Architettura

Conversazione con Tobia Scarpa

A cura di Ivana Riggi

Pigreco, 1959

Il mondo di oggi è un gran caos che riporta allegoricamente alla mente il film “Prova d'orchestra” di Fellini. C'è scarsezza di afflato: ognuno suona il suo strumento, spesso senza accompagnarlo con gli altri. A risentirne, naturalmente, è anche il panorama contemporaneo dell'architettura e del design in cui, a mio giudizio, diventa sempre più difficile ed impegnativo comunicare e raccordarsi.

Converseremo con l'architetto Tobia Scarpa; curiosi ed attenti, ascoltandolo, ricordando la concretezza del  suo lavoro, schivo ai “fili di fumo”, cercheremo di riflettere per poi, magari, tentare nel nostro piccolo di accordare una musica in scala maggiore…



Architetto, in che modo e perché  inizia la sua carriera?
La fame.
Era il dopoguerra, io ho cominciato a lavorare nel 1956-57. Erano anni in cui non c'era benessere: le nuove generazioni che si affacciavano, pur avendo il desiderio di concretizzare il mondo a propria immagine, mostravano molta titubanza su quali strumenti potere usare. Soprattutto nell'area veneziana non esistevano fabbriche, attività: la guerra aveva assopito tutto. C'erano delle industrie ma erano quelle chimiche, di natura diversa e per un architetto di allora la plastica non esisteva. La progettazione verteva ancora su materiali antichi; c'era la preoccupazione di non potere fare, di non trovare un posto che ti potesse accettare. In questo senso ciò che mi ha spinto a lavorare era la fame.

Fantasma, 1961

Biagio, 1968

Biagio, 1968

Tamburo, 1973


Papillona, 1975

Ray - Mizar, 2004

Silk, 2004

Nastro, 2007


Libertà, 1989

Vanessa, 1962

Vasi per Venini, 2006

Vasi per Venini, 2006


Maglieria Benetton, 1964

Casa Luciano Benetton, 1966

Casa Scarpa, 1969

Casa Tonolo, 1979


Casa Tonolo, 1979

Casa Molteni, 1985

Casa Molteni, 1985

Uffici Benetton, 1986


Uffici Benetton, 1986

Casa Daolio Guastalla, 1988

Casa Daolio Guastalla, 1988

Villa Loredan, 1992


Villa Loredan, 1992

Palazzo Sport Lommel, 1995

Palazzo Bomben, 1999

Benelog, 2009

Era una motivazione molto forte, è possibile che manchi a molti giovani contemporanei?
I giovani contemporanei hanno una visione completamente diversa con altre problematiche e vedranno il mondo con prospettive dissimili dalle nostre. Io compirò settantacinque anni alla fine di quest'anno, penso che sia quasi un secolo e un secolo fa tanta cosa! É sempre la trasformazione quella a cui noi assistiamo; una trasformazione di comportamenti… Sono reduce da un viaggio in Africa e lì sono tutti con il telefonino: è impressionante che nella costa del Nord Africa tutti lo abbiano! Ce lo hanno, oramai, come strumento radicato, come un' appendice. Per noi il telefonino è qualcosa di recente mentre  per loro si è connaturato in maniera rapidissima, come per i giovani da noi. Probabilmente non sanno nemmeno da quando tempo sia venuto fuori e questo fa la differenza!

Come nasce la sintonia con le aziende con cui lavora o ha lavorato? Sono stati rapporti maturati nel tempo, istantanei o, magari, costruiti sul nascere di entrambi?
Ciò che mi muove è la speranza di realizzare un'azienda illuminata, colta, capace di un pensiero rivolto al futuro. L'unico industriale che conosco è stato Adriano Olivetti, a voltarsi per guardare indietro: fallimento su tutta la linea.

Beh! È una risposta dura!
In verità è così. La forma, la mentalità, l'atteggiamento degli industriali che ho conosciuto io erano un prodotto che aveva avuto origine nell'artigianato; erano persone che sapevano e avevano in mano un mestiere e non una visione. Quindi la prima cosa che a loro interessava era il guadagno, il quanto e subito. Era tutto diverso da come si sognava: noi siamo degli intellettuali e quindi con poca esperienza nella prassi del mondo della contrattazione e della gestione dei prodotti sul mercato. Ho trovato una grande intelligenza, una grande sensibilità nella famiglia Benetton però non è nel mondo del design nella maniera più precisa; sono degli industriali che hanno lavorato nel settore della moda. Lo hanno fatto con molta attenzione, con molta capacità di visione; adesso che sono trascorsi molti anni hanno anche il desiderio di rappresentare questo loro successo in maniera sostanziale attraverso le architetture. Forse sono state le buone prove che ho avuto occasione di offrire io a loro a farli convinti che l'architettura è un grande strumento di comunicazione “nel tempo”.

