Architettura

Vere rivoluzioni, false reazioni... o viceversa

di Alessandro Bianchi

Poco tempo fa ho discusso appassionatamente con una persona cara di "rivoluzioni", fenomeni opposti alle "reazioni".


Il rivoluzionario è colui che vuole un nuovo sistema, e lo vuole perché giudica non giusto quello esistente o in corso.

Il reazionario, invece, è colui che vuole ripristinare un vecchio sistema, ma le sue motivazioni coincidono con quelle del rivoluzionario: giudica non giusto quello esistente o in corso.



La storia è ritmata da "rivoluzioni" e "reazioni", e quasi, i due fenomeni si susseguono e si oppongono come, in fisica, il polo positivo e quello negativo, o in storia, "i corsi e i ricorsi", o in filosofia, il "tutto scorre".

Questo non significa che ogni periodo storico è toccato da una "rivoluzione" o da una "reazione", anzi, i due fenomeni sono sempre separati da una fase temporale di incubazione dei germi che le fanno scaturire. A rivoluzione compiuta ci vuole tempo prima che qualcuno maturi un fastidio insopportabile per quel nuovo sistema, fastidio che porterà alla reazione. Nel frattempo si mugugna, ci si lamenta, si pensa a tempi migliori, ma non succede nulla di significativo. Così come, a rivoluzione avvenuta, tutto appare temporaneamente migliore, solo fino a quando le coscienze sono mature per capirne anche i difetti: allora si corre al riparo attraverso la reazione.



Oggi si è appena conclusa una rivoluzione non pienamente riconosciuta: la Rivoluzione Informatica. Forse ci volle tempo per dare il giusto peso scientifico e artistico anche al Rinascimento - si colga con elasticità il parallelo, come quelli successivi - che ebbe il suo apice nel Barocco, per poi stemperarsi nella "reazione" neoclassica. Tempi dovuti alla collocazione storica dei fatti, alle letture analitiche e non sensazionali degli eventi, ai giudizi positivi e negativi di sistemarsi nelle correnti di pensiero e poi nelle scuole. Anche per la più famosa delle rivoluzioni politico-sociali, la Rivoluzione francese, vale probabilmente la stessa fenomenologia. L’incubatrice fu il pensiero illuminista, che permea tutto il secolo diciottesimo; la rivoluzione come atto sconvolgente e violento non dura che qualche anno - fino all’arrivo di Napoleone - per poi concludersi con la Restaurazione, la reazione dell’aristocrazia alla borghesia rivoluzionaria.



Quali valori di giustizia porta con sé la Rivoluzione Informatica, tali da potersi opporre al sistema precedente, come vuole l’ipotesi iniziale di questo scritto? Con senso di rigore, andrebbe specificato che la giustizia cui si fa riferimento, non è la Giustizia trascendente, la Verità, ma una tensione al miglioramento delle condizioni di vita immanenti, alle possibilità per ciascuno di vivere e lavorare liberamente, con il pieno accesso alle informazioni di cui ha bisogno. L’Information Technology avvicina le persone dando loro pari opportunità, pur nella consapevolezza che rimane uno strumento. Infatti non sopperisce alla mancanza di istruzione che dà luogo alla cultura, e in particolare non si può sostituire ai modelli di inculturazione che passano attraverso le metodologie di insegnamento e alle applicazioni pratiche di laboratorio. Il libero accesso alle informazioni da parte di tutti non è, e non deve diventare, l’elogio dell’anarchia autodidatta: uno strumento infatti, se non controllato, diventa il fine del nostro operare, creando confusione nelle dinamiche educative. Ecco perché chi ha in mano un computer collegato a internet non dovrebbe sentirsi potente, piuttosto un ignorante all’ingresso di una biblioteca contenente milioni di volumi. Socrate affermò ripetutamente "so di non sapere", affermazione lungi dall’essere una testimonianza di umiltà.


