Arte

Un probabile umore dell'idea. Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli

Milano - Galleria Bianconi
Dal 7 al 25 novembre 2008

Faenza - Museo Carlo Zauli
Dal 30 novembre al 29 dicembre 2008

La Galleria Bianconi inaugura il 6 novembre, la mostra Un probabile umore dell'idea. Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli, curata da Flaminio Gualdoni e corredata da un catalogo edito da Silvana Editoriale.

Nanni Valentini - Colonna torre, 1985

Carlo Zauli - Cubo alato, 1976, Dim: 46x35x35 cm

Leoncillo Leonardi - Giorni d'estate, 1958 - Dim: 55x51x120 cm - Collezione Giovanni Erbacci, Bologna

Lucio Fontana - Concetto spaziale, 1962 - Diametro 44 cm

La mostra si inserisce come uno dei momenti principali della nuova stagione artistica della Galleria Bianconi che mira ad estendere la propria indagine sull'arte moderna e contemporanea dando vita ad una serie di progetti tesi da un lato ad approfondire un‘analisi critico - storica sulle arti visive del secondo '900, dall'altro a scoprire come alcune caratteristiche dell'arte di tale periodo si riflettano oggi sull'opera di giovani contemporanei.
Si tratta di un ambizioso progetto il cui carattere marcatamente storicistico e quasi istituzionale è sottolineato dalla co-partecipazione del Museo Carlo Zauli di Faenza anch'esso sede - dal 29 novembre al 29 dicembre - dell'evento; scelta legata sia al fatto che il Museo è dedicato ad uno dei protagonisti della mostra, ma soprattutto connessa al forte valore simbolico della città di Faenza, epicentro professionale comune a tutti e quattro gli artisti.

La mostra ruota intorno a quattro grandi scultori nel periodo del dopoguerra, Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli e mostra il filo doppio che li lega, partendo proprio dal suo titolo "Un probabile umore dell'idea".
La particolare definizione di Emilio Villa sulla vicenda dell'arte italiana nel secondo dopoguerra esprime quell'idea di scultura che unisce i quattro grandi maestri: la ricerca di una scultura non più prigioniera dei propri protocolli formali, scaturita da un diverso rapporto con la materia, che si trasforma in vitale alito poetico, per offrire uno spaccato, sia eterogeneo che armonioso, della scultura del secondo ‘900.
Nel passaggio tra gli anni '50 e '60 vengono a confronto due generazioni risolutive le quali si pongono la questione della ricerca di "una scultura necessaria e capace di farsi corpo plastico dotato di senso" e che superi la definizione martiniana di "Scultura Lingua Morta".
Da qui nasce l'idea del confronto proposto dalla mostra Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli.
La mostra esplora il percorso che muove dalla lezione dei due grandi maestri, Fontana con il suo rapporto di profonda intimità con la materia, d'una complicità quasi erotica, e Leoncillo che sa vedere un nuovo oggetto nella materia trasformata con stratificazioni, solchi e strappi, che in realtà sono quelli del nostro essere più intimo. Attraverso le loro opere, il percorso espositivo porta in evidenza il substrato necessario e fondante che negli anni '60 porta all'opera di Nanni Valentini e Carlo Zauli, che pur fedeli al linguaggio della terra, determinano schiusure decisive nel dibattito scultoreo, alla ricerca di quelle "forme, colori e materiali che possano suscitare direttamente un'emozione".

In mostra, tra gli altri, pezzi molto significativi come Concetto Spaziale (1962) di Fontana, un inedito, mai pubblicato e presentato per la prima volta in una mostra, l'evocativo San Sebastiano (1963) di Leoncillo, il concettuale Cubo (1976) di Valentini e il fluente e oscuro Arata (1976) di Zauli.

La mostra, è accompagnata da uno speciale evento musicale: il concerto dell'Open DUO Around, che suona a Milano il 19 novembre presso la Galleria Bianconi alle ore 19.00.
La coppia Open Duo collabora già da tempo con realtà appartenenti al mondo delle Arti Visive, esibendosi con consuetudine, fra l'altro, presso importanti Musei d'Arte italiani, come la GAM di Torino. Open Duo, composto dai musicisti Donato D'Antonio alla chitarra e Roberto Noferini al violino, propone per l'occasione brani di Ibert, Paganini, Ravel, Bartok, Aki, Piazzola.

Lunedì 1 dicembre presso il Museo Carlo Zauli, Flaminio Gualdoni terrà una conferenza di presentazione relativa alla mostra "Un probabile umore dell'idea", che sarà ospitata nella sede del museo fino al 29 dicembre.