Cito alcuni passi delle ”affinità elettive” di Goethe:
 « (…) L'architetto, lo scultore hanno tutto l'interesse che l'uomo si attenda da loro, dalla loro arte, dalla loro mano un prolungamento della propria esistenza; per questo vorrei monumenti ben ideati e ben fatti, che non siano disseminati qua e là a caso, ma vengano eretti in un luogo in cui possano durare. (…) In generale il problema è quello dell'invenzione e della sua giusta esecuzione. (…) Schizzi per monumenti di ogni tipo ne ho raccolti molti e, se verrà l'occasione, li potrò mostrare: ma il più bel monumento resta pur sempre l'immagine stessa dell'uomo »
Li trova attuali? Che peso dà nel suo percorso progettuale alla “immagine stessa del'uomo”?
Ho sempre pensato che ogni azione che realizza un manufatto destinato a durare nel tempo diventi di per se stesso immagine del suo creatore.
L'architettura o la moda del nostro tempo è il perfetto ritratto di chi siamo.

Chi siamo?
Veda, lei ha inserito una cosa molto particolare che è quella che fluisce dentro le cose e che è quella dell'innamoramento.
Tutti gli artisti sono narcisisti, sono narcisi che si guardano nel fiume  e poi alla fine capitombolano mentre muoiono. Innegabilmente non bisogna essere narcisi, d'altra parte la logica del narciso è la logica di chi si offre.
Anche se capita in un'epoca buia l'artista rappresenta l'intelligenza, che pur essendo sempre presente, non ha strumenti per rifulgere e potersi rappresentare.
I momenti migliori sono quelli di grande magia quelli in cui avvengono le grandi trasformazioni.
Vediamo personaggi come Leonardo: non era l'unico che inventava le macchine, ma era l'unico “artista” che inventava le macchine e quindi gli dava un qualche cosa di più che allo specialista mancava. Ecco il narciso che viene fuori e che si prodiga per l'invenzione affinchè sia straordinaria! L'elemento della straordinarietà è la parte profonda del narciso che vuol farsi amare. È uno dei modi di vedere la cosa, ma indubbiamente è uno dei modi che si lega anche al lato della rappresentazione.
La società è anche lei narcisa e vuole rappresentarsi: quando è miserabile, stolta, ignorante è allora che vuol farsi bella. Io posso dare solo informazioni in negativo di questo tempo in cui vivo: pur cercando di ottenere risultati ed avendo occasioni fortunate, quando mi guardo in giro trovo un elemento ostile a quello che è il canto pieno, il canto a piena voce. Si deve invece cantare modulati, bassi perché altrimenti si infrangono regole non scritte, non condivise soprattutto.

C'è troppo egocentrismo?
Io direi che c'è troppo egoismo, una società come la nostra è come un grande formicaio in cui le formiche vorrebbero farsi riconoscere una per una e quindi c'è qualcosa che non funziona. Nella società del grande numero non si può essere più il singolo, perché se si è tali si è in distonia con la struttura, questo produce, anche sul piano della politica ad esempio, il fatto di non accettare delle regoli comuni ma sempre delle opportunità. Questo causa un disagio non solamente formale, ma di sostanza.

Come riesce a concentrare  creatività e coerenza?
Un  fiume è composto da un alveo e dal flusso dell'acqua. Similmente la fantasia e il rigore procedono come il fiume, magari le regole che governano il percorso di un progetto sono diverse da quelle che governano il fiume o di un corso d'acqua ma l'immagine mi sembra corretta.

Mi sembra perfetta!
Noi siamo in questo flusso del fiume ( potrebbe essere anche il flusso del tempo) in cui tutti gli elementi che compongono l'acqua si muovono armoniosamente oppure, invece, sono tormentati da velocità disordinate e discordanti e quindi sono dissonanti nel loro muoversi…

