Design

Promesse ed inganni del nuovo corso del design
Olanda, andata e ritorno
di Riccardo Dalisi

Il Droog design (design asciutto), la Nieuwe Abstractie sono esperienze nuove e sconcertanti ad una immediata lettura. Colpisce lo sforzo di pensiero che contengono, la commistione stretta con il percorso comunicativo, l'azione di marketing fusa con il progetto: un unico movimento progettuale.


Sedia "White elephant" di Ineke Hans, 1997

Sedia "White elephant" di Ineke Hans, 1997

Tante cose mostrate dal '93 in poi (la passerella è stata Milano) sono dure, qualcuno le giudica brutte o respingenti, banali, non funzionali, antiformali, antifunzionali; scomodissime e spigolose.
Eppure non è da ascriversi ad un uso distorcente della comunicazione e della persuasione, comunicazione e pubblicità. E anzi a ben guardarle colpisce l'eccesso e la provocazione (materiali grezzi, forme sommarie, dispositivi impossibili). Si ritenevano superati i modi del tutto analoghi degli anni '70 (il radicale in Italia).
Lascia pensare il bisogno di pensiero e di sperimentazione che trapela da tutto ciò. Tocca punti salienti della sensibilità collettiva e situazioni irrisolte. Le compensazioni al consumo delle forme consolidate e alle promesse messe a nudo della produzione corrente ed al volto non del tutto nascosto, cinico della società contemporanea.
Diversamente da quanto lasciava intuire il Radical, profondamente diverso, nella sostanza, che poi è sfociato in una nuova stagione dell'espressione e del linguaggio. Istituì la cosiddetta cultura del progetto che avrà una nuova stagione, una nuova impennata di grande interesse. Tutto lo lascia presagire e l'interrogativo che nasce spontaneo al di là dell'arte contemporanea è cosa c'è dietro la risposta sconcertante dell'animo umano a livello sociale (globale?).
Ciò che si compra è pur sempre la poetica che è nell'operazione design. Ciò a parte il mercato delle cose e dell'uso concreto che pure sono soggetti a quel canto ingannevole delle sirene che è la pubblicità.



Rubinetto "Stop Tap" di Dick van Hoff, 1995

Rubinetto "Stop Tap" di Dick van Hoff, 1995

In ogni caso è la promessa di poesia che spinge all'acquisto.
Anche le nuove leve del design scandinavo od olandese, che hanno ben sortito verso la fine del millennio scorso, vendono per quel miraggio che balugina nell'oggetto, per quell'idea che riluce e serpeggia nei programmi, nelle parole non dette e nelle forme incompiute e storte. Rifacimenti dell'architettura e del design degli anni '70 con un mutamento radicale. Qui il design si vuole fare strada ed usa il marketing, si fonde con esso, è tutt'uno con esso. È più sfuggente, promette e non contesta, illude su una poetica che è soprattutto volontà di esserci.
L'esteticità che paga. Tutto sta nel vedere che poesia è, di che tempra e di che consistenza. Interessa quel guizzo d'intelligenza che presentifica e lancia prospettive. È interessante perché sembra piena di ombre e di vuoti, satura di "non essere", e, poiché si tratta pur sempre di oggetti, il discorso è delicato, problematico ed appassionante.
Dei disegni di Giacometti si diceva che occorreva guardare il singolo segno come qualcosa che separa due parti bianche, vederlo come assenza. Che sia così anche per questa poetica? Una sedia, un lume, vederlo per ciò che separa, per lo spazio che divarica intorno a sé, per la possibilità che offre e non per se stesso.


Sedie "Dice" di Hugo Timmermas, 1997

Sedie "Dice" di Hugo Timmermas, 1997

L'oggetto come schermo.
Dal foglio come schermo allo schermo di luce
Effettivamente deve essere un invito a guardare e ad usare diversamente le immagini ed i corpi composti. È anche importante vedere oggetti con la sensazione di vuoto, di ombre, di veri e propri solchi, di rigagnoli, di tagli, di impressioni.
Chi fa serigrafie od incisioni si rende conto meglio di quello che dico e vede le cose in modo diverso. Il disegno è una cosa viva. Bisogna sentirlo come un palpito di vita su un foglio. E questo si raggiunge facendo e rifacendo, giocando e patendo. Per uno scrittore i segni sul foglio palpitano: dicono il vero o il falso, fanno gioire o arrabbiare. Si gioisce e si soffre chini su un foglio pieno di segnetti, di lettere o di frasi di un grande scrittore.
Il foglio di carta è un gran campo di prova, ci si prova continuamente e si può crescere sui fogli di carta. Si possono costruire dei mondi o demolirne. Le civiltà passano sui fogli di carta, nascono e muoiono. Le nostre vite vi scorrono su. I nostri sentimenti ed i nostri pensieri, buona parte di essi vi poggiano su e da essi si sollevano come aerei che decollano e vi atterrano. Alcuni si infrangono, altri svaniscono, fogli ad immagini che scorrono e spariscono.
È importante un foglio di carta. È come la creta per lo scultore che prova e riprova. Tutte le energie si imprimono e si sollevano, si accumulano, si accrescono nello sforzo immane di purificarsi, per trarre ciò che sempre sfugge. Giacometti rifaceva continuamente e sempre distruggeva le sue sculture. È importante lo schermo che scorre, c'è e non c'è. Anche l'oggetto, scavalcato l'uso, c'è nella provocazione e nel richiamo: c'è e non c'è. È l'alone dell'oggetto che conta.
Così fa ogni scultore di immagini, ogni scrittore costruisce e demolisce i suoi castelli di parole, quei mondi di parole.
Il foglio di carta (come lo schermo) è un campo di prova, sempre. È uno specchio. Quel biancore del foglio intatto è una sfida, un velo che il disegno contamina e squarcia per svelare qualcosa.
Ed allora l'oggetto è uno squarciare lo spazio ed il suo uso è l'atto di lacerazione della funzione che è già contraddetta dalla non funzionalità dell'oggetto stesso.
Ma l'oggetto non squarcia solo la funzione, e più oggetti si riecheggiano tra di loro ed oltre. Riecheggiano nella mente coll'alone di pensiero che è intorno a loro. Gli ambienti, gli spazi sono fatti di "aloni". L'arredo riluce di sensi.