Testo critico
"Un probabile umore dell'idea"
Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli
Flaminio Gualdoni
"Un probabile umore dell'idea": così, nel 1959, Emilio Villa diceva di Francesco Lo Savio, ma a ben vedere di una assai più ampia e cruciale vicenda dell'arte italiana del secondo dopoguerra, in cui un rapporto finalmente fondamentale, sorgivo, con la materia, si riscatta in trasparenza concettuale, in alito poetico: anche, in una scultura non più prigioniera dei propri protocolli formali.
Se è vero che ancora nel 1956 un Fausto Melotti, giusto alle soglie dell'intuizione che lo renderà geniale, può scrivere che "In scultura più nulla da fare, da dire, dopo quello che è già stato detto e fatto. E' morta, per ora"; se è vero che su tutti agisce ancora come unombra p'roblematica il testo di Arturo Martini, Scultura lingua morta, che aveva aperto il dopoguerra ed era letto dai più come un bilancio definitivamente disincantato dei limiti storici della scultura, intesa nell'accezione tradizionale di statuaria, piuttosto che come una revisione radicale e un'ipotesi di rifondazione; se è vero che la querelle astrazione/figurazione vive d'umori ideologici oltre che teoricistici, e comunque riguarda le misure e le convenzioni pressochè esclusive del pittorico: se è vero tutto ciò, è altrettanto vero che il passaggio Cinquanta/Sessanta vede allinearsi due generazioni risolutive le quali si pongono la questione non di un come omologabile della scultura, ma di un fondativo perché: d'una scultura necessaria, dunque, capace di farsi corpo plastico dotato di senso, anche a costo d'anacronismi rispetto ai tempi e ai modi del dibattito d'arte.
Non è da dimenticare che il 1959 in cui Villa conia la sua chiave di lettura quasi profetica è lo stesso in cui Lucio Fontana approda alle Nature, intuizione profonda dell'intimità della materia e della sua vitalità: dunque, d'un formarsi prevalente sulla nozione storica del formare: e d'una complicità genetica, erotica anche, che l'artista è chiamato a intrattenere con la materia, ribaltando antiche retoriche agonistiche.
Il plasticare, il tracciar segni e l'inciderli, il pensare colore, acquisiscono in tale esperienza di Fontana un valore di ultimativo scambio fisiologico e insieme emotivo tra l'artista e la genetica dell'opera, ben lontano da ormai scontate suggestioni demiurgiche, di cui egli è ormai definitivamente consapevole dopo decenni in cui la sua ars maior è stata, comunque, la scultura, dalle prove d'anteguerra in cui la ceramica evolve in lui da sperimentazione entusiasta a disciplina posseduta dell'esprimere, a un dopoguerra in cui essa si espande a geniali prove ambientali.
E', la scultura di Fontana dei decenni tra i Trenta e i Cinquanta, materia che pare crepitare in un prender forma aspro, concitato, telluricamente violento, eppure capace anche di tenerezze, di godimenti sensibili. E' una sorta di suggestione dell'informe, o una combustione espressiva della forma, ad agire in queste opere: che trattano temi in modo da deproblematizzare, credo, il peso del soggetto in una fase in cui altre preoccupazioni sono prevalenti, a cominciare dall'intuizione della forma come avvenimento contingente nella luce e nello spazio, come grumo vitale a radiante carica energetica, e a primario effetto spettacolare. E', ancora, ciò che gli fa dire nel 1939 in senso non banalmente polemico, anzi programmatico: "Io sono uno scultore e non un ceramista", dunque un artista che rivendica con orgoglio un bagaglio disciplinare sapienziale ma per trascenderlo in mozione estrema, effettivamente nuova, pensiero ed esperienza del formarsi che si fanno materia vivente, corpo effettivamente equivalente.
Non è un caso che Leoncillo, un altro autore nato in complicità essenziale con la terra, dunque ben consapevole di agire in una zona sorgiva della scultura, nel punto in cui la processualità stessa dell'opera è scambio profondo e senza primazie tra l'intenzione intellettuale e il corso impadroneggiabile dei gesti, delle necessità concrete, delle fisiologie della materia, auspichi nel 1957 nel Piccolo diario "un nuovo oggetto naturale che divenga con stratificazioni, solchi, strappi che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro. Non più colore quindi […] ma materia che ha un colore che diciamo dopo. Non più volume, ma materia che ha un volume", a indicare prima ancora che un'opzione di linguaggio una coscienza della materia, e del formare, e del formarsi, dotata di una "intimità" - così Bachelard - tale da travalicare ogni diaframma di alterità, da farsi vera e propria, non traslata non relata, identità corporea dell'autore e dell'individuo plastico che ne nasce.
