Architettura

Conversazione con Umberto Riva
di Davide Vargas

Sono entrato nello studio che mi aspettavo di trovare: uno spazio un po’ in disparte, domestico e con i segni riconoscibili del ricercatore paziente e silenzioso.
Ci siamo seduti su due poltroncine dell’architetto di fronte ad un infisso che apriva la vista sulla ringhiera del ballatoio e oltre sul cortile e oltre il portone sulla città.
Proprio come l’atteggiamento di Umberto Riva, sempre alla ricerca di un oltre da superare.
La conversazione si è svolta così, qualche frase interrotta e parole senza fretta sempre tenacemente distanti dall’ovvio:


Le immagini di casa Miggiano a Otranto parlano di una luce del sud, del colore e calore del sud, in un’atmosfera sfuggente tipica della Puglia.
L’architettura deve rappresentare i luoghi e valorizzarne le qualità?
E’ sempre così per lei?

Direi che è inevitabile se manca l’appiglio di un contesto e di una destinazione d’uso su che cosa ?…io non ho messaggi da trasmettere, di conseguenza direi che conta il paesaggio, i valori strutturali, il potenziale scenico. Poi esistono le proprie particolari predisposizioni, o inevitabili vizi o virtù. Di conseguenza quelli poi finiscono per riaffiorare in qualche modo, ma direi che quando va bene l’architettura somiglia al paesaggio.
Ma poi dipende… può darsi che ci fosse un’architettura più mentale che si potrebbe anche astrarre da un contesto e prendere un atteggiamento di dominio rispetto al resto, ma non è confacente al mio atteggiamento che cerca di prendere spunto, recuperare dai condizionamenti ….


Le stesse immagini sembrano quadri o disegni a pastello. La materia, i colori, le luci, le ombre sono sfumate come le sfuma un pittore. C’è come una smaterializzazione degli angoli e degli spigoli.
Questo tipo di atmosfera è un tema della sua architettura?

Quella è una altra storia, perché in fondo la mia pittura, fondamentalmente visiva, costituisce un mestiere non fatto…avrei trovato senza dubbio più facilità e conforto e meno difficoltà di quelle che ho incontrato a fare l’architetto…anche proprio nel rapporto che bisogna avere con tutto l’intorno, cominciando dalla committenza…bisogna essere scelti e negli ultimi tempi è sempre molto casuale, non è mai riconoscibile in un preciso tipo, ed io rimango molto esterno, ma non per scelta ma proprio per un fatto caratteriale.

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Vista esterna
Foto di U. Riva, cortesia Studio Riva

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Vista esterna
Foto di U. Riva, cortesia Studio Riva

Che rapporto instaura con i suoi committenti? E generalmente, chi sono? Come arrivano a lei? Sono preparati al suo linguaggio o è lei che li conduce?
...direi che va molto meglio adesso con la committenza pubblica perché non c’è bisogno di giocare su niente…quando ho a che fare con i privati, lì il rapporto è sempre giocato su reciproci fraintendimenti…con Miggiano è andata bene perché erano amici, amici di amici, era amico di pittori, riconosceva i pittori…in qualche modo la si è fatta molto più facile…ed è stata realizzata in questo modo, perché non c’era in fondo una vera base economica, un’impresa…è stato tutto molto miracolistico


Tipicamente meridionale
Si, veramente…cosa non ho rischiato come direttore dei lavori lì dentro…non è stata rispettata alcuna preventiva forma di precauzione….ho visto questi operai che hanno fatto di tutto, in un modo sempre…così…un po’ fatalistico, ma anche molto generoso