Oggi esiste un confine netto tra artigianato ed industria o i ruoli si stanno frapponendo? Se sì, con che conseguenze?
La distinzione non ha basi veritiere oggi abbiamo artigiani con tecnologie evolutissime e industrie ancora nell'età della pietra.
Basta pensare che per fare una navetta che va nello spazio si realizza un solo oggetto e che quello successivo è già evoluto rispetto a quello mandato prima… C'è, però, tutta una scienza dietro, tutto un calcolo, una preparazione. Lo stesso fa l'artigiano che produce secondo una conoscenza, una sapienza propria che ha impiegato molto tempo della sua esistenza per apprendere e realizzare l'oggetto, quasi sempre felicemente. L'industria pretende che l'oggetto sia anonimo, cioè senza anima e lo produce automaticamente senza riflettere intorno alla qualità. Questa non riflessione impedisce all'industria di reagire al muoversi del tempo. Quando le cose  cambiano l'industria non se ne rende conto. L'esempio probante è questo: quando l'Italia è uscita dalla disfatta della guerra e ha incominciato a ricostruirsi aveva le industrie più avanzate rispetto ai paesi che avevano vinto ma che possedevano le industrie vecchie e che non si erano rinnovate. È stato stupefacente il boom italiano ed ancora non era  letto nella chiave giusta.
Lo stesso vale per i paesi emergenti di oggi come l'India, la Cina, al di là del fatto che consumano l'energia in maniera scorretta ma questo non dipende solamente da loro, hanno delle produzioni qualitativamente e potenzialmente al di sopra delle nostre. Ecco queste sono le differenze.

Le pongo una domanda che sta sorgendo adesso, è più poetico il prodotto di un artigiano o quello che esce fuori da una macchina?
La strutturazione dei meccanismi di veicolazione  dei prodotti sul mercato che danno origine all'immagine del design, del prodotto del disegno, devono avere  immancabilmente un timbro che è il progettista design che lo offre. Potrebbe essere benissimo anche il progettista artigiano che lo dà, solamente che questi ha un percorso di apprendimento diverso dal primo che spesso gli impedisce di accedere correttamente all'informazione di sé. La conoscenza del  fluire delle informazioni tiene a margine l'artigiano, perché la cultura del mercato o, diciamola più brutalmente, la cultura della moda è un qualcosa di mostruoso che passa attraverso l'esercizio dei media: io faccio un qualcosa e la veicolo prima attraverso l'informazione e poi attraverso la vendita. L'artigiano fa fatica a compiere questo passo. Nel discorso della poeticità si può passare da una che è vera ad una che è retorica: il designer che veicola la propria attività attraverso i media fa della retorica e la dimostrazione è la ripetitività dei suoi gesti; l'artigiano, che  è rimasto indietro, non è capace di dare una risposta ed è silenzioso. L'artigianalità è semplicemente, nel percorso del tempo, un modo di un essere umano che parte dal presupposto di conoscere profondamente i metodi e gli strumenti che si usano per ottenere un risultato attraverso i quali riesco a dominare la capacità poetica. Nella  media attuale la capacità di dominare strumenti per esprimere poesia è limitata dall'ignoranza.
Questo è quello che credo sia ragionevolmente vicino alla realtà.

Come vive il passaggio attraverso la modernità?
La modernità è già passata ora dobbiamo essere consci di cosa vogliamo dalla contemporaneità. Oggi tutto è presente, da qui la grande cacofonia.
Il moderno è finito nel 1500 e noi lo stiamo usando ancora in maniera pubblicistica diciamo: “la modernità”, “il moderno”… È una forma profondamente pubblicitaria di un atteggiamento che corrispondeva alla volontà di trasformare il mondo da parte di un pensiero: il Bauhaus, tutti i modernisti alla Le Corbusier, alla Gropius, tutti i movimenti che si sono mossi. L' Italia non c'era naturalmente, perché c'era il fascismo, l'unica cosa che ha espresso è stato il futurismo che è stato poi trasformato in fascismo e si fa confusione perché esso non lo era all'inizio ma lo diventò dopo.

Lei crede che in un processo progettuale occorrano obbligatoriamente tempi lunghi e di meditazione?
Dipende.
Per esempio se un problema mi è familiare o mi rappresenta mi diventa più facile accondiscendere a delle soluzioni. Dico accondiscendere perché evidentemente sono passaggi in cui si analizzano temi che possono essere risolti in più maniere. Naturalmente il gusto, la cultura, la scelta emozionale fanno sì che uno di questi venga premiato e una di queste soluzioni venga accolta divenendo l'oggetto finale.
Ogni persona, ogni situazione è differente; l'intuizione che illumina tutto può essere istantanea mentre in altre occasioni bisogna che ci sia una sedimentazione lenta, sempre per arrivare a quel punto di semplicità del passaggio. Bisogna che tutti gli elementi componenti la soluzione del problema siano pacificati fra loro, altrimenti abbiamo distonie. Si possono risolvere i problemi brutalizzando però non abbiamo poeticità. La poetica nasce dall'armonia.

