Biografie

Giuliano Vangi

Giuliano Vangi nasce nel 1931 a Barberino di Mugello a Firenze. Studia all'Istituto d'Arte, allievo di Bruno Innocenti, e in seguito all'Accademia di Belle Arti. Dal 1950 al 1959 insegna presso l'Istituto d'Arte di Pesaro. Tra il 1959 e il 1962 si trasferisce in brasile dove si dedica a studi astratti, lavorando cristalli e metalli quali ferro e acciaio. Le sue opere iniziano ad attirare l'attenzione pubblica: vince il Primo Premio al Salone di Curitiba, espone al Museo di San Paolo e partecipa ad una mostra itinerante negli Stati Uniti.

Jaco

Jaco

Ragazza con cappotto

Ragazza con cappotto

Nel 1962 ritorna in Italia e si stabilisce a Varese; insegna per alcuni anni all'Istituto d'Arte di Cantù. Dopo il suo rientro in Italia recupera la figurazione, ricorrendo a quelle doti plastiche dalla straordinaria forza espressiva che esprime lo spirito del tempo. Dal 1978 risiede a Pesaro. Fa parte dell'Accademia del Disegno di Firenze, dell'Accademia di San Luca e dell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Ha esposto in molte sedi prestigiose in Italia e all'estero, tra cui ricordiamo la prima importante esposizione Italiana a Palazzo Strozzi nel 1967. Negli anni successivi si susseguono numerose mostre in Europa a Monaco, Vienna, Stoccarda, Asburgo, Francoforte, Londra. Nel 1981 inaugura la sua prima personale a New York presso la Sindin Gallery, e nel 1988 invece porta le sue opere in Oriente per la prima mostra a Tokyo presso la Gallery Universe. In Italia sono state allestite sue personali a Milano, Firenze, Bologna, Parma, Trieste, Grosseto, Roma, Carrara, Lucca, Ancona, Bergamo, Brescia.

Elena

Elena

Clelia

Clelia

È stato presente ripetutamente alle più prestigiose rassegne d'arte, dalla Biennale di Venezia, a Documentata di Kassel, dal FIAC di Parigi ad Art di Basilea, dalla Biennale di San Paolo alla Quadriennale di Roma, alla Biennale di Scultura di Carrara. Ha inoltre partecipato a numerose collettive sia in Italia che all'estero. Tra le sue mostre personali più recenti, memorabili rimangono le mostra di Napoli del 1991 a Castel Sant'Elmo e la grande antologia del 1995 a Firenze, al Forte del Belvedere. Nel 2000 l'artista ha esposto agli Uffizi alla mostra "Studi per un crocifisso e opere scelte 1988-2000"; nel 2001 l'Ermitage di San Pietroburgo gli dedica un esposizione personale e nello stesso anno si inaugura una grande mostra al Museo di Hakone in Giappone.

Vince nel1983 il premio del Presidente della Repubblica dell'Accademia di San Luca e nel 1994 è nominato Professore Onorario presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara; nel 2002 gli viene assegnato il Praemium Imperiale per la scultura. Lo stesso anno, nell'ambito della manifestazione "Italia in Giappone 2001", voluta da Umberto Agnelli e dal Ministero degli Affari Esteri, lo stretto legame tra l'artista e il Giappone è definitivamente sancito dall'inaugurazione a Mishima e di un Museo a lui dedicato, che si sviluppa su una superficie di 30000 mq. (2000 coperti, il resto a parco), che contengono oltre 60 sculture e altre 40 opere, tra modelli in gesso policromato, disegni, opere di grafica oltre ad un grande mosaico di 20 m. posto all'ingresso; nell'area verde presenta tra le altre 3 sculture monumentali: La scala del cielo, Stratificazione e L'uomo nel canneto, Progettato dall'architetto Munemoto, è la prima volta che un intero museo giapponese viene dedicato a un artista straniero vivente.

Giuliano Vangi ha realizzato numerosi monumenti collocati in contesti prestigiosi, come la statua di San Giovanni Battista a Firenze, La lupa in Piazza Postierla a Siena, Il Crocifisso ed il nuovo Presbiterio per la Cattedrale di Padova, il nuovo altare e ambone del Duomo di Pisa, Varcare la Soglia, la grande scultura il marmo al nuovo ingresso dei Musei Vaticani, una scultura un legno policromo per la Sala Garibaldi del Senato, un ambone in pietra garganica sul tema di Maria di Magdala per la Chiesa di San Giovanni Rotondo dedicata a Padre Pio, inaugurata il primo luglio 2004, e realizzata in collaborazione con l'architetto Ronzo Piano, la Cappella la nuova cappella del cimitero comunale di Azzano (Lucca) inaugurata nell'ottobre del 2002 creata assieme all'architetto Mario Botta, con il quale ha collaborato anche per Il Santuario Beato Giovanni XXIII a Seriate (Bergamo) inaugurato nel maggio 2004. Nel 2004 espone prima a Milano alla Rotonda Besana poi a Pietrasanta.


