Design

Un designer deve essere povero
Dialogo con Giuseppe Fiordoro
di Aldo Micillo

Non dirò molto per introdurre questa intervista, al fine di non intasare l'attenzione con notizie meno significative delle risposte di Giuseppe Fiordoro, ma invito sentitamente il lettore ad andarvi fino in fondo: mi sembra che vi siano espressi pensieri che possano toccare qualcosa dentro e farla vibrare.

Ricordo che ho avuto l'occasione di conoscere Giuseppe Fiordoro cinque anni fa, quando mi raccontò e mi diede del materiale interessante relativo al suo modo "artistico" di insegnare, ma questa è un'altra storia. Da allora, nella sua ricerca continua, mi sembra abbia maturato ulteriormente una sensibilità che gli appartiene caratterialmente e che, nelle sue parole trascritte in seguito, riesca ad arrivare con un'immediatezza sconcertante al cuore dell'"Altro".

Egli dice che il designer, l'artista devono essere "poveri": mi chiedo quanto valga ciò per un architetto, come si possa conciliare con alcuni modi di interpretare la professione, oggi in auge. Le parole di Fiordoro sembrano dare indizi...

Lontano dalle luci sfavillanti della ribalta, lontano dalla ricerca avanguardista copiata acriticamente in dimensioni provinciali, indicando un ritorno per andare avanti, un togliere invece che aggiungere, un cercare dentro prima che fuori, ecco l'erbetta fresca, il riposo e la povertà francescana che Giuseppe Fiordoro ci ricorda, ci indica...

Aldo Micillo. Le caratteristiche principali della tua attività artistica, i suoi aspetti positivi, i suoi limiti, la direzione della tua ricerca…
Giuseppe Fiordoro.
Sono stato "in mostra" quattro volte: Icone del mare (disegni, vetri, libro-serigrafia, plexiglas) a Intra Moenia, Napoli 1999; Icone ai filosofi (disegni, vetri e T-shirt per Massimo Cacciari, Bruno Forte, Salvatore Natoli) alla libreria Treves, Napoli 2000; Il più spesso mare (acqueforti e xilografie) ancora alla Treves, Napoli 2001; Due Two (carte, terrecotte, mosaici e plexiglas) a La Stanza del Gusto, Napoli 2002. Ma la mia prima mostra è stata Lettera a Giorgio Armani (libricini con foto di famiglia rielaborate e dedicate al grande stilista accompagnavano disegni-ritratti eseguiti da mio padre Franco, pittore). Ogni volta ho cercato di semplificare le mie piccole cose. Vorrei essere semplice, essenziale, nudo, silenzioso, riposato, rinfrescato, rinfrancato…

A. M. Mezzi e materiali con cui operi…le nuove tecnologie…
G. F.
Mi piacciono la terracotta, il vetro, il ferro arrugginito, il plexiglas, la carta, tutta la carta, il lino, la lana, il cotone. Il computer, invece, è per me solo una macchina da scrivere…Il materiale deve essere riposante, deve farmi riposare…Il lino naturale di alcuni arazzi cuciti in Sardegna sembra avere dentro le foglioline, l’albero, la natura…I ragazzi dell’Istituto d’arte di Penne (Pescara) stanno costruendo nella loro scuola un altro arazzo da un mio disegno…lana e cotone con telaio a mano…I telai a mano, antichi, i fili tesi come corde…I rulli e le macchine antiche del Laboratorio di Nola per le acqueforti e le xilografie, i forni delle vetrerie, il forno di Filippo Felaco in via dei Tribunali a Napoli per le terrecotte…Il materiale dice da solo, parla e ascolta, ascolta e parla…L’artista, invece, deve solo ascoltare…

A. M. Nelle tue opere sembri mirare all’essenzialità, alla comunicazione nuda e scarna di uno o due messaggi, con il risultato che esse ne acquistano in chiarezza ed efficacia espressiva. Vi sono anche più livelli di lettura? In che relazione con il fruitore tenta di entrare la tua opera?
G. F.
Bisogna dire poco; due cose sono già troppe…forse una è superflua. Un giorno lo scultore Giacometti ottenne l’incarico di realizzare una scenografia per il teatro. Costruì un albero rinsecchito con qualche ramo e qualche foglia. Durante le prove, tra le generali proteste, sfrondò l’albero ed eliminò anche un paio di rami…La ricerca non deve sorprendere col virtuosismo o l’esibizione: non è il circo. L’opera deve accarezzare e farsi accarezzare e sfrondare, deve essere paziente…

A. M. È presente nelle tue opere una dimensione mitica? Come frequenti questo aspetto a livello personale? Come lo utilizzi nelle tue opere?
G.F.
Il mito, il sacro sono dappertutto…Semplificare per tornare all’origine, per guardare dappertutto e farsi guardare…Il rapporto col mito, col sacro ha due premesse, dicono gli storici delle religioni: l’attenzione e la distanza…Ecco cos’è rapporto col mito, col sacro, con l’Altro, ma anche con qualsiasi altro: attenzione e distanza…L’attenzione come frequentazione, ascolto, desiderio dell’altro…La distanza come orizzonte, spazio del forse (direbbe Bruno Forte), desiderio di non dominare l’altro…