Mi piace molto quest’ultima cosa, per noi meridionali è come un riconoscimento di una qualità
Si, lo è…purtroppo si sta perdendo… questa avventura, che è stata, io l’ho cercata in qualche modo, perché erano ormai quasi dieci anni che non riuscivo a vedere un cantiere vero; dopo tante ristrutturazioni, messe a posto, l’idea di fare una casa mi piaceva.
Perché poi io all’inizio quando ho cominciato a progettare ero sicuro….prima ho progettato, poi è come se si fosse inaridito tutto e non è più successo nulla…allora era tutto ancora più casuale. Questa di Otranto è durata sei anni, ha subito tutta una serie di messe a punto, perché i disegni non venivano letti o venivano traditi….i serramenti sono stati fatti in modo discutibile…però io ho sempre cercato di essere in sintonia con la situazione, così come si cerca di essere rispetto a un luogo in sintonia, non prendere mai un atteggiamento di rottura, ma cercando sempre di trovare dal contingente le condizioni per salvarsi, ed è andata anche bene…l’impresa non era un impresa e alla fine ha fatto anche dei lavori di qualità senza avvalersi di particolari riconoscimenti economici che ci sarebbero stati con un’impresa regolare…ha messo una certa attenzione nella stesura degli intonaci rispettando certi profili…loro usano come finitura delle pareti un impasto di calce e polvere di tufo, e lo stendono anche all’esterno…noi abbiamo inserito nella miscela degli ossidi, per cui sono venuti fuori questi colori tirati dove ho potuto a spatola e soltanto col fratazzo in altre zone, alla fine è stata un’altra delle grandi risorse, sempre provenendo dalle condizioni del cantiere, e tutto veniva vagliato dal punto di vista dei costi…io ho avuto da parte dei proprietari sempre un atteggiamento aperto, disponibile…poi lì c’è questo piccolo orto, e l’idea che si è potuto riproporre un giardino in questa Otranto già così mortificata nei quartieri periferici che sono quartieri di espansione molto squallidi, che hanno distrutto il bordo della costa…


Riprendiamo dal periodo di aridità
Non è che ci si può piangere addosso, poi alla fine uno li fa anche pagare i propri difetti. Io sono stato sempre, o per scelta o per natura, molto ai margini…sono stato un cattivo studente, ho impiegato un mucchio di tempo a laurearmi…mi è sempre piaciuto il mestiere dell’architetto…ora sta diventando un’altra cosa ed io sono di nuovo in crisi, perché ormai bisogna essere dei managers e questo mi sta spiazzando, un po’ per l’età, un po’ perché se io perdo questo tipo di misura, che è il modo di progettare ma è anche il modo di rapportarsi e tutto viene ricondotto a procedimenti molto più evidenti dal punto di vista delle normative, delle scritture, allora io annaspo…è una delle ragioni per cui non faccio quasi mai concorsi, perché appunto capire lentamente mi fa essere sempre fuori tempo…poi sì ho ripreso a dipingere a un certo punto perché avevo poco lavoro…devo dire che è una decina d’anni che ho persone in studio, ma prima non avevo nessuno, solo studenti che venivano a fare pratica, proprio per il tipo di economia, che se solo diventava logica di produzione io non ce la facevo


Questa sua vicenda diventa un modello possibile di applicazione per ricercare la qualità. Si può lavorare con intelligenza anche fuori delle grandi dimensioni professionali
Sì…certo in qualche modo condiziona anche…ma a me non fregava più di tanto , come dire, di apparire. Infatti è arrivato anche abbastanza tardi un certo tipo di riconoscimento; se non si pubblica nessuno ti conosce, se non ti conoscono non ti chiamano. Però io sono stato sempre uno che lavoravo su un lavoro, poi aspettavo un po’…ne arrivava un altro; di conseguenza l’economia era sempre subordinata alla possibilità di poter realizzare dei lavori… se vuole, un atteggiamento un po’ miope, ma…sarà stato che coincideva con gli anni del 68 o del 77, quando una precarietà, sentirsi cane sciolto erano tutti atteggiamenti che mi trovavano in sintonia senza fatica. Questa è casa mia ed è anche il mio studio: io ho cercato sempre di fare cose che non mi creassero assilli economici, perché quello proprio…c’è chi ci gode, io invece ci soffro

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Prospetto
Foto di G. Chiaramonte, cortesia Studio Riva

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Scala
Foto di R. Collovà, cortesia Studio Riva

In una sua rara intervista ha citato Gadda. Mi interessa molto ricercare tra gli scrittori possibili e più lucidi maestri per l’architettura.
Esistono scrittori e poeti che hanno influenza sul suo lavoro?

