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Non è importante quello che si suona ma "come" si suona

di Franz Falanga*

Appartengo a quella strana generazione che ha conosciuto l'Italia nei tempi in cui la medesima tollerava. Appartengo cioè alla generazione delle case di tolleranza (quelli meno acculturati e più sfacciati di me le chiamavano "casini") generazione che Fellini ha celebrato in molte delle sue straordinarie descrizioni del tempo. Questi luoghi, oltre che essere deputati a fatti facilmente immaginabili da chiunque, rappresentavano anche dei momenti in cui si potevano percepire degli straordinari episodi di particolare complessità vitazzuola e culturale (qui per cultura intendo mentalità), a detta almeno di coloro i quali, per la propria accertata assiduità, potevano, a buon diritto, essere considerati come veri e propri addetti ai lavori oltre che come acuti ed attenti osservatori.

Qualche tempo fa mi sono intrattenuto a parlare sull'argomento con uno di questi addetti. Stavo scrivendo un pezzo sugli storici orali, su tutti quelli che cioè, su determinati argomenti, hanno avuto personali esperienze e che hanno la capacità di ben descriverle, avendo fra l'altro una notevole e circostanziata memoria dei fatti. Fra le varie informazioni e considerazioni fornitemi dall'amico ne ho scelta una sulla quale mi soffermerò brevemente per impostare un certo mio ragionamento sul trascorso Festival di San Remo.

Alla mia banale domanda sul perché l'amico frequentasse con costanza queste case, la risposta è stata molto più intrigante di quanto potessi immaginare. L'intervistato mi ha confessato papale papale che ogni volta che lui salive le scale del luogo del quale stiamo parlando, aveva sempre la segreta speranza di incontrare qualche occasionale accompagnatrice di rara bellezza, di raro fascino, che fornisse un tipo di "compagnia" al di fuori delle normali regole del gioco. Insomma le speranza di fare incontri molto ravvicinati di assoluta eccellenza era una delle molle che spingevano l'amico alla frequentazione. Alla mia domanda se un fatto del genere capitava spesso, il mio amico mi aveva risposto che non capitava certamente tutte le volte che ci andava, ma le occasioni di fare qualche incontro assolutamente gradevole, qualche rara volta capitavano. Ed allora sbocciavano dei fiori bellissimi in posti così decisamente particolari. E questo fatto era assolutamente gratificante. Ne ho visto e sentito di incontri che sono addirittura diventati situazioni con agganci poetici o con valenze di grande e indimenticabile umanità!

La risposta che ho dianzi riportato avuta in occasione di quella particolare intervista, mi parve degna di ogni attenzione e mi dette l'opportunità di pensarci su con molta tenerezza e con infinita curiosità. Molti miei coevi, pensavo, frequentavano i casini dell'immediato dopoguerra "anche" con la speranza di imbattersi in qualche trascendentale bellezza, con la speranza di incontrare qualche straordinaria compagna di giochi, ancorchè per un sia pur breve tempo.

Mi rendevo conto che la speranza/curiosità era una molla potente che spingeva molti miei coetanei a frequentare quei posti così surrealmente intriganti e così pieni di misteriosi ma concretissimi appigli.

Giunti a questo punto, qualcuno potrebbe chiedermi, il perché di questa obliqua premessa così particolare e così circostanziata. Perché, per parlare del Festival di San Remo, sia andato a scomodare le abitudini personali erotiche di parecchi miei coetanei?

La risposta, nel mio caso, è abbastanza consequenziale: personalmente frequento, ascolto, guardo, studio il Festival di San Remo, da parecchi anni, perché ho sempre la segreta speranza di imbattermi in qualche brano di eccellenza assoluta, ho sempre la speranza di vedere la nascita di qualche episodio musicale fuori dell'ordinario. Certo che il paragone fra le case di tolleranza di buona memoria e l'italico festival potrebbe apparire quanto meno strano e poco elegante, ma, a pensarci bene, secondo me, il paragone tiene bene e calza benissimo.

Torniamo quindi, per meglio comprendere quanto dirò in seguito, ai casini di buona memoria. I punti singolari delle situazioni casinesche erano caratterizzati dai comportamenti, dall'abbigliamento, dal linguaggio verbale di circostanza usato per i primissimi approcci, dalle tecniche usate, dalle atmosfere artatamente costruite, dalle infinite variazioni sul tema, dagli inizi, dagli svolgimenti e dai finali della prestazione. Si passava da una sveltina malinconica e senza sussulti ad un accadimento totalizzante e di grande rapinosità. Le vie di mezzo facevano pencolare l'occasionale incontro da un lato o dall'altro.