L’avvento dell’Informatica come fase di incubazione, per ciò che riguarda l’ambito del disegno, comincia alla metà del secolo scorso e prosegue sino alla fine degli anni ottanta. In questi trent’anni le continue scoperte tecnologiche, in fatto di hardware e di software, non lasciano spazio all’elaborazione teorica del fenomeno e alla riflessione sull’impatto metodologico e professionale sulle procedure tradizionali. Sono invece gli anni novanta il periodo in cui il fenomeno dell’Information Technology diventa Rivoluzione Informatica, poiché tutti i problemi di natura filosofica, tecnologica, sociale e organizzativa entrano in collisione, confrontandosi per la prima volta su una piattaforma comune. Sono gli anni dei grandi dibattiti a caldo sulle trasformazioni in atto nei campi della progettazione e del disegno, e soprattutto gli anni dell’importante scontro generazionale tra nuova e vecchia guardia.

Noi eravamo studenti all’inizio degli anni novanta e i computer stavano facendo il loro ingresso fra i nostri strumenti di lavoro, affiancandosi alle squadre e ai tecnigrafi. Le università erano piuttosto refrattarie ad accogliere queste novità, le vedevano come antagoniste ad un codice consolidato di conoscenze sul disegno e sulla progettazione. In verità, già dalla metà degli anni ‘80 le case degli Italiani erano state sorprese dai nuovi computer della casa tedesca Commodore, uno dei primi hardware domestici precursori dei personal computer della IBM e della Olivetti. Con i Commodore, più che lavorarci, ci si giocava, ma l’interazione fu utile per scoprire questa nuova realtà che poi, con cognizione di causa e forse con retaggio ludico di questo periodo, fu chiamata "realtà virtuale". Successivamente la casa tedesca scomparve, e rimasero a contendersi il campo le due principali piattaforme: PC (personal computer) con il sistema operativo MS-DOS (sostituito alla metà degli anni ‘90 da MS-Windows 95) e Macintosh con il rivoluzionario System 7 a partire dal 1990. Ci si divise: chi preferì i PC, con i relativi softwares dedicati, chi si schierò con Macintosh (grossolanamente, i primi erano coloro che avevano attitudini scientifiche, i secondi attitudini artistiche).

Nelle facoltà di Architettura, sin dal 1990, si cominciò a disegnare attraverso i CAD, o meglio, si ebbe il coraggio di presentare elaborati disegnati attraverso un CAD, perché si aveva timore della reazione dei docenti. Prima vennero i disegni bidimensionali, poi quelli tridimensionali a linee, infine i rendering in bianco e nero che si perfezionarono, col tempo, in quelli a colori con assegnazione di textures di materiali reali. Non fu semplice convincere i docenti che le nuove tecnologie non influenzassero - in negativo - la qualità grafica e concettuale dei progetti poiché, in realtà, nessuno di noi ne era convinto in prima persona. Stavamo sperimentando, e come ogni degna sperimentazione, significa e significava un salto nel buio. L’Accademia è il luogo deputato alla ricerca scientifica e alla sperimentazione ma, paradossalmente, è anche la sede più ostile alle novità rivoluzionarie. Infatti, come dimostrato, a parte la fase incubatoria, la rivoluzione è quel fenomeno che si svolge molto rapidamente e che lascia molte vittime sul campo di battaglia; mentre all’università, per molte ragioni, i cambiamenti avvengono molto lentamente, e le vecchie tesi rimangono valide anche quando nuove ipotesi hanno inverato nuove tesi. E’ il sapere enciclopedico che è disposto ad aggiungere una nuova voce al proprio lemmario, ma refrattaria a modificare una voce già presente.