GIULIANO VANGI:
L'UOMO, LA MATERIA, LE RADICI
IL GESTO, IL COLORE. LO SPAZIO, LA LUCE
Giorgio Segato
L'uomo contemporaneo è il soggetto privilegiato delle sculture e dei grandi disegni di Giuliano Vangi: l'uomo del nostro tempo, noi, egli stesso, considerato nel rapporto con la condizione esistenziale, con lo spazio vivibile, di relazione, ma ancora di più, o, ancora meglio, con lo spazio interno, psichico, con l'ànemos pulsante intimo, che urge nel corpo, ne tende la superficie espressiva, gli detta il tempo di azione, la stasi riflessiva, la dinamica, il gesto. La scultura di Vangi avverte e comunica la minaccia di riduzione dello spazio di vita e il contrarsi dello spazio psicologico con straordinaria immediatezza, e non soltanto nelle sue inflessioni più stravolte e più dolenti, ma in una davvero sorprendente varietà di situazioni, di punti di vista (e di ascolto) che ora esaltano la materia, l'imporsi della fisicità, della corporeità come architettura nello spazio, ora la tensione comunicativa in forti scansioni espressioniste o anche in movimenti intensamente neobarocchi, ora impone l'articolarsi di un gesto che attiva lo spazio/ambiente, ora una luce che sembra intervenire a percorrere, levigare, rastremare le superfici, riducendone la massa, il peso, la ‘corazza' e guidando la percezione sempre più esplicitamente verso il ‘core', il nucleo più interno, segreto. La materia è la materia del corpo e varia a seconda dell'energia che Vangi intende esprimere, concentrare, implodere, racchiudere o liberare, proiettare: legni policromi, marmi e pietre in composizioni variegate, bronzi, luminose fusioni in nichel, avori, con una sensibilità per il dialogo (nonostante le sue figure siano quasi sempre isolate; ma, è chiaro che il riferimento siamo noi astanti: è a noi osservatori che parla, in rapporto a noi che agisce, guarda, corre, fissa, si volge, gonfia mostruosamente i muscoli, spalanca gli occhi in dolorosi, stupiti e muti interrogativi, o li rinserra ad ogni luce esterna ed interna in sforzi disumani) che il materiale interviene a facilitare, a rendere più disinvolto e più efficace, più drammatico e di una plasticità teatralmente più asciutta ed incisiva. E, quasi sempre, la materia uomo appare in Vangi ben ‘radicata' al suolo, ben piantata nella terra o 'abstracta' dal masso di origine, dalla materia mater della quale si nutrono la sua carne e la sua forza e dalla quale si disgiunge per realizzarsi come progetto individuale, unico. Si sente, in molte sculture, il peso con cui toccano il suolo, lasciando impronte decise e scavate, facendoci sentire Vangi più prossimo al Masaccio del Tributo che a Giotto degli Scrovegni (tanto per continuare un riferimento proposto da Pier Carlo Santini e ripreso da Maurizio Calvesi, il quale poi indugia a citare tutti i possibili richiami, consci e inconsci, che la vasta e qualificata letteratura critica vangiana è venuta via via elencando, chiarendo, commentando, a testimonianza non di eclettismo dell'autore quanto dell'eccezionale quantità, e varietà, di punti di vista, interni ed esterni, emotivi e razionali, intuitivi , emotivi e anche concettuali, di compenetrazione psicologica e storica, con cui Vangi da decenni si rapporta all'umano).
Nell'eccezionale intensità (e densità), anche iconica di queste opere più recenti, le pulsioni intime e le inquietudini più gravi si impongono come temi centrali di eventi plastici di imponente concentrazione ed espressione energetica, dove la normalità degli schemi figurali adottati in precedenza risulta aggredita da violente alterazioni, da sommovimenti, entasi ed enfasi potentemente narrative, teatralmente tragiche nell'occupare lo spazio scenico, nel senso migliore e veramente catartico dei termini. Perché ben sa, Vangi, come l'arte possa essere un mezzo privilegiato per capire i fantasmi interiori, i retaggi istintivi e per esercitare un certo dominio su di essi, guidare a controllarli e cercare di capovolgere l'angoscia esistenziale nel piacere della manipolazione e del racconto, della scansione plastica della materia, riuscendo - e Vangi in ciò è autentico maestro - a far prevalere il valore estetico, la forza della forma, del ritmo delle forme sui contenuti resi espliciti. Non c'è dubbio che oggi, come forse mai in passato, imperversi la follia