La stessa ricerca speranzosa del complesso, del gradevole, dell'innovativo, del nuovo, ha sempre caratterizzato le mie annuali frequentazioni dei festival sanremesi.

Un mesetto fa, allegato ad un noto periodico nazionale, ho trovato un CD con una compilation delle canzoni apparse sul panorama italiano negli anni compresi grosso modo fra i sessanta e i settanta. Me le sono ascoltate con attenzione e tenerezza ed ho notato che ognuno dei brani contenuti, venti per l'esattezza, era caratterizzato da arrangiamenti che a distanza di anni ritengo ancora geniali. Fra tutti segnalo "Il ballo del mattone" di Bruno Canfora e Dino Verde cantato da Rita Pavone che è un piccolo capolavoro di arrangiamento, caratterizzato dalla contemporanea presenza nel brano di due nuovi linguaggi che stavano venendo allo scoperto, il twist e la bossa nova. Per non parlare del "riconoscibilissimo" "Stasera mi butto" di B. Canfora e A. Amurri, riconoscibilissimo oltre che per la sua "cantabilità" anche per la sua struttura ritmica caratterizzata dalla sezione dei sax. Anche questo secondo brano era stato composto da Bruno Canfora, non dimentichiamolo, musicista di grande esprit de finesse e di grande capacità compositiva. Cito ancora "Le colline sono in fiore" di Calibi, Angiolini cantato da Wilma Goich, e le irrrr di Edoardo Vianello. Insomma ho ascoltato venti brani ognuno grandemente caratterizzato dall'arrangiamento, arrangiamento che a sua volta diventava il protagonista del brano musicale.

E torniamo all'ultimo Festival di San Remo, festival che ho ascoltato con le segreta speranza (ricordate la speranza dei frequentatori dei casini?) di fare qualche piacevolissimo incontro. Il risultato? Negativo. Sono ormai parecchi anni che assisto ad un piatto elenco, ad una piatta successione di brani tutti desolatamente privi di personalità, tutti alla stesso mediocre livello di arrangiamento.

Da molto, troppo tempo ormai, gli autori, gli esecutori, le case discografiche, gli organizzatori dei vari festival hanno esaltato l'immagine dell'esecutore materiale, ricorrendo a ridicoli mezzucci da carnevale viareggino, senza assolutamente preoccuparsi del "come" veniva eseguito il brano. Scarsa cantabilità, scarsa riconoscibilità, soprattutto un desolante piattume degli arrangiamenti, i poveri cantanti potranno vestirsi nelle maniere più assurde e più ridicole possibili, ma i brani non rimarranno un minuto di più nella memoria storica e collettiva dell'ascoltatore. Anche quest'anno ho ascoltato una infinita infinità di filastrocche musicali che non si distinguevano assolutamente l'una dall'altra. Ne volete una riprova? Qualche sera fa nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, erano festeggiati i primi tre classificati del festival. Vi parlerò del secondo classificato, di Mario Rosini. L'ho conosciuto personalmente quest'ultimo dicembre a Bari in suo concerto jazz al Jazz Decò del Kursaal Santalucia. Per chi non lo sapesse, Mario Rosini è uno straordinario pianista jazz dotato peraltro di una tecnica raffinatissima. Che cosa ha fatto Mario da Vespa? Quando è arrivato il suo turno per eseguire il suo brano, come avevano fatto gli altri due partecipanti, il primo e la terza, ha disatteso l'arrangiamento canonico del festival e lo ha cantato accompagnandosi da solo al pianoforte esordendo con un'introduzione jazzistica splendida e mozzafiato. In quel momento, solo in quel momento, il brano ha assunto una dignità musicale che durante l'esecuzione al festival si sognava di avere. Un po' come fecero Miles Davis, John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones quando nel 1956 si trastullarono con le note del pendolo mi do re sol, sol re mi do tirandone fuori un brano di rara sciccheria. Il brano, lo ricordo agli appassionati si chiama "If I were a bell".

Non c'è nulla da fare amici miei, non è importante quello che si suona, è importante come si suona. E questa affermazione è continuamente verificabile ogni volta che quelli della mia generazione si accingono a frequentare il festival di San Remo. Vuoi vedere che questa volta al Dollaro Blu, notissimo luogo di piacere della Napoli degli anni cinquanta, troviamo una nuova Filomena Marturano?

*Franz Falanga
Laureato in architettura all'IUAV. E' stato Direttore del Dipartimento di progettazione all'Accademia di Belle Arti di Venezia e titolare della cattedra di Elementi di architettura e urbanistica