Arte

Annibale Oste. Interventi sugli Avori di Salerno 1978 - 2008

Salerno - Museo Diocesano
Dal 5 aprile al 30 maggio 2008


In occasione della mostra L'Enigma degli avori da Amalfi a Salerno, l'artista Annibale Oste dopo trenta anni "rispolvera" un vecchio progetto realizzato con alcuni calchi degli Avori di Salerno e crea sugli stessi soggetti, gli Avori di Salerno, sette sculture e due "opere mobili".
Le sette sculture hanno un filo comune che è il piano su cui si sviluppano le storie, fatte di appunti e di sottolineature, le opere mobili una sorta di tabernacolo, dove l'Assoluto si manifesta e trova così la giusta dimora.

Sui luoghi e sugli eventi culturali del Ministero è a disposizione anche un call center che risponde al numero verde 800 991 199. Il servizio è attivo tutti i giorni dalle 9.00 alle 19.00.

Due modi di dialogo, in un confronto triangolare
Di Enrico Crispolti
Ritornando a confrontarsi, trent'anni dopo, con gli avori salernitani, Oste non ha nostalgie ma chiarisce subito una distanza che è del tempo, del suo tempo, interna all'evoluzione della sua ricerca di scultore. Tuttavia il nuovo confronto non è soltanto unilateralmente frontale, fra una sua nuova, libera, rilettura e quei testi medioevali, ma diventa qui una sorta di triangolazione, giacché con quei testi si confrontano non soltanto le ultime elaborazioni di dialogo (2008), ma nuovamente anche le elaborazioni di riscontro più ravvicinato che ha realizzate ed esposte trent'anni fa. Anzi di fronte alla maestà plasticamente miniaturizzata dei testi antichi il confronto, vivificando dunque l'occasione d'un autentico fronteggiarsi creativo fra passato e presente, si svolge qui maggiormente proprio fra i modi assai diversi, eppure riconducibili entro la continuità d'un percorso evolutivo, nella costituzione d'immagine quanto persino sotto il profilo materiologica, dico fra i modi chiaramente assai diversi nei quali le due fra di loro remote occasioni di dialogo con l'antico si sono realizzate. Ma appunto il dialogo vero, più significativo, e se vogliamo più decisivo, copme senso di questa sua particolare "uscita" espositiva, è proprio quello che si articola nel confronto fra la diversità, a distanza trentennale, di tali modi.
Cerchiamo dunque di annotare qualche aspetto di questa diversità, assumendo la quale sarà possibile rendersi conto non soltanto di due significativi momenti del fare plastico di Oste nel tempo, ma anche proprio di percepire la complessiva distanza che concretamente si manifesta attraverso un processo evolutivo innovativo dallo scultore percorso in questi suoi trent'anni di lavoro.
Erano intitolate all'insegna di "Ipotesi di restauro" le proposte di dialogo diretto con alcuni degli avori medioevali salernitani realizzate ed esposte verso la fine degli anni Settanta. In quanto proponevano la citazione, plasticamente metabolizzata nel bronzo argentato, originariamente di calchi di quegli avori, riofferti come si trattasse di reperti di un intervento plastico di restauro. Che, estrapolandoli dalla mera citazione revivalistica, li riproponesse quali oggetti plastici nuovi attraverso una determinante loro interlocuzione, dice ora Annibale, "con strumenti di lavoro per il restauro, come stringenti, assi di legno, funicelle e quant'altro".
Rappresentava dunque un modo di appropriazione e riproposizione in una condizione contestuale nuova, plasticamente appunto oggettualizzata, riportata a quell'ordine di fisicità fattuale attorno al quale era cresciuta l'immaginazione plastica di Oste. Vi si potevano infatti riconoscere le premesse di una matrice alla quale (lo scrivevo mesi fa nel catalogo della sua stimolante antologica in Villa Ruffolo a Ravello) appariva esistenzialmente e culturalmente dall'origine Oste legato, attraverso un dialogo sottile con una tradizione plastica napoletana e campana configurabile a ritroso, azzardavo, in una linea Lista, D'Orsi, Gemito, risalendo tuttavia fino alle molteplici lezioni di evidenza realista del Museo archeologico napoletano: dalla precaria disponibilità della figura alla rigida compostezza dell`utensileria pompeiana. E al tempo stesso anche uno sguardo del tutto avvertito della problematica del riscontro testuale sull'oggetto nell'ambito delle avanguardie dette allora "storiche".