Direi che sono un illetterato, ho il complesso della cultura. Mi piace Gadda per questo suo modo apparentemente frammentario di racconto. Ma io non sono un buon lettore, anche se di Gadda mi sono innamorato. Per esempio, io non sento la musica perché non ho memoria musicale e sono molto distratto, e questa per conto mio è una cosa di cui capisco il grande impoverimento. Non avere una cultura musicale è la cosa che più mi dispiace. Uno come me poteva capire la musica solo se avesse studiato uno strumento, per capire la struttura della musica, non sentendo in modo passivo. Leggo in modo episodico, anche con la poesia faccio abbastanza fatica. Ho la sensazione di essere come quelle talpe, che capiscono solo quello che toccano, allora non ho questa astrazione intellettuale che permette di dare giudizi al di là dell’esperienza, io capisco tutto attraverso l’esperienza. E’ un modo, se vuole, molto limitato e ho già detto altre volte che sarei stato un ottimo artista di bottega, proprio perché attraverso l’apprendimento di un fare, come facevano una volta i pittori, si arrivava a dell’altro, ed era proprio il modo di procedere nel lavoro che permetteva di acquisire altri livelli


Ancora oggi è un cane sciolto
Direi di sì, sempre meno sciolto nel senso che mi muovo sempre di meno, ma sì…non è che mi riconosca nel gruppo, né il gruppo si riconosce in me, infatti mi ha sempre guardato con sospetto


Esistono architetture e architetti, antichi e moderni che hanno contribuito alla formazione del suo linguaggio?
Sì…fin che vuole, fin che vuole…anzi io sono sempre disposto a ricredermi. Intanto ci metto dentro Le Corbusier, ci metto Kahn, ci metto Scarpa, ne ho già citati tre.
Direi che quello più stupefacente di tutti è Le Corbusier per questa felicità, che poi ho ritrovato in certo tipo di pittura…ma è solo un aspetto.
C’è questa componente più solare e mediterranea che mi viene dal mio essere figlio di un sardo, mio padre era un sardo, anche lui mezzo sardo solo, ma insomma questa solarità e questo recuperarsi attraverso la luce del sole le devo proprio a lui…poi c’è un’altra componente meno solare che viene forse da fatti più privati


I tagli nei solai, gli schermi davanti alle finestre, i colori dei materiali che usa, tutto concorre a realizzare una particolare qualità della luce nelle sue opere.
Quale è la luce che lei persegue?
Cosa significa per lei? E’ forse metafora di qualcosa d’altro?

Lì al sud la luce…casa Miggiano è una cosa stupenda in questo, sembra uno strumento ottico; è esposta a sud-ovest e questo ambiente nell’arco di sei ore continue modifica la luce all’interno, poi con la capacità di riverbero e l’intensità luminosa che ha la luce al sud…lo sporto di un centimetro sembra che esca di un metro a seconda di come si gioca la luce…e questa è una magia che qui assolutamente non conosciamo e che poi con grande capacità Le Corbusier appunto, da Svizzero, ha colto…l’architettura mediterranea ce la vede al nord, senza spioventi, senza sporti…è un’architettura che non ce la fa, ha bisogno di essere protetta…tetti piani? Ho fatto una casa col tetto piano e poi ci colava tutta l’acqua dal terrazzo, se avessi messo una bella copertura aggettante…infatti si è sempre costruito così. Un conto è un grattacielo, che deve godere di alte altitudini, ma anche una casa alta dieci piani…


Come durano i suoi interni?
Come si rapporta alle eventuali modificazioni che subiscono?

