Design

Tre designer per un artista

di Claudio Gambardella

La pagina bianca è, nei libri, l’unica cornice ammessa dalla sensibilità estetica del Novecento. Un Paolo Uccello, un Pontormo, un Guido Reni, un Redon, come le più vicine opere di Rosenquist o di Haring, nel museo di carta come in quello ipertestuale, subiscono lo stesso trattamento. E nell’arte moderna e contemporanea la cornice non ha più senso. Viene avvertita come un’inutile sovrastruttura. La parola stessa provoca una reazione negativa e un po’ snob. E la si immagina inghiottita nella discarica globale in cui sono finite parole, concetti ed oggetti dell’altro secolo la cui obsolescenza pesa più del valore salvifico della storia, decretandone l’inutilizzabilità da parte della cultura (presente). Rottami di una società famelica che al momento vagano in un limbo in attesa che il tempo, forse, li traduca nell’alveo di un patetico modernariato in cui riflettiamo la nostra immagine di uomini incerti, più attratti da un passato consolatorio che da un futuro che mette i brividi.

Quando l’allestimento, rispetto all’800, lentamente acquista il rigore di una disciplina, i quadri appesi in alto alle pareti delle stanze dei collezionisti dovevano ora scendere ad altezza d’uomo, distanze standard venivano fissate tra le opere esposte, ai damaschi delle tappezzerie si sostituiva la pittura bianca, lo sviluppo dell’arte moderna, passando per l’esperienza impressionista che prediligeva cornici di legno naturale perché interferivano meno con il dipinto, mette definitivamente in crisi l’impiego della cornice. Le "architetture tipografiche" di Depero, l’opera di Ivan Puni, Der Sturm - presentata nella Gallerie Sturm a Berlino nel 1921 - che ricopriva ogni elemento architettonico della parete con lettere, disegni, figure, numeri, dipinti e forme geometriche, o l’Ambiente dei Proun di El Lisitskij, alla Grande Esposizione di Berlino del 1923, in cui tutta l’opera si espandeva dal piano verso lo spazio, coinvolgendo il pavimento, le 4 pareti ed il soffitto, fanno cadere, anche in tutte le altre opere, la necessità di un raccordo tra spazio del dipinto e spazio architettonico. Le pareti bianche diventano come le pagine dei libri d’arte. Dall’epopea del gotico, con le cornici dei polittici sormontate da pinnacoli in stucco dorato, al Rinascimento, quando i dipinti erano posti dietro una sorta di facciata trasparente - una trabeazione o una lunetta istoriata in alto, esili pilastri in basso -, al Cinquecento delle Sansoviniane, decorate con maschere, festoni e ghirlande, alle "Salvator Rosa" del ‘600, si assisteva per la prima volta ad una vera rivoluzione. I dipinti che, in passato, incorniciati da portali, finestre, o facciate, sfondavano le pareti occhiute, ora secondo un processo inverso, nel ‘900, si staccano dal fondo neutro dei muri, in musei e gallerie, diventano apparizioni in 3D, tendendo più all’ologramma che al consueto piano bidimensionale del quadro, si proiettano nello spazio dell’osservatore, ostentando spesso lo spessore disadorno e nudo della tela.

Fatta eccezione per rarissimi casi, dove la cornice è quella di uno specchio o di un portaritratti, quindi con dimensioni e funzioni diverse rispetto a quello di cui si sta scrivendo, il design ha sentito così di trascurare questo complemento dell’arredo domestico. Tavoli, sedie, divani, lampade, caffettiere, armadi, guardaroba, poltrone, bicchieri, specchi, vasi, piatti, ma cornici, niente. È ancora l’artigiano che continua ad occcuparsene. Con il cliente stabilisce finiture, a volte materiali, colori e dimensioni secondo un cliché costruttivo invariato negli anni.

Ma, allora, ha senso progettarle ancora? Oltre al problema strettamente pratico - appendere un quadro alla parete, esiste la necessità di stabilire una connessione tra un’opera ed un ambiente? Circoscrivere lo spazio dell’immagine, farla venire fuori, aiutare a guardarla, favorire un rapporto privilegiato con un prodotto comunque appartenente alla dimensione estetica, fermare il fluire del tempo pratico per entrare in un tempo interiore? Sì, se ha senso ancora introdurre l’arte nella casa. Non si tratta, evidentemente, di rimettere indietro le lancette dell’orologio, ma semmai di conferire un senso nuovo ad un oggetto entrato in disuso, perché quelli di un tempo non rispondono più ad un certo modo di dialogare con l’arte di oggi.

L’operazione "tre designer per un artista", promossa dall’Istituto Italiano del Design e dal Laboratorio di Grafica & Design, è articolata in tre eventi distinti nel tempo e secondo la stessa formula. Ogni volta, tre designer si proveranno a disegnare una "cornice" colloquiando con il lavoro di un artista. La manifestazione è stata realizzata in collaborazione con Ferrari - lo showroom napoletano di arredamento che da anni in città è uno spazio di diffusione della cultura del progetto - e con l’azienda di marmi, pietre e graniti, Roberto Boemio di Afragola. Ed un aspetto importante è, appunto, quello del materiale individuato, insolito per quest’oggetto, ma

non per l’arredamento in genere. Si pensi, ad esempio, alla libreria di Andrea Branzi per Cassina, ai tavoli di Lodovico Acerbis e Giotto Stoppino per Acerbis International, di Antonia Astori per Driade, di Guido Canella per B&B Italia, di Ignazio Gardella per Misura Emme, o di Angelo Mangiarotti per Skipper, o alla famosa lampada "Arco" di Castiglioni per Flos. In un’ipotesi produttiva, che impone il contenimento dei costi anche sulla spedizione, i materiali lapidei, che nella casa (o anche nei luoghi di lavoro ed in quelli pubblici) convivono bene a fianco del vetro, dell’acciaio, delle plastiche, del legno, dell’alluminio, ecc., sembrano più adatti ad essere impiegati in minima parte in un elemento di arredo o a costituire il materiale base di oggetti piccoli e complementi. Il marmo, la pietra, il granito, secondo le scelte degli autori, riportano senza indugi la cornice sulla scena del design. E l’azienda, che ha avuto il merito di aprire una strada di ricerca, non immediatamente calata nella produzione e perciò diversa da quella consueta che va dalla lavorazione di pavimenti e rivestimenti, alla realizzazione di tavoli (come pezzi unici) e caminetti, potrà alla conclusione di questo ciclo di mostre raccogliere in una collezione gli oggetti progettati da nove designer.

Il primo di questi appuntamenti, con Riccardo Dalisi, Claudio Gambardella e Annibale Oste, è dedicato ai disegni di Rosamaria Cerbone che, dopo molti anni dalla sua prima mostra, ha rotto gli indugi e ha sentito l’esigenza di una nuova occasione di confronto. Questo saper aspettare e questa discrezione sono qualità umane preziose e rare in un ambiente, quello dell’arte, ma anche del design e della moda, che spesso premia estemporanee presenze senza storia e senza quella dedizione che Rosamaria Cerbone ha interamente trasferito nelle sue composizioni, con fare attento, meticoloso, indagatore.