distruttiva della civiltà del consumo, dell'effimero e passeggero, con modelli di vita, di comportamento e di sviluppo ‘incompatibili' per quanto (ma forzatamente) sostenibili, e non v'è alcun dubbio che tale follia faccia sentire l'esistenza sempre più precaria, relativa, turbata, angustiata, schiacciata nella dimensione temporale di un presente che sembra non aver origine (senza memoria storica) né progetto (prefigurazione e attesa di futuro). Vangi è bene avvertito, istintivamente, naturalmente allarmato, di questa situazione e la traspone direttamente nell'evento plastico, nell'evento scultoreo, ora modellando per progressiva aggiunta di materia, ora scolpendo per via di togliere con una varietà e felicità di esiti che non finisce di sorprendere e di attrarre: varietà, certo, eppure anche immediata riconoscibilità. "Vangi è dunque inconfondibile - scrive Giorgio Soavi - La sua scultura, le sue sculture, hanno una carta di identità che è l'attestato del volto, del carattere e dello slancio - di marmo o di legno - che sta in quei corpi" (Vangi, Sei sculture a Milano, Mazzotta ed. 2003). Ma cosa le rende così diverse e insieme così connotate? Evidentemente il fatto che Vangi conosce bene ed esprime egregiamente se stesso, il proprio rapporto col mondo, con la società, l'ambiente, la terra, l'uomo come individuo poliedrico ed irripetibile. Ha a che fare con tutto questo anche il fatto che le sue opere non hanno repliche, restano pezzi unici. Egli si conosce e conosce l'umano nella sua ricchezza enigmatica, che si svela e si cela, mantenendo sfaccettature misteriose, insondate e insondabili, che si affacciano alla sua intuizione d'artista, alla sua fervida immaginazione ampiamente dotata di una visionarietà irrimediabilmente e irrinunciabilmente coniugata a un'emozione esistenziale forte, intensa, libera da preconcetti, dalle panie intriganti di sintassi anatomiche, di modelli e di moduli, eppure sempre capace di inventare una misura aurea, di volta in volta diversa, ma immediatamente riconoscibile, sulla quale enunciare un discorso, comporre un racconto.
Così l'uomo e la donna di Vangi appaiono all'artista ora come spazio chiuso, trincerato con decisa allusività espressiva concentrata nello sguardo, nel sorriso appena accennato, nelle mani colte in gesti articolati o aderenti al corpo, leggermente solcate nella materia, e nel modo di far risaltare nei movimenti di superficie i moti dell'ànemos, pneuma, anima della materia vivificata dalla carezza della luce; oppure la figura si apre come scrigno o come abbraccio accogliente sotto lo scudo protettivo di un guscio psichico, che diventa sempre più materia luminosa che espande nello spazio la grazia effusiva di un magico sorriso nato dall' ascolto interiore (Ragazza e poesia, 2002 in bianco statuario di Carrara). Nei rari gruppi di figure si intuisce che Vangi ricorda Les Bourgeois de Calais di Rodin, ma ne sviluppa autonomamente le suggestioni compositive ed espressive, specialmente nei marmi politi e quasi traslucidi. In altre opere la figura diventa ‘erma' luminosa costantemente ‘dilavata' e levigata dalla luce, immersa nello spazio/luce che esalta la politezza della materia, rendendola nuvola leggera.
I bronzi recenti si affrancano presto da un iniziale tributo e riferimento alla drammatica e straordinaria sequenza di Cavallo e Cavaliere di Marino Marini come dialogo e ‘contrasto' tra istinto e ragione, tra ordine e caos, tra eros e thanatos, intensificando, Vangi, una teatralizzazione d'ambiente che subito coinvolge, perché diventa tragico ‘paesaggio' di figure in una tensione che sembra assorbire, inghiottire lo spazio, e assorbire, dentro, anche la nostra sofferta attenzione, resa partecipe di una indicibile sofferenza, di un ‘largo' (proprio in senso musicale) sgomento esistenziale che monta ai livelli più alti di incontrollabile inquietudine e di paura di fronte ad una violenza (Il vincitore, Ares ) così esplicita, così incombente e così ineluttabile."In questa situazione di strapotenza, di totale brutalità animalesca, il vincitore - mi dice Vangi con aria meditativa in un colloquio nel suo studio di Pietrasanta - non è più la massa che sovrasta, ma la figura atterrata che conserva umanità, sentimenti, pur nella sua incondizionata sconfitta". Le scansioni plastiche si fanno