Io raramente vado a rivedere le cose che ho fatto, e poi quando un’esperienza è fatta è finita…è un tipo di violenza che noi possiamo fare fino a un certo punto, poi uno abita e ha il diritto di fare quello che vuole. Il valore del mestiere di architetto è il tipo di esperienza che si fa che io trovo estremamente ricca, almeno fino a un certo punto, quando ci si rapporta con gli artigiani, si lavora insieme a loro, soprattutto al sud dove tutto è a livelli più elementari, si ha un bellissimo rapporto umano che io ho sempre amato. Per questo l’architettura progettata per non essere realizzata ho cercato sempre di non farla, intanto perché il tipo di esperienza è, come dire, interrotta, non riesce ad arrivare alle sue conclusioni e alla sua completezza, e anche perché, fino a un certo punto, si poteva in cantiere modificare e verificare. Adesso non si può fare più nulla, ormai si progetta tutto ed è sfinente questo modo di dover prevedere e prevenire tutto…se va bene i colori qualche volta. L’architettura, se è fatta in modo di resistere al tempo, più il tempo passa più diventa migliore. Adesso sempre meno per i tipi di materiali, di fragilità... oggi il problema della conservazione non è più prioritario, si costruisce e dopo venti anni si demolisce…il tema della precarietà io me lo ritrovo, tradotto in altro modo.

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Sala e cucina
Foto di G. Chiaramonte, cortesia Studio Riva

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Sala e camino
Foto di G. Chiaramonte, cortesia Studio Riva

Nella sua architettura c’è tutto un vocabolario di deformazioni, di geometrie incompiute, di tagli indecifrabili; tutto tende a moltiplicare i punti di vista. Come controlla deformazioni, indecifrabilità e molteplicità?
Quale idea unifica tutto ciò?

Come non amo l’architettura classica, così non amo l’angolo retto, mi ha sempre più interessato un’architettura che continuamente non permette la percezione subito di tutto, ma che avvenga attraverso percorsi , attraverso conoscenza…certo ho avuto sempre a che fare con spazi piuttosto ridotti dove il tagliare un angolare non ne permette una lettura immediata e ne aumenta una risonanza.


Difficile il controllo. Come individua i segni essenziali e quelli superflui da eliminare?
Bisogna lavorarci su molto, direi che è quello che ho sempre fatto, perché da arbitrio diventi un fatto che si sostanzi, che abbia una sua plausibilità. A me viene sempre il mal di pancia quando poi devo tagliare un angolo retto, che so che è il sistema anche meno dispendioso di un processo costruttivo, per fare degli angoli acuti o ottusi. Infatti uno dei piaceri ad Otranto era che lavoravamo col tufo che si tagliava con la sega circolare; si poteva fare veramente di tutto, lì non c’erano problemi di spaccare con la cazzuola un mattone o un forato …lì si tagliava come il burro e tutto funzionava, era una delle cose che mi faceva sentire meno colpevole


Nelle sue architetture pone spesso il percorso al centro della composizione.
Che cosa significa il percorso per lei? E’ un tema della sua architettura?
Direi di sì, è il modo più fisico di apprendere la conoscenza di uno spazio. Anche lì succede che riuscire a privilegiare certi tagli, certe aperture, certe angolazioni fa che la percezione della totalità dello spazio avvenga per percorsi


Progettare le comporta sofferenza?
Non lo so…direi che alla fine a me progettare piace molto, adesso più di una volta, quando facevo molta più fatica, non sapevo assolutamente da che parte iniziare …oggi parto bene o male da premesse acquisite, sì…mi piace molto progettare, mi piace molto progettare disegnando, perché, almeno per il mio modo di pensare e di fare, è proprio nella manualità e nel processo creativo grafico che a un certo punto si arriva a delle messe a punto, che poi vengono di nuovo riprese. Io vedo che quando demando ad altri, poi è come se fosse un processo con tutta una serie di interruzioni, non si conchiude. Oltretutto poi, direi che quando divento vecchio, se mi manca il lavoro annaspo. Veramente annaspo perché si diventa più fragili, non esistono altre cose, la mente è molto più libera e non ha, come dire, altre passioni.
Io non ho mai creduto che l’architettura fosse tutta la mia vita o altre balle di questo genere, però diventando vecchio finisce che invece il mestiere dell’architetto sta prendendo molta parte della mia esistenza, sì…adesso purtroppo si è disturbati da tutta questa eccitazione che c’è intorno, dalle immagini, dal modo di recepire le cose che si fanno…io non ho nessuna capacità promozionale, forse una mia indolenza, mi piace che qualcuno mi cerchi e qualcuno mi chieda, se no io per me stesso non farei assolutamente niente …solo che ormai, se una volta il non voler fare niente permetteva di essere appunto cane sciolto, oggi come oggi siccome ci si muove di meno, finisce che invece se ne sente di più la necessità. Adesso è un periodo di molta fiacca, c’è un lavoretto a Brindisi…adesso è ritornato il lavoro di sistemazione del Centro Palladio a Vicenza, che si era interrotto, poi forse si riprende un altro lavoro, la piazza Matteotti a Vicenza, che era lavoro che mi piaceva molto, lo stavo facendo poi il Comune ha interrotto l’incarico, adesso lo ha riproposto, speriamo.