Tabù, per l’Accademia italiana, resta l’acronimo inglese CAD ("Computer Aided Design", che significa, con traduzione letterale in italiano, "Progetto Assistito dal Calcolatore"), o più specificatamente per la materia, CAAD ("Computer Aided Architectural Design", "Progetto Architettonico Assistito dal Calcolatore"). In un certo senso, con la medesima logica, la metodologia di disegno applicata ad un tecnigrafo, potrebbe chiamarsi "Progetto Architettonico Assistito dal Tecnigrafo", oppure, se usiamo il parallelografo, "Progetto Architettonico Assistito dal Parallelografo", e così via per la riga e le squadre... Solo il disegno a mano libera non è assistito da nessun strumento oltre alla mano, eccezion fatta, ovviamente, per la matita. Fattostà, però, che l’assistenza di un computer, resta, per molti, l’unica che può nuocere all’intelletto del progettista o del disegnatore.

Per non usare l’acronimo CAD - riconosciuto in tutto il mondo peraltro, sia da ambienti scientifici che da quelli commerciali - le universtà italiane si sono sbizzarrite nelle nominazioni di corsi che trattano l’argomento, nel tentativo di conferirgli una dignità scientifica. "Elementi di disegno automatico" con la variante in "Elementi di disegno informatico", "Disegno assistito al calcolatore", "Progetto assistito al calcolatore", ecc. Qual è la ragione per cui l’Accademia italiana non usa l’acronimo CAD? Semplicemente perché è ritenuta una sigla commerciale, o forse è percepita come tale sul mercato locale.

A onor del vero, risale al 1961 la nascita del CAD, grazie alla tesi di dottorato di ricerca di Ivan Sutherland, presso i Laboratori Lincoln del Massachusetts Institute of Technology di Boston (MIT - la più prestigiosa università scientifico-tecnologica degli Stati Uniti d’America). Sutherland mette a punto il sistema Sketchpad, dove una penna ottica - light pen - viene utilizzata come dispositivo di selezione e di inserimento delle informazioni a monitor, per disegnare delle parti meccaniche. Per la prima volta questo sistema viene descritto da Sutherland nel 1963 ad una conferenza, attraverso un articolo dal titolo: "Sketchpad: a Man-Machine Graphical Communication System", (AFIPS, SJCC 23, 1963). Alla stessa conferenza il Tutor di Sutherland, il Prof. Steven Coons del MIT, pubblica un articolo che mette il relazione il CAD con il linguaggio denominato "Automatically Programmed Tool" (APT), che a sua volta è uno sviluppo della ricerca sulla prima fresatrice a controllo numerico con utilizzo di un computer Whirlwind (le ricerche vennero condotte presso il Servomechanism Laboratory, sempre al MIT). Il titolo dell’articolo del Prof. Coons era: "An Outline of the Requirements of a Computer-Aided Design System" (AFIPS, SJCC 23, 1963).

L’obiezione che più frequentemente viene mossa dai conservatori del disegno tradizionale contro il CAD, attualmente, non è più quella della metà degli anni novanta, in un certo qual modo di stampo fondamentalista, ma si è evoluta in una giusta recriminazione di natura contenutistica. E cioè: per poter usare un computer occorre conoscerne intimamente le strutture, le procedure, i sistemi, le logiche... sinanco a capire il flusso degli elettroni nei circuiti stampati, aggiungo io? Eppure nessuno si è mai dato la pena di ammonirci di smontare un tecnigrafo (dalla meccanica assai complessa, credo) prima di usarlo, anzi: non se ne è mai parlato degli strumenti! Il problema era, è, e resta, l’architettura. Guardiamo le nostre città, le nostre periferie, e cerchiamo di riportare il baricentro delle nostre ricerche sulle questioni fondamentali, invece di perderci su falsi problemi. Se continuiamo a parlare di tecnica come fine - il rischio delle società moderne descritto spesso da E. Severino - rischiamo di promulgarlo inconsciamente.

In fondo credo che il computer, per un progettista, sia proprio quella "scatola euclidea" che quasi nessuno voglia riconoscere per eccesso di complicazione del problema. D’accordo, possiamo fare anche splendidi disegni fotorealistici (prospettive con materiali) che prima risultavano praticamente impensabili, ma, come prima, non possiamo costruire senza passare per il cantiere. Il disegno architettonico, con qualsiasi tecnica realizzato, è infatti eseguito per la costruzione, non per essere esposto.