A.M. Come si concretizza una tua opera: ideazione, progettazione, realizzazione…
G.F.
Leggo, ascolto, guardo, lavoro, riposo, riposo, riposo…La lettura, l’ascolto, lo sguardo, il riposo sono il desiderio di un dono…Creare è un dono…Progettare è un dono…Inventare è riconoscere un dono donato…

A:M. Quali aspetti hanno più importanza: la creatività, la composizione formale, la struttura narrativa, il contenuto concettuale, il linguaggio e l’espressione…, e come li relazioni nel tuo operare?
G.F.
Un’opera è la sintesi di tutti questi elementi, ma deve nascere e crescere in naturalezza…Il problema della lingua, dell’espressione, della poesia, dell’arte e forse anche dell’architettura non è un fare, un costruire, ma un avvicinarsi all’origine, un riconoscere…

A.M. Che peso hanno nelle tue opere gli aspetti figurativi? La relazione con lo spazio? Con il tempo? Con la parola scritta?
G.F.
Gli aspetti figurativi li sto man mano eliminando…Meglio, stanno andando via da soli, lentamente ma decisamente grazie anche all’incontro-amicizia con Renato Barisani e la sua opera…Il colore è bello perché è colore…Una forma è bella non perché ha un significato preciso…Qualche tempo fa c’erano anche le parole su alcuni disegni…Non ci sono più…Però anche le parole sono belle, hanno un valore magico perché ci permettono di stare al mondo, di relazionarci…Ma parole, colori, forme devono essere come sospesi, devono fermare l’aria come i versi dei poeti…

A.M. Il ruolo dell’artista oggi: i campi di competenza, di azione, l’utilità dell’arte nella società attuale…
G.F.
Il ruolo dell’artista è fondato, impresso nell’inutilità della sua ricerca…Più la ricerca è inutile, disincantata, dimenticata dai circuiti ufficiali più può essere profonda…Un designer deve essere povero…Un artista deve essere povero…Ogni ricerca più è lontana dai centri del potere culturale più ha la possibilità di nascere e vivere libera, spontanea, naturale…Il ruolo dell’arte è fare l’erbetta che cresce nei campi da sola grazie al sole, al vento, alla pioggia…Erbetta calpestata, ruminata, spizzicata…Erbetta bagnata …Erbetta letto per chi è stanco…Erbetta di dolore e di bellezza…Erbetta piena di cacca e di rugiada che ringrazia Dio…

A.M. La relazione tra le varie arti e con l’architettura…Esiste qualche traccia di sperimentazione in tal senso in qualche tua opera?
G.F.
È bello il dialogo tra architetti, artisti, filosofi, teologi…È interessante ascoltare intrecciando le ricerche…Icone del mare era ispirata alle parole sul mare di Mario Luzi, Raffaele La Capria, Claudio Magris; Icone ai filosofi era un omaggio a Massimo Cacciari, Bruno Forte, Salvatore Natoli ed ospitava un dialogo con Riccardo Dalisi; ne Il più spesso mare i miei segni incontravano i suoni di Marco Zurzolo, le parole di Erri De Luca e la voce di Cristina Donadio; il tema di Due Two è stato proprio cos’è rapporto tra artisti (io, l’umorista Paolo Del Vaglio, Elia Fiorillo), teologi poeti (Bruno Forte). Cos’è rapporto tra due? E con Dio? E con la persona amata? E con tutti? L’architettura come costruzione di spazi interiori è mestiere di tutti; architettura come sottrazione, rigore, cornice, rispetto dell’aria che vaga libera e accarezza e riposa e batte sulle teste delle persone che passeggiano o sostano dovunque…Le mie recenti sculture in plexiglas sono architetture in dialogo, porte o cornici con fessure…due strutture (una piena una vuota) che si cercano a una voce (Attilio Bertolucci)…Molte mie opere nascono a una voce attraverso la collaborazione coi miei fratelli Paolo e Lucio, architetti. Mi piacciono l’architettura e l’arte come parole sommesse, rispettose, pudiche, inoperose, ritrose, vergognose…Strutture che quasi si vergognano ed aspettano di essere invitate…

A.M. C’è un problema di fruizione dell’arte e di inadeguatezza dell’attuale concetto di museo, proprio mentre vengono varati grandi progetti di musei di arte contemporanea (Guggenheim a Bilbao e nuovo Guggenheim a New York, il museo di arte contemporanea di Zaha Hadid a Roma…)? Quali alternative?
G.F.
È bello il termine che hai usato: inadeguatezza…sentire l’inadeguatezza della mano, della mente, del cuore mentre si progetta, si dipinge, si disegna…L’inadeguatezza non è un limite, ma un valore…Io andrei a Sarajevo a vedere il cantiere del nuovo istituto di arte contemporanea progettato da Renzo Piano su un’area da poco sminata e bonificata…L’inadeguatezza dell’uomo di fronte alla guerra o alla morte…Cercherei una panchina e rileggerei i versi di Izet Sarajlic che con mio padre ed i miei fratelli abbiamo dedicato a nostra madre: Tu sei tutto per me,/ come per un soldato/ il letto nel primo giorno di pace/ e le lacrime e i fiori nel vaso./ I tuoi occhi/ sono la mia unica lettura/ in questo giorno/ che passa e se ne va.

Torre Annunziata (Na), luglio 2002