Lei non usa computers?
Lo usano i miei collaboratori, io non so neanche farlo partire. So che oggi si possono avere dei vantaggi, ma…se fossero lavori di grosso taglio…la casa di Brindisi è tutto un gran caos… stiamo diventando matti. Abbiamo pure il problema che non vogliono i serramenti in legno, in una vecchia casa, ma li vogliono metallici tubolari… crea difficoltà. Non che non si possano fare, ma quando si hanno delle aperture che sono misurate su una finestra in legno, vale a dire alte, allora riproporre un altro materiale che non sia un profilo metallico ma un tubolare, fa andare subito in difficoltà. Allora non si fa più l’anta doppia, però allora non si possono fare più le persiane, perché vorrebbe dire sistemi di aperture diversi, una tagliata ed una intera…e allora occorre trovare un altro modo…certo che resistono meglio alle intemperie e alla manutenzione…. vediamo cosa riusciremo a fare…io non sono contrario, ma occorrerebbe usare il computer solo per temi particolari


Lei ha progettato anche spazi urbani.
Che cosa è per lei la città? Quali problematiche individua? Che cosa è Milano?

Il mio rapporto con la città è sempre un rapporto subìto, poi Milano…è come se avessi con lei un conto aperto, è una città che si fa fatica ad amare e che in ogni momento ti delude… in altre città, Parigi stessa, esistono ancora quartieri che si identificano con un loro carattere, mentre Milano è una città che è stata completamente rasa al suolo, è indifferenziata, il consumo ha veramente distrutto la forma di questa città. Questa qui è la zona Ticinese che fino a trenta anni fa era una zona operaia con tutta una serie di attività che non esistono assolutamente più; una città mortificata, la vivo come un contenitore. Non so, a un certo punto avrei voluto abitare a Palermo, mi è sempre piaciuta molto, poi alla fine ci si ritrova ugualmente soli con se stessi e i problemi non cambiano.

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Zona camino
Foto di G. Chiaramonte, cortesia Studio Riva

Casa Miggiano, Otranto 1991-96

Casa Miggiano, Otranto 1991-96
Progetto di Umberto Riva
Camino
Foto di G. Chiaramonte, cortesia Studio Riva

Cosa pensa delle città del sud? Le vive in maniera diversa?
Devo dire che le ultime volte che sono stato a Napoli non ho retto due giorni: un senso di panico per la violenza che ho sentita nella strada…sono andato in motorino e in macchina e non reggevo a questo sonoro, a questo eccesso di vitalità anche…ma le ho sempre amato moltissimo le città del sud. Adesso spero di riavere un lavoro in Sicilia che è fermo da dieci anni. Però direi che alla fine una città per me si riscatta…io non sono un turista, solo le ragioni affettive, di lavoro subito mi danno della città qualcosa, se no ne rimango sempre esterno…
Ultimamente sono stato a New York cinque o sei volte, sto facendo un piccolo arredamento per un’amica…a mio modo ho creato, come dire, il mio habitat che da tutta una serie di privilegi alle mie pigrizie, sarà anche l’aria milanese…ma, come dire, ho dovuto sempre prendere atto e prendere coscienza dei miei limiti. Per esempio a me piacerebbe in fondo conoscere le lingue però sono negato, perché? Ma perché è sempre stato così, io sono stato un bambino che a scuola non ha mai appreso niente, dicevano è un bambino molto buono ma tormentato, ed era vero, perché le mie capacità di apprendimento erano evidentemente di altro tipo. L’apprendimento è sempre avvenuto nel modo che mi sarebbe stato più connaturato. Mi piace dipingere però rimpiango, non so bene, di non averlo fatto diventare un mestiere, di conseguenza sono privato di conoscenze che sono proprio nella scoperta gestuale di impastare un colore, di capirne tutte le potenzialità, e invece devo dare per acquisito quello che acquisito non è. Ma sì, io sono anche molto severo su me stesso, però dico: è sempre una concezione di sé sbagliata, perché uno è cresciuto con tutta una gerarchia di valori e a quei valori poi alla fine si riconduce; invece chi l’ha detto? Ma chi l’ha detto? Perché? Questo culto dell’eccezionalità…ma statti calmo! C’è da avere paura. La nostra cultura occidentale ha fatto in modo di preservarci da tutte le calamità, la nostra vita sta allungandosi, stiamo sempre meglio curandoci, ma il senso, non cerchiamo mai di saperlo, se no ci sarebbe da avere paura