Mi racconterebbe qualche esperienza progettuale che ha particolarmente catturato la sua attenzione? Non mi riferisco solamente al design, ma anche all'architettura e agli interventi di restauro.
Guardando indietro nel tempo la cosa che mi inorgogliva era quella di trovare sempre appena entrato in un cantiere la situazione che abbisognava del mio intervento.

La trovo una risposta onesta!
Ero molto orgoglioso di conoscere il mio mestiere, perché io l'ho imparato da bambino. Le cose si devono imparare da bambini non da grandi, quando si va all'università è troppo tardi. Il mestiere del vetraio, ad esempio, lo imparavano i bambini a sei, sette anni: andavano a servire tirando su il pallino di vetro o rompendo dentro il contenitore i vetri che dopo venivano riutilizzati nelle fusioni successive. Queste cose che sono  del passato e che danno esempi folgoranti di eleganza sono date da gente che, soffrendo la fatica del quotidiano, aveva anche il merito di presentarsi con umiltà.

Come spiegherebbe ad un bambino curioso che cos'è l'architettura?
È talmente tante cose che a un bambino curioso, veramente curioso, dovrei dedicare completamente tutto il mio tempo. Diventerei, allora, il suo maestro e lui il mio discepolo. Non sarebbe più necessario tentare di spiegare cos'è l'architettura.
Insegnare una cosa ad una persona significa accompagnarla durante l'arco di esperienze che non possono essere le sue ma quelle di chi insegna. Costui deve essere così modesto da sapere che sta aprendo il suo cuore ad un altro che potrebbe anche essere libero di rifiutare. È molto difficile: perché significa donare se stesso; se questo non avviene non è un insegnamento ma un' applicazione di informazioni che è diverso!

Quanto esiste di magico nella progettazione e cosa?
Tutto, anche i sogni.

Ma lei cosa sogna?
Uno dei miei sogni sarebbe quello di avere la mia piccola barca a fianco della mia casa oppure una barca sufficiente a contenermi per tutta la vita e andare alla deriva.

L'immagine dell'acqua è presente sempre…
Beh, sono nato a Venezia, amo il mare, amo questa solitudine solare oppure notturna del mare. L'acqua è un senso di vitalità sommessa, grandissima, è bella!

Regalerebbe ad un amico architetto delle cose che per lei sono importanti (anche in senso allegorico…), se sì quali? In questo mestiere che rilievo si deve dare alla “generosità”?
a generosità è la cosa più importante nelle sue innumerevoli fattezze.

Però non ha risposto alla prima domanda…
Regalerei qualsiasi cosa, tutto. Potrei farlo anche con una persona che conosco da poco, mi spoglierei delle cose che desidero di più o che amo di più. In questo modo do vita all'oggetto, do vita al gesto. Molto spesso rimpiango di averlo fatto, però alla fine resto soddisfatto lo stesso.

È una memoria che mi sta affiorando adesso: qualche tempo fa ho ascoltato un'intervista all'attrice Franca Valeri. Mi ha colpito molto un'affermazione in cui dichiarava che ai suoi tempi le persone più grandi erano molto più generose con i più giovani. Lei concorda con questa testimonianza, erano più prodighi?
Non sono in grado di andare troppo indietro nel tempo, posso tornare al tempo della guerra  e devo dire che il rapporto fra le persone era molto più sollecito nei bisogni dell'altro. C'era il riconoscimento di un obbligo in cui si dava soddisfazione ai bisogni primari. Era facile salvare un uomo.
Esiste una racconto bellissimo della storia dei ritorni dei soldati che scappavano  dalla Russia: ad un certo momento della narrazione un soldato si rifugia in un casolare, entra dentro e trova tutti i soldati russi là ed è disperato, affamato, mezzo morto di stanchezza. La padrona di casa gli dà da mangiare, lo fa dormire e l'indomani l'uomo va via senza che nessuno gli abbia fatto niente. Io trovo questo un basamento sufficiente per potere costruire un universo umano di valore: un riconoscimento dei bisogni dell'altro; non è generosità.

