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Jean Prouvé. La poetica dell'oggetto tecnico. Introduzione di Bruno Reichlin

Maison du Peuple di Jean Prouvé

La fama sempre crescente di cui gode Prouvé non deriva da un oggetto icona, o da qualche straordinaria iniziativa capace di impressionare il pubblico più vasto: la poltrona Wassily di Breuer, l'"unità abitativa" di Le Corbusier, i prismi di acciaio e vetro creati da Mies van der Rohe. Non si può neppure dire che la visibilità di Prouvé sia il risultato di una sapiente gestione promozionale, di cui furono capaci Le Corbusier, Perret e molti altri, e neppure che derivi da un fenomeno di autoreferenzialità tipico di certi accoppiamenti celebri, tipo Gropius e Bauhaus. Se oggi l'opera di Prouvé suscita maggiore interesse, come appare da recenti cataloghi e mostre che gli rendono omaggio, lo si deve in gran parte a una rinnovata attenzione per tutto ciò che in architettura si fa rientrare alla rinfusa nel concetto di "tecnica": può trattarsi sia dell'uso "innovativo" di materiali e tecniche derivati dalla produzione industriale "di punta", sia di competitività dei costruttori, sia di forme che si richiamano all'immaginario tecnologico (per esempio il lato fantascientifico dei videogiochi), o ancora dei contenuti ideologici e valori morali veicolati da un simile immaginario.
Che si tratti anche, in parte, di un fenomeno del gusto, piuttosto irriflessivo e alquanto frivolo, è confermato da vari esempi: la passione dei collezionisti per certi mobili o per altre "reliquie" di Prouvé, il fatto che un capolavoro come la Maison du peuple (Casa del popolo) di Clichy (una creazione collettiva di Beaudouin, Lods, Prouvé e Bodiansky), unico nella polivalenza funzionale e nell'ingegnosità tecnica che ne hanno guidato la costruzione, sia percepito soltanto come un precursore dello show tecnologico del Centre Pompidou; o ancora, l'uso ideologico che si è fatto del Village Prouvé, il Villaggio Prouvé allestito lungo il bacino dell'Arsenale a Venezia nella Biennale di architettura del 2000, così da dar modo alle anime belle di intonare in coro: "gentaccia da poco, voi occupatevi di etica, l'estetica è affar nostro".
È così. Una volta, quando si "costruiva in modo corretto", secondo l'espressione consacrata di Pier Luigi Nervi, il bello aureolava il vero con il suo "splendore"; mentre oggi chiunque aspiri alla nobilitazione estetica, tanto per cominciare dal facile, farebbe bene a dimenticarsi di "costruire secondo scienza e coscienza", poiché il bello è diventato innanzi tutto spostamento e trasgressione.
Il corretto e un po' ingenuo Jean Prouvé si sarebbe forse sentito solidale con Nervi, che ammirava. Ma sono le stelle dell'high tech ad averlo scelto come nume tutelare.
Una mostra, un catalogo, non sono certo il luogo ideale per una dissezione di queste molteplici "oscillazioni del gusto" (Dorfles), ma l'opera di Prouvé e la sua cultura tecnica offrono l'opportunità di illuminare il pubblico - e noi stessi - sugli aspetti, le ragioni, i problemi e gli interrogativi, le passioni, o al contrario i lampi del pensiero, che complessivamente riguardano il nostro rapporto con la dimensione "tecnica" dell'oggetto costruito. Tutto quel che avrei voluto sapere su Jean Prouvé e la tecnica: ecco il tema proposto dagli autori, per la gioia della mente e dei sensi.
Detto questo, occorre poi segnalare che in architettura, quando si scrive di "tecnica" senz'altra precisazione o dichiarazione d'intenti, si designano almeno tre "oggetti" diversi: - la costruzione intesa nel suo aspetto materiale, e quindi la struttura e il suo guscio, i materiali e i dispositivi tecnici che si collegano a essa, le installazioni come pure le modalità di fabbricazione e il procedimento di messa in opera; - l'immagine "tecnica" dell'opera, vale a dire ciò che nell'opera compiuta è dato di vedere e comprendere della sua costruzione. Di fatto si tratta della dimensione espressiva, un tempo (e ancor oggi, se si esclude ogni connotazione prescrittiva e normativa) indicata con il termine "tettonica": tettonica delle forze e tettonica del montaggio; - il complesso dei saperi, dei metodi e degli strumenti di cui gli architetti (gli ingegneri e i costruttori) si sono dotati per occuparsi in modo razionale ed efficace della concezione, e quindi dell'innovazione e della creazione, architettonica. Un complesso che risponde a un insieme composito di vincoli interdipendenti, strutturali o funzionali che siano: i primi si riferiscono all'oggetto in quanto tale, e quindi alle parti che lo compongono, alla loro coesione e organizzazione, mentre i secondi riguardano l'utilità dell'oggetto: la distribuzione, l'uso fattuale e culturale, il costo ecc.
