni, usufruendo del momentaneo clima di apertura culturale per stampare il progetto dei Caprichos, e ultimare la celebre Maya desnuda (1789-1805). L'Inquisizione, d'altro canto, contestò (la mal riuscita) prova erotica della Maya, e al contempo censurò Los Caprichos, che difendendosi3 dietro l'etichetta di improvvisazioni fantasiose, scherzi dell'irreale, criticarono aspramente il bigottismo e le prevaricazioni del potere clericale e dell'aristocrazia, peraltro sortendo un notevole insuccesso mercantile (e critico). A cominciare dalla cartella Los Caprichos iniziati nel 1897 e pubblicati due anni dopo, quindi nella ultima parte de Los Desastres pensati fra il 1810 e il 1820, la scoperta estrosa, o meglio, la rappresentazione retorica, crebbe con la proporzionale riduzione dell'elemento plausibile, fino a deflagrare nei Disparates, dove il significato oscuro-alchemico segnò il fascino di una delle più intense e innovative realizzazioni dell'artista. Alle tre suite incisorie potrebbe per ordine storico aggiungersi la Tauromaquia (1814-1816), tanto più la sua realizzazione fu contestuale a quella dei Disparates - il cui avvio si presume dati 1816 e il termine 1823; tuttavia, le stampe dedicate alle corride, concepita durante la permanenza in Francia (nello strano gioco per cui il più ispanico dei temi nacque oltre i Pirenei, e viceversa, la trascrizione iconografica dei più audaci asserti rivoluzionari prese luce in Spagna), interruppe la progressione teoretica delle tre serie, fra loro collegate da un sottile sistema di rimandi e concatenamenti simbolici. Dunque la Tauromaquia potrebbe intendersi una messa in parentesi - una sorta di epoché fenomenologia - che sospese il giudizio sulle cose viste (sulla testimonianza del Yo lo vi!) o vissute, e nel contempo un'occasione di distacco dalle cronache del bizzarro-umano, che col tempo in Goya presero sopravvento sulla veridicità del portato storico o civile. Sta proprio qui la chiave dell'opera incisa del maestro, ossia il ricondurre le estetiche del sueño e della realidad spagnole (cervantiane) in un unico coacervo, con la libertà assoluta dell'immagine, e la dedizione ossessiva all'effetto chiaroscurale rembrandtiano.

Con la sordità l'artista fu costretto a ridefinire i propri canoni sensoriali, e accadde immediatamente, in un momento biografico importante, ovverosia trovandosi all'apice della propria carriera, fra la nomina del 1789 a pittore di camera del re e la sua elezione al magistero direttoriale dell'Academia di San Fernando di Madrid nel 1793, per la cui occasione presentò undici soggetti aventi per tema "divertimenti popolari" o "capricci": anticipazione non soltanto dell'omonima serie incisoria, ma di una poetica rinnovata e soffusa di malinconia, distacco osservativo spietato, allegoria nera (quella della Quinta, di un capolavoro come El coloso terminato fra il 1808 e il 1812, o della Fucilazione del 3 maggio di due anni successivo, tutti in pieno clima dei Desastres). Attraverso l'idioletto incisorio e non la grammatica pittorica, fatto salvo le eccezioni già enunciate, Goya s'immerse appieno nel folle consorzio umano, nei baccanali della sua prosopopea, nei falsi maestri o imbonitori (gli asini, i lupi, gli incappucciati, i monaci, i gufi) e tutta quella pletora di politicanti, farabutti, che spogli di una casacca o livrea precisa, effigiavano di volta in volta gli invasori o gli occupati, tutti carnefici della ragione e della pietà. Nelle grafica, non operò soltanto il recupero della visionarietà di El Greco (1541-1614), insieme allo sguardo umano di Diego Velázquez (1599-1660) o Bartolomé Esteban Murillo (1618-1682), e tutta la tradizione di pitocchi e bamboccianti italiani, ma si emancipò dagli schemi più leggeri della ritrattistica settecentesca, cui in effetti Goya non riuscì mai ad arrivare per qualità, sfiorando il gelo perfetto di Anton Raphael Mengs (1728-1779), mai toccando la psicologia ritrattistica (e ancora pestilente) di un fra' Galgario (1655-1743) o persuasiva di Girolamo Pompeo Batoni (1708-1787), senza abiurare la tradizione, anzi mutuando dalla conoscenza di artisti italiani in forze alla corte madrilena, come Giambattista Tiepolo (1696-1770) e il figlio Gian Domenico (1727-1804) e il napoletano Corrado Giaquinto (1703-1766), una dinamica del racconto e una linguistica nello spazio utili a delineare la sua pantomima dei crucci umani. Al di là delle scuole e delle accademie, il nodo cruciale sta nell'infermità, dopo la quale Goya lasciò alla pittura il compito di assecondare il gusto dei committenti, pur con qualche accento dissonante, mentre sulle lastre codificò un linguaggio affatto nuovo, senza tuttavia perdere la memoria del passato, eppure rompendo ogni schema; più acre di Giovanni Battista Piranesi (1720-1778), le cui prigioni furono simbolicamente gli intricati sotterranei dell'uomo, le inevadibili mura (come i Piombi veneziani) entro le quali l'anima è costretta, Goya enucleò l'essenza (l'elisir) del soggetto più che la parabola delle sue costrizioni; come Daniel Defoe (1660-1731), egli s'interessò alle sorti di Moll Flanders invece di descrivere le carceri di Newgate dalle quali ella proveniva, ossia il pittore fermò l'attimo preciso in cui l'ossessione, lo stupro, il delitto, l'irretimento sono all'acme della loro violenza rappresentativa, il secondo in cui le sue e i suoi "mollflanders" dimostrano le più spregevoli delle loro iniquità, in qualsivoglia luogo o schema sociale-etico essi vivano.