I ragazzi a cui insegna le trasferiscono qualcosa? Che differenze nota con la sua generazione scolastica?
I giovani per loro natura sono generosi e questo è bellissimo. L'insegnamento nella scuola, università, è molto difficile, il tempo è poco e le cose che si dovrebbero insegnare abbisognano di molto più tempo. Molto.
La scuola è qualcosa di strano, così come è attualmente, è come un grande formaggio dove tutti i topi, i professori, vanno a mangiare facendo buchi profondi. Gli studenti purtroppo coabitano con questi sorci… Il formaggio apparentemente dovrebbe essere la conoscenza in realtà è la scusa per appropriarsi di aree, di situazioni. Non so cosa dire, io trovo questi ragazzi meravigliosi quando arrivano, poi si appoggiano al sistema e si perdono e diventano uguali ai professori. I giovani sono ancora puliti e sono straordinari, la difficoltà è mantenersi tali durante l'arco della propria vita. Non importa quale sia la ragione che ti salva: puoi essere stupido, impotente, incapace, puoi essere intelligentissimo e fare delle scelte opportune, puoi essere un santo… tutte queste cose sono indifferenti, l'importante è il risultato.

Concludendo, identifica il futuro con  il termine “problema” o “soluzione”?
A sentire Chatwin quando racconta le storie degli aborigeni ne Le vie dei canti sembrerebbe che il futuro sia la parte mancante di una pista.
C'è questo messaggio: gli aborigeni australiani dividono la vita di un uomo, la considerano come se fosse un passaggio, una traccia lasciata e il cacciatore che segue quella traccia sente ancora il profumo dell'uomo che è passato. Si utilizza il termine profumo in senso positivo per indicare la memoria che formula un desiderio di conoscere, un desiderio di appartenere insieme a una certa situazione proprio perché la qualità che emana da questa traccia è una cosa che ti fa star bene. È come entrare in una casa in cui  si è felici e sentire il profumo del buon cibo, della buona manutenzione della casa pulita: trovi il sorriso delle persone felici che vi abitano.

Avevo anticipato questa conversazione riflettendo sulla scarsezza di afflato; dialogando con Tobia Scarpa si è arrivati a toccare diverse corde fino ad arrivare alle Vie dei canti. Io credo che il profumo dell'uomo che è appena passato ci accompagnerà per parecchio tempo…


Note biografiche
Classe 1935, Tobia Scarpa si laurea alla Facoltà di Architettura di Venezia nel 1969. Lavora nel campo del design, dell'architettura, del restauro. Dal 2000 accompagna la professione con l'insegnamento alla facoltà di disegno industriale ClaDIS di Venezia.

A testimoniare le sue eccezionali capacità:
il Compasso d'oro ADI del 1970; il Compasso d'Oro, Segnalazione d'Onore ADI del 1979; il Resource Council Inc. del 1981; il Neocom merit Award del 1982 a Chicago;il Primer, Premio Nacional De Diseño Otorgado  del 1987; l'Auszeichnung für hohe Design Qualität del 1992 e l'IF Industrie Forum Design Hannover dello stesso anno. Molte delle sue opere albergano nei musei più importanti del mondo; l'Istituto Italiano di Cultura di Chicago gli ha dedicato nel 2004 un'importante esposizione itinerante nelle più importanti città americane: Chicago, San Francisco, Toronto, Los Angeles; Il Compasso d'oro ADI alla carriera nel 2008.

Lavora con le aziende B&B Italia, Cassina, Flos, Gavina (Knoll Internetional), Goppion, IB Office, Maxalto, Meritalia, San Lorenzo, Stildomus, Unifor, Veas, Cadel, Casas,Molteni.

È uno dei maggiori progettisti di tutta l'architettura industriale del gruppo Benetton.

Tra i progetti d'architettura ricordiamo:
fabbrica C&B Italia a Novedrate, casa Benetton a Paderno, casa Zamprogno a Treviso, casa Scarpa a Trevignano, Villa Fragiacomo a Trieste, casa Lorenzin ad Abano Terme, casa Molteni a Carimate, casa Meroni a Carimate, casa Tonolo a Ponzano, il complesso industriale della Benetton Group, lo stadio di atletica polifunzionale di Lommel (Belgio), il Palazzo dello Sport di Salerno e la sede dell'Interporto di Padova.

Tra le opere di restauro:
Barchessa Villa Lia a Treviso, Punto Sip a Treviso, Palazzo Del Monte a Reggio Emilia, complesso trecentesco a Treviso, i progetti per il restauro di Via Isola a Treviso e Villa Loredan a Volpago del Montello, Villa Guarnieri a Ponzano Veneto, la Loggia dei Cavalieri a Treviso, i Palazzi Bonati e Brusati a Carpi, il Palazzo Bomben-Caotorta a Treviso, le Gallerie dell'Accademia di Venezia e il Palazzo del Mercato Vecchio a Verona, il Palazzo della Regione a Verona.