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Bruno, un principe a Brera

Giuseppe Ajmone

Parlare di Bruno Cassinari è, per me, dire di un fratello maggiore che mi voleva sempre più legato alla qualità del mestiere, perché mi stimava o perché lui stesso voleva perdersi nel mare della pittura per una ragione di vita.
Nella cittadella inquieta di Brera che si presentava come depositaria tradizionale dell’arte, Bruno era il principe perché il fascino dei suoi dipinti traboccanti di un colore sontuoso, vario e ricco che mi ricordava la grande pittura veneta, erano un sigillo per tutti. Letterati e poeti li amavano, incantati dalla tavolozza di verdi, viola, bruni che animavano l’opera: ne parlavano Quasimodo, Gatto e molti altri; Vittorini poi mi ha detto della emozione provata nel vedere la piccola tela di una "Deposizione", nello studio di Bruno, parecchie volte in occasione dei nostri incontri.
Morlotti, di ritorno da Mondonico e Gropparello, dove era stato con Cassinari a dipingere, mi diceva che non riusciva a capire come, dipingendo di prima stesura, Bruno riuscisse a farti sentire l’umidità delle erbe e degli alberi nei suoi paesaggi.
Facilità forse, ma anche amore profondo e tenero verso la natura e la pittura che si congiungevano.
Quando Cassinari era fuori Milano, ad Antibes o a Parigi, mi scriveva spesso chiedendomi di andare nel suo studio a vedere se tutto era tranquillo e se la vecchia Maria che ne aveva la custodia stava bene.
A Parigi, dove lui si era trasferito per breve tempo, c’incontrammo: vedemmo, ovviamente, chilometri di pittura. Lui sempre più vivace e attento perché aveva l’arte nel sangue che lo spingeva fatalmente nel grande mare del quale dicevo prima.

Romagnano Sesia, 20 novembre 2004


Articolo pubblicato il 22 dicembre 2004