per davvero prepotenti, rigonfie e tese di un quasi incontenibile pneuma, che espande le membra segnalando un'aggressività, una ferocia che letteralmente stravolgono e annullano in pura e gratuita belluinità la maschera espressiva dell'uomo, irrigidiscono in autentici, inamovibili massi le articolazioni dei corpi. E tutto lo spazio intorno riverbera di questo peso, e sembra bloccato, raggelato, risucchiato nel gesto che continua e non si risolve. Le dimensioni sono tali da non consentire una lettura immediata di insieme e da rendere quindi necessari più punti e momenti di visualizzazione, più prospettive, ciascuna delle quali rivela una parte del dramma che si compie, in un crescendo dal basso all'alto (Il Vincitore, 2004, bronzo) o lungo il tunnel architettonico creato dai corpi in impari lotta (Ares, 2004, bronzo), o dall'esterno all'interno, dove si svela l'orrore della testa decapitata (C'era una volta, terrecotte policrome, 2005). La scultura diventa elemento del paesaggio mentale, qui sì come la roccia che fa da cornice e da impianto formale alla Vergine col bambino sull'asinello della Fuga in Egitto di Giotto (Grande racconto, 2004, in marmo bianco di Carrara, ma anche le tre figure sulla scala dell'opera per la chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, in pietra di Apricena, 2004, o il bronzo Uomo e animale, 2004, in cui il peso della bestia sembra vincere e sovrastare le forze dell'uomo). La metamorfosi dal reale al mentale, il passaggio di introiezione psicologica, risulta subito evidente quando si guardino i grandi disegni preparatori a carboncino, anch'essi concepiti e realizzati in uno spazio concavo, a grandezza naturale, che ci chiama dentro a fianco dell'artista che agisce con il gesto misurato dalla lunghezza del braccio: i volti e i corpi sono disegnati con grande cura e attenzione anatomica e somatica, ed appartengono alla galleria di personaggi che Vangi in molte sculture chiama per nome (Clelia, Simone, Jacopo, Elena), oppure definisce sottolineando confidenzialmente un gesto o l'abito (Donna che ride, Uomo seduto, Donna con ampio vestito, Figura vestita di giallo,Uomo con le mani in tasca, Donna che si gira) ; nelle più recenti trasposizioni in bronzo, invece, volti e corpi diventano maschere brutali: l'energia animalesca, l'esaltazione dell'istinto, la follia omicida deformano la naturale espressività di superficie aggredendola e caricandola con tutte le paure, le tensioni intime. La materia in Vangi è sempre animata, è sempre mater, origine, natura, indifferentemente vegetale e animale, da cui l'umano nasce, deriva, si forma, si raffina come corpo e come intelligenza, spirito (Varcare la soglia del terzo millennio, nell'atrio del nuovo ingresso dei musei vaticani, 2000, in bianco Carrara, verde cipollino, onice e oro). La forte individualità che Vangi sottolinea nelle sue opere è stata spesso sentita come espressione di disagio, di solitudine dell'uomo sulla scena del mondo. Non c'è dubbio che nella sua poetica ci sia questo sentimento, e vissuto con dolore, ma anche con capacità di resistenza e volontà di valorizzazione dello spazio largo che la solitudine crea attorno e dentro la figura. Dai cubi in plexiglas degli anni Settanta, emblemi della costrizione, dell'asfissia psicologica, Vangi sa trascorrere a visioni paesaggistiche di grande suggestione e liberazione, nelle quali i rapporti spaziali e luministici esaltano il momento dell'immersione nel dato naturale, il sentirsi natura nella natura, e storia nella storia, piccola creatura straordinariamente ricca di risonanze interne, di emozioni, di sentimenti da far crescere come fossero piante. Ed è come se Vangi ribaltasse verso l'esterno il vasto spazio di luce e di accoglienza creato all'interno, nella mente e nel cuore, dalla condizione esistenziale e dalla meditazione, dalla disponibilità a pensare e a pensarsi: un vuoto energetico in cui si manifestano e si materializzano i tesori intimi della memoria, delle radici, dei riferimenti etici. Così è, ad esempio, nella grande composizione dell'altare e del presbiterio di Padova che necessariamente va citata come parte integrante di questa mostra. Vangi ha creato una spianata di venti metri di larghezza sotto la grande cupola dalla lucerna luminosa e, in questo largo spazio che invita ad