Leoncillo, che nel 1962 proprio Villa racconta impegnato nel "recuperare il dono inscrutabile dell'ignoranza in scultura", ovvero d'una docta ignorantia, indica così la prospettiva di un'arte che lasci crescere la materia, la terra, a una forma stabile per vie che paiano autonome, come pura concrezione, come zolla che la mano dell'uomo fenda, dopo le carezze, di segni violenti e drammatici, nell'estremo furioso dell'amore: "La creta è come carne mia, un processo di identificazione assoluto"; e ancora: "Non una realtà descritta e ricondotta a stile, ma forma colore materia a dare direttamente l'emozione, il sentimento della natura", attraverso "atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo".
La fine del decennio Cinquanta segna gli esordi, a ridosso del magistero di Fontana e della meno diretta aspra lezione di Leoncillo, di due autori che, mantenendosi fedeli al linguaggio della terra, determinano schiusure decisive nel dibattito scultoreo, Nanni Valentini e Carlo Zauli.
Sin dallo scorcio di quel decennio Valentini si avvede che il lavoro plastico va sempre più inoltrandosi verso il confine tremendo in cui oggetto e scultura entrano in collisione definitiva, rivelando la drammatica alterità che sarà la matter problematica dei due decenni successivi, sino a estremi come il Nouveau Réalisme e l'Arte povera. La questione è, per lui, la sostanza stessa, concettuale e formativa, della forma. Un processo preventivamente intellettualizzato, necessitante un esito compiuto, prevede l'oggetto, tanto quanto la scultura è materia abitata da tensioni formative oscure e vitali, che si decidono attraverso segni connaturati, in un tempo di crescenza teoricamente illimite, perché partecipe del flusso vitale.
Così Valentini legge il lavoro di Fontana, e attraverso questo la lezione drammatica del Martini ultimo. "Trovai un segno che non era separato dalla materia, e questa aveva una densità più plastica. Era un inizio", egli scrive in uno dei suoi numerosi fogli riflessivi. Trovare un segno, qualificazione primaria della materia, che schiuda dunque la porta al possibile di senso. Ancora è soprattutto il dialogo con Fontana a guidare problematicamente l'artista, soprattutto nel trovare il segno forse essenziale, in quanto mero differenziale di materia e generatore di spazio, atto immediato e irrelato e insieme monema costitutivo d'immagine.
Il suo spazio è, sorgivamente, la piastra, la pelle, a un punto limite in cui corporeo e superficie s'inneschino ambiguamente a vicenda, insieme trascendendosi in una dimensione di schiarito scrutinio intellettuale: "Cerco di capire cosa c'è nell'interspazio tra il visibile e il tattile". E altrove: "Sono segni, ancora segni nel e del paesaggio, ombre luccichii, scalfitture, crepe, vuoti, sguardi, attese, segni visibili dunque. Quelli invisibili, che cerchiamo, sono ancora custoditi gelosamente nella terra, ma il presagio già li percorre, sono dietro ai muri, sotto la pelle, fra le pieghe delle trame, nascosti in una memoria senza codici, preservati dall'anima del tempo con tutti i successivi segni".
La piastra ragiona della zolla, del mattone, del monema plastico dal quale la pelle può distaccarsi, come rivelando lo iato tra sostanza e apparire, ma anche il luogo del determinarsi. E', sarà, luogo architettonico, la scala e la soglia, l'arco e la parete. Sarà, negli anni, molto più, il focolare, la casa, la dimora, la sapienza fondamentale dei luoghi da cui trapela in filigrana la figura originaria del vasaio biblico: "Dirà l'argilla a chi la forma: ‘Che fai?', o dirà la tua opera: ‘Non ha mani?'" (Isaia, 45,9).
L'argilla non è muta, non ribelle, ma con l'artefice instaura un rapporto complice, confidente, materno, sino ad elevarsi a una dimensione che si fa infine sapienziale: "Penso alla terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore di Geremia, alla Terra Madre che partorisce figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio ed a quella che imprigiona l'ombra delle farfalle. Sono i suoi segni che fermano la mia attenzione. Però una cosa devo chiarire: che queste cose non sono delle risposte in positivo ad un qualche nichilismo in quanto materia-corpo-manualità e tanto meno come un pieno rispetto ad un vuoto (perciò non come polo di qualsiasi simmetria). Non credo alla poesia-comunicazione. Mi piace considerare la terra solo come luogo di una poesia, un luogo vuoto e perciò aperto al possibile, dove l'unico rischio è quello dell'impronta".