Si tratta di un complesso di competenze destinate sia a migliorare il prodotto, sia, e soprattutto, ad accrescere la competitività degli ideatori stessi. L'attenzione verso le migliorie tecniche applicabili al pensiero ideatore è senza dubbio caratteristica del modo di "gestire" il lavoro intellettuale quale si è configurato tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo: una gestione che in architettura ha assunto a modello sia l'attività e la sperimentazione artistiche (per esempio con il Bauhaus), sia la ricerca scientifica e tecnologica (per esempio con la Hochscule für Gestaltung di Ulm). Quindi nella mostra e nel catalogo occupano una posizione di primo piano le tecniche che costituiscono lo specifico del pensiero creatore, delle strategie di concezione, della cultura tecnica di Jean Prouvé.
Pensare per sinergie, per transfert concettuali e per analogie, per sistemi (di montaggio), per procedimenti (di fabbricazione e di montaggio), valutare il potenziale dei macchinari di cui si dispone, ideare gli utensili nello stesso momento in cui si concepiscono i prodotti, saggiare il potenziale dei diversi materiali disponibili mentre si opera in anticipazione dei materiali futuri: è questo il pensiero tecnico in azione. La cattedra tenuta da Prouvé nel Conservatoire national des arts et métiers, la grille CIAM imperniata sui dati tecnici della costruzione industrializzata, la documentazione sui suoi brevetti più rappresentativi completano la presentazione dell'apparato produttivo, dei macchinari e dei procedimenti, delle tecniche, senza i quali non sarebbero state né ideati né prodotti le tavole, le strutture, le case e i mobili oggi così ricercati.
È evidente che Prouvé, quando risponde all'invito a comparire in un dizionario dell'architettura affermando di non essere né architetto né ingegnere, bensì "uomo di fabbrica", vuole rimarcare la propria diversità. Una diversità che oggi ci permette di raccogliere la feconda ambiguità del collegamento fra cultura architettonica e cultura tecnica.
L'espressione "uomo di fabbrica" è un chiaro riferimento alla scelta del costruttore Prouvé, il quale, pur avendo deciso di produrre per la costruzione e di collaborare con gli architetti, si identifica con il pensiero tecnico-scientifico sotteso all'industria, e non all'immaginario tecnico dellarchitetto suo' contemporaneo. La progressione che partendo da rue du Général Custine a Nancy arriva fino agli Ateliers Jean Prouvé (Laboratori Jean Prouvé) di Maxéville si iscrive nell'ambizioso progetto di una produzione di edifici degna dell'industria moderna, con un suo "ufficio studi" che studia e mette a punto i prototipi, con un ufficio commerciale incaricato di sondare i mercati. A una simile struttura della produzione corrispondeva, con logica perfetta, il modello "globale" del "prefabbricato a circuito chiuso", prodotto in grande serie.
Il senso di frustrazione (o di fallimento?) provato da Jean Prouvé nel momento in cui dovette lasciare Maxéville nasceva forse anche dal fatto che all'"arcaismo" dominante nell'edificio, e nel lavoro dell'architetto in generale, quella fabbrica contrapponeva un modello alternativo più moderno e più efficace, anche nella produzione di conoscenze e innovazioni. Da questo punto di vista, la fabbricazione di pannelli, di portali e di mobili in lamiera ondulata costituisce al tempo stesso la prova e il simbolo di una simile diversità, perché pensare una costruzione in lamiera sagomata senza una organizzazione produttiva come quella messa in piedi da Prouvé non ha nessun senso. Ma l'avventura di Prouvé non era finita con l'abbandono di Maxéville.
Rimasto privo del rapporto immediato fra ideazione e sperimentazione che gli era offerto dalla contiguità fra il proprio "ufficio studi" e la fabbrica, condannato a limitarsi alle sole risorse offerte dal disegno, e spesso al ruolo di esperto o di ingegnere consulente, costretto a pensare in termini di componenti "isolati" quel che nella sua concezione era un tutto sinergico, Prouvé, in condizioni di prostrazione fisica e dal punto di vista morale nello stato di chi, secondo l'immagine di Le Corbusier ha subito un "taglio delle mani", proprio in quel periodo crea uno per uno alcuni dei suoi capolavori: la propria casa di Nancy, il Pavillon du centenaire de l'aluminium (Padiglione per il centenario dell'alluminio), la Maison des jours meilleurs (Casa dei giorni più felici) per l'abbé Pierre, la Buvette di Évian.
