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Viaggio nelle strade di Manila tra narcos e squadre della morte

La lotta alla droga del presidente Duterte ha fatto 4600 vittime. I corpi lasciati a bordo strada con un cartello: "Non fate come me"

di Cecilia Attanasio Ghezzi per "La Stampa"

Rody Duterte «È la vita! Se commetti un crimine, devi pagare!». Ride mostrando i denti marci. Eppure dovrebbe essere lui il garante di quel rione, il Barangay 190, oltre settemila persone in uno dei quartieri di Pasay City, una delle 17 zone in cui è divisa Metro Manila, quasi 13 milioni di persone in un’area di oltre 600 chilometri quadrati.
Il suo collega, Levi Navarro, 57 anni di cui 25 a servizio della sua comunità, è di tutt’altro avviso. «È la prima volta che succede una cosa del genere da queste parti. La spazzina c’è quasi inciampata sopra.
Poi è corsa a chiamarmi...
Non è un buon segno!». A illuminare la strada sterrata, solo i fari di una volante della polizia.
Sul ciglio, dove l’erba si fa più alta, c’è un cadavere con la testa avvolta da cellophane e scotch da pacchi.
Col nastro adesivo ci hanno attaccato un foglio A4.
Rody Duterte C’è scritto, in stampatello: «Non imitatemi: sono un rapinatore, un tossicodipendente e un barker», ovvero l’autista delle onnipresenti jeepney che nelle Filippine sostituiscono i mezzi pubblici. Un lavoro che rende meno di tre euro al giorno. Tutto intorno si sono formati capannelli di curiosi.
La stampa è arrivata prima della polizia: si scattano foto, si fanno stand up, si lanciano agenzie. Qualcuno si fa un selfie. Si aspetta la scientifica che, dopo aver documentato, scoprirà il volto del cadavere e tutte le ferite infertegli prima della morte. Ma si riparte prima. È arrivata un’altra chiamata.
C’è un altro cadavere in un altro quartiere.
Anzi ce ne sono altri due. Le macchine dei media, il cartello «press» in bella vista e le quattro frecce sempre accese, fanno a gara per chi arriva prima. Sono le 11,30 di sera di un mercoledì qualsiasi e siamo al quarto «morto ammazzato». Prima che faccia mattina ce ne saranno altri cinque.
Corpi torturati e legati assieme. Uno su tutti: dopo averlo ammazzato, i killer hanno trovato il tempo e lo stato d’animo giusto per disegnare con un pennarello indelebile un volto che ride sopra lo scotch che lo ha soffocato. È la barbarie. Impunita.

Carcere a Manila

Manila spara, soprattutto di notte.
Ogni notte. E a morire sono gli ultimi, quelli che comprano una dose a poco meno di due euro e quelli che spacciano per «far campare la famiglia». Sono tantissimi. Dal 30 giugno, quando il presidente Rodrigo Duterte si è insediato, oltre 4600 persone hanno perso la vita durante le operazioni di polizia o quelle che vengono chiamate «esecuzioni extra-giudiziarie».
I killer arrivano in moto, con il volto coperto. Giustiziano sul posto.
Oppure se lo caricano via. Qualche giorno dopo il corpo ricomparirà ai margini di una strada qualsiasi. Il volto coperto e un cartello a monito per la comunità: «Non fate come me».

Carcere a Manila

D’altronde il presidente l’aveva annunciato in campagna elettorale: se fosse stato eletto con i cadaveri dei drogati avrebbe «ingrassato i pesci della baia di Manila».

Rody Duterte, che appare sempre nell’atto di sferrare un destro e ha quasi l’80 per cento dei consensi, non è nuovo a questi metodi. Per vent’anni è stato il sindaco di Davao, oltre 1,6 milioni di persone a 1500 km a Sud della capitale. «Prima di Duterte, era una città in cui faceva paura girare da soli», racconta Pepe Diokno, classe 1987, che a questa storia ha ispirato un suo lungometraggio: Engkwentro, premio Orizzonti e Leone del futuro come miglior opera prima a Venezia 2009. «
Ma poi sono comparse le squadre della morte. Prendevano di mira gli ultimi, senza pietà. La microcriminalità diminuiva sensibilmente e la classe media si sentiva sicura».

Carcere a Manila

Tra il 1998 e il 2009, la Commissione per i diritti umani ha documentato 814 omicidi commessi da ignoti nella sola Davao.
Le vittime erano adolescenti, ladruncoli o l’ultimo anello del sistema di rivendita dello shabu, la metanfetamina dei poveri, quella che permette di lavorare per 24 ore senza soffrire stanchezza o fame.
All’epoca, la presidente della Commissione era l’attuale senatrice Leila de Lima, oggi al centro di un’interrogazione parlamentare trasmessa a reti unificate. La si accusa di essersi fatta finanziare la campagna elettorale da un signore della droga, l’ex sindaco di Albuera.
Lui è stato ammazzato in carcere il 5 novembre scorso. Suo figlio, Kerwin Espinosa, è rientrato da Abu Dhabi il 17 novembre con la garanzia di essere inserito nel programma di protezione dei testimoni.
La de Lima è stata anche segretario del dipartimento della giustizia dal 2010 al 2015 ma, nonostante tutti gli indizi facessero pensare che le squadre della morte di Davao avessero le spalle coperte dall’ex sindaco in persona, non è riuscita a portarlo a processo.
«Abbiamo raccolto prove e racconti - spiega -.
Ma i testimoni avevano tutti paura quando si trattava di formalizzare le accuse». L’omertà è qualcosa che avvertiamo anche noi, quando incontriamo i parenti delle vittime delle esecuzioni sommarie nei bassifondi di Manila. «Ci sono degli sconosciuti che ci osservano», rivela tra i denti un padre. E una vedova, che oltretutto ha già perso tre figli: «Ho organizzato la campagna elettorale di Duterte nel quartiere». Scuote la testa: «Questo però è un prezzo troppo alto da pagare».

30 novembre 2016
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