La risposta di Zauli alla dicotomia oggetto/forma passa anch'essa attraverso un processo di affrancamento progressivo dagli statuti e dagli orgogli disciplinari dell'arte della terra in favore dell'intendimento radicale delle ragioni di flusso della formatività, di uno stream che da fabrile si fa intimamente affettivo e insieme lucidamente interrogativo: della forma data in convenzione e delle deroghe genetiche, della corporeità e dell'astrarsi possibile della superficie.
Anch'egli, dopo la definitiva maturazione nella cerchia di Fontana e grazie a un fervido rapporto problematico di formazione con Arnaldo e Giò Pomodoro, dalla fine degli anni Cinquanta inizia a saggiare la spinta, per usare le parole di Leoncillo, di "forma colore materia a dare direttamente l'emozione", attraverso due percorsi congeneri e criticamente delucidati.
Da un canto, Zauli agisce sulla sostanza stessa, sulla matière/couleur e sulle sue introverse, telluriche crescenze in colore apparente, nel tempo accecato dell'emergere alla luce dell'intimità stessa della materia. Dall'altro, egli ritrova e amplifica, dopo il vuoto vertiginoso e definitivo del taglio di Fontana una qualità alta di spazio, ormai definitiva, che è il Ma giapponese, flusso continuo e tessuto di relazioni, vero spazio/tempo nel quale è corpo/tempo anche il segnare e corrodere, il processo che genera e dissolve relazioni, le stratifica e le appone, le deforma e le ricostituisce, in una trama di tracce e avventure volumetriche che alterano la perfezione astrattamente sperata dell'idea geometrica di forma, ancorché essa aspiri - sfera o cubo - a frequenze metafisiche. Sono anche questi, infine, svelamenti drammatici del meccanismo interno di generazione della forma stessa per articolazioni fitte e talora impreventive, spesso imperscutabili, che comportano insieme fastosa impurità percettiva e sensualità tutta mentale.
Ne nasce un corpo che per scelta e avventura intellettuale ha le fattezze di un solido euclideo ridotto a memoria frastornata di se stesso, la cui pelle non rappresenta altro che una stabilizzazione provvisoria, e transeunte, in forma esperibile e, forse, conoscibile, del processo di metamorfosi in forma nuova: come una situazione provvisoria di stabilità formale che induce ad attribuire responsabilità struttiva piuttosto alle nervature lunghe e sensuali, ai corrugamenti e alle difformità, in quanto vere e proprie linee/forza espressive e percettive di questa sovranamente ambigua machina organica.
E', quella di Zauli, una genetica prorompente ma cieca a una vocazione formale programmatica ed eteronoma, cui la geometria offre una dimora convenzionale e convenzionalmente disincantata, pronta a dissolversi all'atto stesso di enunciarsi, in favore di una ambigua, impura, ma decantatissima e meditativa, contemplazione degli accidenti, delle logiche impreventive della forma.
Mi piace pensare alle opere di questi artisti anche da un altro punto di vista, che rimonta a un'antica intuizione espressa da Giuseppe Marchiori, nel fatidico 1946, a proposito delle sculture di Alberto Viani. Anche queste opere, tutte, sono infine ancora monumenti: "forse, gli unici monumenti di una storia senza eroi".

Un probabile umore dell'idea. Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini, Zauli
Milano - Galleria Bianconi
Dal 7 al 25 novembre 2008
Faenza - Museo Carlo Zauli
Dal 30 novembre al 29 dicembre 2008

Orari: dal martedì al venerdì 15.00-18.00. Sabato e domenica 10.00-13.00/15.00-18.00
Ingresso: intero 6,00 Euro, ridotto 3,00 Euro
tel. 3391544010

MUSO CARLO ZAULI
Via della Croce 6, Faenza
Opening sabato 29 novembre ore 18.30
A cura di Flaminio Gualdoni.
Catalogo Silvana Editoriale

GALLERIA BIANCONI, Via Fiori Chiari 18, Milano
Opening giovedì 6 novembre ore 18.00-21.00
7 novembre- 25 novembre 2008
Orari: da martedì a domenica 10.30-13.00 / 14.00-19.00

Sabato 19 novembre ore 19.00 concerto Open Duo Around
Ingresso: libero
Contatti: Renata Bianconi
tel.02 72007053