Un confronto plastico, in quelle "Ipotesi di restauro", svolto non idealmente ma oggettualmente, mimando fra nostalgia d'antichi virtuosismi, e sottile ammiccamento ironico, appunto una occasione di impostazione di restauro, reimmaginando insomma il piccolo rilievo che ricalcava l'avorio antico in ruolo di protagonista d'una operazione in atto di finto restauro di mentalità storicistica, che sostituiva la vistosità del bronzo argentato alla metafisica raffinatezza, quasi spettralmente ideale, degli avori antichi. Un ammiccante esercizio di citazione-confronto attraverso la sua iscrizione in una riproposizione oggettuale testuale, da "ready-made". In realtà un confronto fra fattualmente nostalgico e pragmaticamente ironico tra due possibili utilizzi del "già fatto", a più o meno millenaria distanza: il testo antico, testualmente riletto tal quale, nelle sue movenze plastiche, e l'utensile da restauro, testualmente citato. Due atti d'invenzione mimetica connessi a frizione di storia, dunque: nella nostalgia dell'antico, nel fascino del quotidiano, nell'evocazione del mestiere, ma anche nell'implicita ironica denuncia di fideismi anacronistico-citazionistici allora circolanti.
Nelle "sette sculture e due ‘opere mobili'", recentissime che ora Annibale qui presenta, nella magnifica occasione della mostra salernitana degli avori medioevali, l'impostazione risulta sostanzialmente diversa. La citazione non vi è più infatti testualmente integrale, o vi si propone apparendola tale, ma opera a prelievo di un particolare, considerato significativo, iconicamente, o formalmente, risolvendosi poi nell'offrire tale prelievo entro un contesto del tutto reinventato in una sua sostanziale neutralità. Un prelievo e una destinazione simbolica per essere riproposto, quel prelievo di particolare anche molto circoscritto, funzionalmente ad un nuovo contesto di cui diviene iconicamente protagonista, e da Oste definito "piano", un piano di narrazione: "il piano su cui si sviluppano le storie, fatte di appunti e di simboli", "il luogo dove poter raccontare". Raccontare sincopatamente attraverso la capacità allusiva, spesso tutt'altro che esplicitata e forse proprio soltanto inventivamente pretestuale, del particolare prelevato ed emblematicamente destinato a protagonista del piano di narrazione. Che è un campo cromaticamente acceso, come resosi possibile attraverso il subentrato uso della vetroresina, che è la nuova materia plastica capace di offrire ormai da molti anni a Oste illimitate possibilità sia di espansione ambientale sia di caratterizzazione oggettuale e d'elementi d'arredo, come i suoi straordinari mobili.
E proprio a questi si connettono appunto le due "opere mobili" che completano la mostra: sorta di mobili-tabernacoli nei quali la citazione, questa volta testuale, a formella, di testi degli avori antichi, indubbiamente dunque d'origine sacra, si sfoca tuttavia di fatto in una dimensione di disincantata citazione fruitiva d'antico preziosamente corrente, in una sorta di laicizzante storicismo artistico prestigiosamente ornativo. Una presenza del sacro che entra insomma nella quotidianità d'una raffinatezza del tutto inusuale nella qualità delle componenti ambientali.
Riconnettendosi dunque idealmente alle presenze plastiche ambientali più particolari che (ricordavo sempre nel testo di Ravello) vanno da maniglie e altri accessori, oppure oggetti (vasi, per esempio) appunto mobili artistici unici (mobili colombari, tavoli, sedili) di grande qualità e immaginati con una sapienza, puntualità e dedizione artigiana pre-design e al tempo stesso con una intelligenza progettuale che presuppone ma supera come qualità inventiva la mera cultura del design funzionalistico (post-design perciò).
Questi i termini di diversità di due occasioni di dialogo con l'antico riproposte a reciproco confronto nella straordinaria occasione della mostra salernitana dei capolavori eburnei mediovali.