Alla fine degli anni ‘90 possiamo dire che la rivoluzione era compiuta, e internet rendeva possibile trasferire velocemente i nostri disegni da una parte all’altra della città, dell’Italia, del mondo, senza dover passare per le costosissime copisterie e per le Poste Italiane, forse meno costose, ma sicuramente non affidabili. La rivoluzione era compiuta sì, ma come per la celebre frase di Garibaldi "l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani", occorreva ed occorre dare un metodo ai disegnatori del nuovo tecnigrafo CAD.

La tecnica di rappresentazione corretta non ha un unico modello - e questo vale anche per le tecniche CAD - anzi, attraverso lo stesso strumento possiamo mettere a punto una molteplicità di metodi. La tecnica di rappresentazione precede/segue il progetto come concetto, anche tecnicamente. Un infisso in alluminio e vetro può essere rappresentato tecnologicamente in maniera corretta in tanti modi, e questi modi dipendono dal progettista che si puntualizza una propria tecnica di rappresentazione, e in un certo senso, un proprio codice. Così l’infisso in alluminio non ha un’unica rappresentazione alla scala di dettaglio perché gli architetti qualificano il proprio progetto anche attraverso la tecnica rappresentativa. Alla fase cognitiva progettuale precede e segue sempre la tecnica rappresentativa, propedeutica ed icastica dell’idea di progetto. Il disegno e il progetto sono intimamente legati dal loro rimando reciproco: il disegno è la graficizzazione consona del progetto, che nella sua fase iniziale, è solo nella mente del progettista. Il disegno è il "braccio", il progetto la "mente".

Scrive A. Zoppetti (al sito www.linguaggioglobale.com): "L’uomo che tradizionalmente è considerato l’inventore della stampa a caratteri mobili è Johann Gensfleish, passato alla storia col nome di Gutenberg, dal paese di provenienza. La sua intuizione fu quella di fabbricare le matrici di ogni singola lettera dell’alfabeto per poter stampare un qualsiasi testo combinandole in tutti i modi. Intorno al 1450, Gutenberg stampò la Bibbia in 200 copie; l’opera è considerata il primo libro stampato uscito da un torchio a caratteri mobili. Presto questa tecnica si diffuse a macchia d’olio e, per far fronte alle sempre più ampie richieste, i torchi per il vino vennero convertiti per la stampa. Questa innovazione tecnologica, tuttavia, suscitò anche le lamentele di quanti preferivano i libri manoscritti. In effetti questi ultimi erano molto più belli e pregiati, ma, nella controversia, era in gioco la rivoluzione non della forma, ma del significato e del concetto di libro". Oggi come allora la rivoluzione dello strumento di comunicazione si scontra con problemi di forma e di contenuto. Della rivoluzione di Gutenberg possiamo dire, a distanza di 500 anni, che l’invenzione della stampa ha permesso una divulgazione dell’istruzione e della cultura che altrimenti non si sarebbe verificata, anche se le polemiche dei contemporanei, fra conservatori e riformisti, non mancarono. E’ certo che la tecnica, in un qualche modo, influenza i contenuti attraverso i suoi meccanismi o le proprie procedure, ma con spirito positivo possiamo far prevalere i lati positivi su quelli negativi, come è stato per la storia della stampa. Forse, fra qualche tempo, non si parlerà neppure più di disegno tradizionale o assistito: non perché uno avrà sostituito l’altro, ma perché ciascuno avrà trovato la propria giusta collocazione. Queste considerazioni dovrebbero essere alla base dell’apprendimento anche di questo nuovo strumento, il computer, perché nulla cambi, perché l’architettura resti davvero al centro dei nostri interessi. La rivoluzione ora è davvero compiuta.


Immagini tratte da:
- I. Sutherland, "Sketchpad: a Man-Machine Graphical Communication System", 1963

Articolo inserito il 2 giugno 2005