Se il predecessore Jacques Callot (1592-1635), di cui certo Goya conobbe le acqueforti, raccontò Les Misères de la Guerre, decidendo di riportare la panoramica degli eserciti e dei conflitti come notiziario (impersonale) di battaglia, Goya, pur tenendo la medesima visuale, declinò il senso di miseria (o sciocchezza) del vocabolo misères in desastres (probabilmente nell'origine etimologica di "arrecar sventura"), a discapito del termine estragos che significa scempio, oppure massacro, disastro, privo però di connotazione enfatica e destinale dell'intera congerie umana. Si noti che estragos ricorre nel titolo della trentesima lastra dei Desastres, Estragos de la guerra, per altro un'acquaforte dal formato quasi quadrato, e non fu una coincidenza (le incisioni lasciano poco spazio all'imprevisto) se questo foglio eccellente risultò fra i pochi che possono ritenersi un reportage di eventi militari accaduti, senza l'attivazione del meccanismo onirico o metaforico. La scelta di prediligere la parola desastres per nominare l'intera cartella fu dunque precisa, affrancandosi dalla contestualizzazione storica dei casi bellici (l'invasione napoleonica e le relative rivolte popolari), né intese sottrarsi dai dati temporali (estragos), anzi usufruì degli episodi e dei soggetti - il clero, le truppe francesi, i partigiani, l'aristocrazia, la plebaglia - per delineare i tratti più generali di un'umanità che al di fuori della ragione e delle ragioni liberali abdica dal controllo della propria anima, persa e dispersa fra i suoi tormenti visionari (incubi). Il dispiegamento della realtà-sogno nei Desastres pare più articolata rispetto ai Caprichos, che parlano per inserti icastici assertivi, e è a sua volta semplificato rispetto al climax ascendente dei Disparates, dove il fantastico-ossessivo produce mostri, irrealtà senza accenti di realtà. La disposizione in orizzontale dei fogli dei Desastres e dei Disparates - ribaltata di 45° rispetto alla montatura verticale dei Caprichos - servì al distendersi del sogno-follia all'interno della storia, che altrimenti avrebbe perso margine immaginativo. Neppure si trattò di una caricatura dell'uomo, come potrebbe accadde più tardi in Honoré Daumiuer (1808-1879), bensì riflessione dell'esistenziale, appunto niente affatto umoristica ma tesa a vedere l'uomo per quello che è in sostanza, senza melodrammi sardonici; scomparve qualsiasi aspetto comico di spregio, non rilesse il soggetto ritratto in chiave farsesca, bensì nespose 'l'entità nuda (come la Maya) collocandola all'interno di situazioni amplificate ed estreme.