espandere la percezione interna, ad abbattere i confini psicologici per accogliere tutta la luce possibile, ha scolpito le figure della memoria religiosa padovana: lasciando risuonare la memoria di Daniele, celebrato nella cripta sottostante dai bronzi di Tiziano Aspetti, ha posto Antonio come evocazione, tesoro prezioso della fede (il primo miracolo, la predica ai pesci sulla spiaggia di Rimini, al cospetto e a dispetto degli eretici), e a destra Gregorio Barbarigo con il busto concavo ad accogliere i giovani per farne testimoni di Cristo; a sinistra gli altri due protomartiri protettori della città, Giustina esaltata dal bagno di luce del martirio che purifica la materia e Girolamo che si offre come soglia che si apre per consentire di entrare, col battesimo, nell'ecclesia. Accanto a loro l'Angelo della parola, del vangelo, radice e pianta che collega terra e cielo, natura e spirito. L'elemento vegetale, fogliame in marmo laguna chiude da una parte e dall'altra la vasta scena che accompagna lo sguardo verso il centro, verso la grande mensa del sacrificio in marmo bianco di Carrara, sostenuta da quattro angeli musicanti scolpiti a tutto tondo, così da alleggerire con la forma e con il movimento la spessa lastra del tavolo. Dietro si vede l'alto schienale della ‘cattedra' del vescovo, ornata di semplici foglie incise. Sopra la cattedra risplende in una chiara fusione di nichel e interventi a oro il Cristo in croce, già risorto, in un gesto che ho più volte avuto occasione di definire atletico, come quello di un centometrista al traguardo, con la piena consapevolezza della meta raggiunta, non la sofferenza ma la conquista della salvezza dell'uomo. Il suo sguardo limpido si apre tutto alla luce, alla conoscenza e alla comunicazione diretta con i fedeli. L'insieme a me pare armonioso nonostante la novità e la diversità dell'innesto contemporaneo in un contesto di austera linearità: mi pare che davvero funzioni la sollecitazione ad aprire spazi interiori a una rinnovata luce di consapevolezza e di conoscenza. I ritmi plastici sono quelli di Vangi, originali ed inconfondibili, come già si è detto, e da leggersi come episodi di un unico racconto bene orchestrato in direzione di una precisa, e intimamente vissuta, testimonianza di forte radicamento naturalistico, di umanità in cammino e di fede. L'oro, i marmi policromi, gli avori degli occhi e dei denti, i movimenti della materia a larghe ante aperte o richiuse, gli andamenti delle figure nella luce, le pieghe che diventano larghe marezzature in fibrillazione, sono gli elementi che Giuliano Vangi modula sapientemente nello spazio per attualizzare le sue riflessioni sull'uomo contemporaneo e le sue ‘rappresentazioni' degli atteggiamenti, delle tensioni, delle aspettative di un'umanità che è molto difficile tradurre in racconto plastico convincente, fuori da retoriche celebrative, da rivisitazioni monumentali. Vangi ci riesce con estrema naturalezza e sincerità, senza forzature gratuite, semplicemente coltivando ed assecondando una sua istintiva capacità di ‘mise en scène' come ‘mise en ab^ime', riproponendo il colore non soltanto come citazione della scultura classica colorata e in marmi policromi, ma come restituzione di sollecitazioni materiche e cromatiche del nostro tempo (della fotografia e del cinema oltre che della pittura, che hanno colorato ormai tutta la nostra cultura visiva) affinché davvero la scultura torni ad essere lingua viva che ci parla dell'uomo, dei suoi problemi con lo spazio esterno, vivibile, di relazione e con lo spazio interno, psichico, che urge di dentro e individua, cioè rende del tutto singolare, la nostra forma, il nostro sguardo e il nostro gesto. Giustamente, da questo punto di vista, si è collocata la mostra temporanea nel Palazzo della Ragione, nello spazio (la grande piazza coperta, autentica agorà patavina) e nel luogo che più diffusamente e meglio parla dell'uomo, dei suoi caratteri, dei suoi comportamenti (il grandioso ciclo zodiacale di affreschi) e più e meglio parla anche della scultura (il grande cavallo in legno che richiama il Gattamelata di Donatello del sagrato del Santo, considerata la più bella ed armoniosa scultura equestre) e sede espositiva di quasi tutte le edizioni della prestigiosa Biennale Internazionale del Bronzetto.

Giorgio Segato