Che cosa era accaduto in quel periodo? Non sarebbe possibile approfondire l'argomento in questa sede, e dunque ci limiteremo a riportare una riflessione della figlia di Prouvé, Catherine, che rievoca il clima familiare e i quotidiani affanni vissuti in quegli anni di rottura. Prouvé era in preda a una fortissima collera, ma è possibile che la perdita di Maxéville lo avesse indotto a revisionare i suoi "mezzi di bordo". Nel presente, era stato sollevato dal peso della responsabilità di assicurare la continuità quotidiana della produzione, che costringeva a cumulare gli incarichi e imponeva le fatiche di una struttura da lui stesso voluta in larga misura partecipativa, e soprattutto implicava una rigorosa delimitazione del lavoro creativo. Oggi sappiamo che le difficoltà incontrate nel rapporto con gli amministratori erano in parte dovute all'eccesso di libertà con cui (secondo loro) Prouvé si occupava degli obiettivi immediati, in qualche modo iscritti nel "patrimonio genetico" dell'impresa, ossia i brevetti e le competenze di cui disponeva, i macchinari che dovevano funzionare a rendimento pieno ecc. Un sistema tecnico-industriale può generare logiche sue proprie, che a lungo andare possono costituire un intralcio psicologico ed epistemologico per l'attività creativa.
Invece la perdita della fabbrica autorizzava Jean Prouvé - per non dire che lo costringeva - a pensare tenendosi del tutto al di fuori della "meccanica" (in senso proprio e figurato) del sistema.
Tutto ciò è forse sufficiente a spiegare le forme "eleganti", le scelte statiche "eterodosse", l'affascinante eterogeneità di materiali e di tecniche ai quali si deve il particolarissimo fascino della Buvette di Évian e della casa di Prouvé a Nancy?
Noi sappiamo - e di certo Prouvé non ci avrebbe contraddetto - che l'architetto degli anni cinquanta e sessanta del Novecento, quale egli è stato, si sentiva tanto più libero in quanto misurava la fragilità delle conoscenze, la mancanza di certezze e lo scarso peso etico di un mestiere che faticava a considerarsi tale. E dunque Prouvé, trovandosi suo malgrado nella stessa situazione, avrà forse provato le stesse vertigini suscitate da un "eccesso" di disponibilità, ma le avrà esorcizzate con un fuoco d'artificio di innovazioni costruttive? Il fatto che molti anni dopo, nel ridisegnare a memoria la bella struttura di Évian, ne abbia "corretto" i dettagli, suggerendo l'impiego della lamiera ondulata, potrebbe certo essere interpretato come un soprassalto di coerenza.
È una scelta espressiva anche la sua predilezione per le strutture a "nodi rigidi", che si materializzano in forme di pari resistenza, come le eloquenti stampelle (in senso visivo): forme che spiegano così bene la resistenza opposta al peso e ad altre forze. Lo attesta l'interesse dimostrato da Prouvé per l'architettura di Niemeyer quando, nei corsi che teneva al CNAM, disegnava e commentava i pilastri di cemento armato, a "nodo rigido" del palazzo dell'Aube (1957), o ancora la torre Pirelli di Nervi e quella di Giò Ponti, dalla struttura interna che si va assottigliando verso l'alto. Alcuni schizzi di Prouvé per la stampella di Évian sembrano perfino cimentarsi nell'elegante gesto grafico di Niemeyer, con cui quest'ultimo avrebbe realizzato a Parigi le sinuose facciate della sede del Partito comunista francese (1967-1980). Nei corsi al CNAM Prouvé non si limitava a rivisitare le genealogie e i sistemi dell'universo tecnico, ma intrecciava un colloquio a distanza con gli architetti, gli ingegneri, i costruttori che lo interessavano, ridisegnandone le opere e analizzandole a fondo. Essendo, come Taine (che lo aveva teorizzato), persuaso che l'architettura sia soprattutto un'arte collettiva, e, come Julien Guadet, convinto che sia "l'espressione di una condizione sociale, perché al di là dei programmi specifici c'è il programma dei programmi, la civiltà di ogni secolo", Prouvé seguiva le proprie idee, anche nell'opera altrui, e reciprocamente, nella sua obbedienza a questo spirito programmatico, aveva dedicato la propria opera, gli archivi e i brevetti, al patrimonio collettivo dei suoi Ateliers.

Jean Prouvé. La poetica dell'oggetto tecnico
Roma - Museo dell'Ara Pacis
Dal 20 giugno al 14 settembre 2008