Tali dinamiche non potrebbero comprendersi se non all'interno dell'ampio catalogo di pittura religiosa prodotta dal maestro, certo anticlericale, tuttavia sensibile alla vita di Cristo e al messaggio di pace e tolleranza della sua predicazione. Nelle incisioni Goya ricorse di sovente a precise metafore cristiche, traslate spesso dalla grande arte passata - soprattutto rinascimentale - fino a dedicargli l'apertura e la chiusura dei Desastres, dove ogni perseguitato assurse a metonimia del dramma di Gesù condannato alla Croce, deriso e flagellato impietosamente. Nel primo foglio Tristes presentimientos de lo que ha de acontecer (Tristi presentimenti di ciò che sta per accadere), l'artista ripercorse le ore tragiche dell'Orto degli ulivi, equilibrando la tensione sull'attesa del compiersi tragico del destino presagito ma non del tutto indubbio. L'uomo dalle braccia larghe che taglia il foglio di tenebre assillanti sembra già inchiodato alla sua personale condanna esistenziale di fronte al sonno della ragione. Nell'ottantesima lastra, invece, il rimando fu la resurrezione, non soltanto nel titolo, ¿Si resucitarà? (E se risuscitasse?), ma nell'impianto luminoso da cui fuoriesce il corpo morto della Verità laica come il Cristo dal biancore assoluto del sepolcro. Di certo l'opera incisa di Goya non accondiscese ai costumi della chiesa, né tanto meno delle classi dirigenti, tuttavia neppure tollerò le miserie delle classi deboli, tanto da non potergli far recitare la parte di mangiapreti laicista a qualsiasi costo; piuttosto, l'artista cercò nel riscatto della ragione l'occorrenza migliore per riorganizzare la società universale, secondo i dettami non soltanto dei Lumi ma del buonsenso. In tale ottica l'archetipo del Cristo, più che la struttura ecclesiale, si dimostrò all'altezza del compito prefisso, ossia di raccontare attraverso la storia di incubi e sonni il vero oggetto delle meditazioni goyesche: l'uomo risvegliato e libero, colui che non rinuncia a rimanere desto, vigile, come l'ultima scolta sulla torre d'avvistamento, colei che chiama a raccolta le truppe a ripose col suo allarme. È la ragione il centro focale di tutta l'opera incisa, non per nulla il frontespizio riporta il motto della quarantatreesima lastra dei Caprichos, El sueño de la razón produce monstruos, a chiarimento di un percorso ampio che termina con l'ultimo dei Disparates, il Disparate fúnebre, in cui l'anima del morto si alza ed aleggia in quel maestoso convivio di folli, morti o vivi che siano poco conta. Questo è l'ultimo dei proverbiali Disparates che, nel 1864, furono editi in Madrid a cura della Real Academia de Nobles Artes de San Fernando, trentasei anni dopo la morte di Francisco Goya, il cui autoritratto instradò la lunga serie dei Caprichos e forse, proprio in questo ultimo folle diciottesimo foglio del ciclo grafico conclusivo, egli di nuovo volle apparire, coi tratti fisionomici invecchiati dal tempo, sul viso dello spirito che si leva dal cadavere come chi, finalmente libero, lascia agli altri il gorgo dei suoi neri disastrosi sogni irragionevoli.

1. (edizione italiana) J. M. Moreno Galvan, Beethoven e Goya, Milano 1962, pubblicato nella collana Giano della CEI in cui si accostavano nello stesso volume due biografie di grandi uomini.

2. F. G. Wegeler e F. Ries, Beethoven appunti biografici dal vivo - a cura di Artemio Focher, Bergamo, 1993.

3. Così lo scrittore Juan Agustin Céan Bermundez, sulle pagine del Diario de Madrid il 6 febbraio 1799: "L'autore, convinto che la denuncia degli errori e dei vizi umani possa essere oggetto anche della pittura, ha scelto come temi adeguati alla sua opera, tra la moltitudine di stravaganze e stupidaggini consuete a ogni società civile, quelli che ha ritenuto più adatti a fornire materia per il ridicolo e al tempo stesso a eccitare la fantasia dell'artefice. La pittura (come la poesia) sceglie nell'universale ciò che giudica più conveniente ai propri fini: riunisce in un unico personaggio di fantasia circostanze e caratteri che la natura offre suddivisi in parecchi, e da tale combinazione, sapientemente articolata, risulta quella felice immagine per cui un buon artefice acquista il titolo di creatore e non di imitatore servile".