L'enigma degli avori medievali da Amalfi a Salerno
Salerno - Museo Diocesano
Dal 20 dicembre 2007 al 30 aprile 2008
Presentazione della più vasta e completa serie di opere eburnee del Medioevo cristiano esistente al mondo

Una mostra e un itinerario dedicati alla scoperta della città medievale ricostruiscono un periodo storico che vide protagoniste le città di Amalfi e Salerno nel quadro artistico-culturale europeo.

La mostra, promossa e sostenuta dall'Assessorato al Turismo ed ai Beni Culturali della Regione Campania nell'ambito del programma dei grandi eventi attuato anche con risorse europee, è organizzata dalla Soprintendenza per i BAPPSAE di Salerno e Avellino e dal Ministero per i Beni e le Attività culturali. Essa, curata da Ferdinando Bologna, si propone di ricostruire un capitolo fondamentale dell'arte del Medioevo europeo al culmine della sua maturità: quello che, con riguardo particolare alla scultura in avorio, si svolse, fra la fine del secolo XI e la prima metà del XII, nelle regioni italiane gravitanti sul Mediterraneo occidentale. Un capitolo dell'arte medievale che ebbe per sedi privilegiate dapprima il Ducato di Amalfi, quindi la città di Salerno ai tempi in cui questa ascese, con l'avvento di Roberto il Guiscardo, a centro creativo e punto di riferimento politico-culturale dei già vasti dominii normanni.

il nucleo della mostra è costituito dal complesso di sessantasette tavolette d'avorio scolpito, che si conservano nel Museo diocesano di Salerno, appartenenti a un arredo liturgico di funzione e destinazione tuttora discusse, ma eseguito senza dubbi per la sede episcopale di Salerno. Tale insieme di bassorilievi ha subito nel tempo numerosi spostamenti, scomposizioni e ricomposizioni, da cui sono derivate anche dispersioni, vendite indubbiamente illecite e trasferimenti in sedi disparate.

Scopo della mostra è: radunare intorno al nucleo principale conservato a Salerno anche tutti gli altri elementi oggi presenti in musei e collezioni del mondo e giungere ad un'attendibile e realistica restituzione di ciò che dovette essere l'area artistico-culturale di Amalfi sul finire del secolo XI.
La mostra si propone anche di integrare il quadro artistico amalfitano-salernitano, conosciuto prevalentemente nelle sue espressioni di carattere precipuamente liturgico-religioso e di esclusiva destinazione ecclesiastica, con la presentazione di alcune importantissime opere d'arte in avorio che hanno invece carattere puramente laico.
Di destinazione signorile e ludica e d'ispirazione profana sono in particolare una selezione di rari e bellissimi pezzi di giuoco degli scacchi e una scelta di corni da caccia, solitamente detti "olifanti".

Le opere in mostra provengono da: Berlino, Boston, Budapest, Londra, Maastricht, New York, Parigi, Rouen, San Pietroburgo, Vienna, Zaragoza, Zurigo, Bologna, Celano, Farfa, Firenze, Milano, Napoli, Montevergine, Venosa

La ricca iconografia presente nelle tavolette degli avori e i particolari architettonici in esse riportati hanno suggerito la realizzazione di un itinerario medioevale all'interno del centro antico di Salerno per rintracciare ed interpretare i collegamenti e le suggestioni stilistiche e culturali del contesto storico in cui furono realizzate. La Soprintendenza ha predisposto visite guidate gratuite al percorso storico, affidate alle Associazioni culturali salernitane Erchemperto, Gruppo Archeologico Salernitano e Il Centro Storico; per usufruirne è obbligatoria la prenotazione ai numeri 089 2573245 / 213