La cura di sé come cura degli altri, ne parlano gli scrittori, i filosofi, Natoli ha scritto della felicità di questa vita…
Ecco, c’è un fatto. Io, come non ho memoria musicale, non ho quasi memoria, faccio una fatica a ricordare, non ricordo i nomi…ho sempre fatto una grande fatica a studiare…non mi ricordo niente infatti di tutto quello che ho studiato, ho impiegato moltissimo a laurearmi, proprio con una perseveranza…se non mi fossi sposato sarei stato un eterno studente, mia moglie mi ha aiutato a finire l’università; proprio perché c’era una sfasatura tra quello che io ero e quello che loro mi chiedevano, poi lasciato in un ambito protetto e cose di questo genere alla fine anche io sono riuscito. Oggi vorrei recuperare il rapporto con il proprio corpo, come modo di nuovo di tranquillizzarsi, non per altro, per trovare degli argini, qualcosa che difenda da tutto un contesto dove si può soccombere. Allora si può trovare una dimensione che riconduca ad altri tipi di equilibrio


Emerge il tema del limite, su cui si può lavorare per trasformarlo in occasione di sviluppo. Il limite, quando non genera rovello, ma quando sappiamo stargli di fronte è una cosa preziosa
Ci umanizza, ci rende più consapevoli delle proprie limitazioni.
Bisogna sempre andare a fondo per quello che si può, per quello che le situazioni permettono, e poi non accontentarsi mai. Io non amo mai quello che faccio, e quando vedo le mie cose rimango sempre molto deluso, ma non per un’idea generica, ma perché c’è dentro un investimento di intenzioni che poi realizzate non si riconoscono più


La sua architettura non propone mai "affermazioni " , come lei ha detto, ma sempre spunti dinamici. Questo si traduce nel rifiuto della "soluzione prefigurata" a favore di una ricerca che si rinnova di continuo. Sembra che questa si traduca poi in una ricerca di vita.
Cosa può dire a quanti si interrogano sull’architettura e sull’etica.

Io trovo che c’è un’intelligenza del fare, che però si apprende, non è che già si sappia, e ogni volta bisogna liberarsi di tutte le scorie apparentemente culturali, formali, di facile apprendimento, per andare al nocciolo delle questioni. E l’etica c’è, c’è una moralità del fare. Io mi preoccupo sempre moltissimo della destinazione delle cose, non riesco a sottovalutare niente né dare niente per inesplorabile, poi certo bisogna fare i conti con i modelli che vengono proposti o richiesti. Va bene quando si trova gente come Miggiano o qualche altro caso, che non hanno solo una struttura culturale. Sono anche loro cani sciolti, cioè gente che non ha affermazioni; infatti mi trovo meglio in questo periodo che ho lavorato per i Comuni, ti chiedono una cosa che è quella, ma poi non intervengono, casomai poi ti fregano in altri modi. Ma…ormai devo vincere anche delle grandi pigrizie, per quello mi va bene Milano, bisognava avere il coraggio a un certo punto di andarsene, però Milano era l’unico posto in cui c’era la possibilità di lavorare

Poi abbiamo parlato di altro, preso un caffè e ci siamo salutati, io con la pienezza che l’incontro con un Maestro avvenuto sul piano intenso dell’umanità solo può dare.

A Milano, il 15 febbraio 2002