Architettura

Le schegge di Vitruvio
di Lara Vinca Masini

Ho letto i testi relativi al convegno "Le schegge di Vitruvio" dedicato a Giovanni Klaus Koenig, in particolare quello di François Burkhardt relativo al metodo critico di Koenig, alla sua scelta di campo, dall’architettura organica al recupero dell’Espressionismo in architettura, alla sua attenzione nei confronti delle culture minori periferiche e marginali. Di qui i suoi rapporti, al momento della contestazione, di curioso e favorevole interesse (vicino, in questo, all’allora preside Giuseppe Gori) nei confronti della nascente "architettura radicale" fiorentina ... in una sorta di intuizione per quanto riguarda il futuro dell’architettura.

In questo senso mi sono sembrati fondamentali il testo introduttivo di Lino Centi "L’indice scheggiato" e quello di Jean Nouvel "Progettare la modernità".

Centi si chiede in che misura l’architettura sia coinvolta nella generale frammentazione della conoscenza, nella frammentazione del sapere e del contrapporsi delle varie forme di progetto: e individua una risposta nella capacità di narrare dell’architettura, "che appena mezzo secolo fa era celata dal "bello", dall’"uomo", da un’estetica decotta e da un antropomorfismo prêt a l’usage"; oggi emerge come carattere fondante, non solo dell’architettura, ma anche dell’arte e del design. Secondo Jean Nouvel il ruolo dell’architettura, oggi, "consiste nel modificare una materia esistente, la materia urbana ... a partire da un catalogo che non è tipologicamente identificato, ma che obbliga, ogni volta, ad una diagnosi; ogni progetto di architettura dovrebbe, oggi, partire da un atto di analisi, da un atto concettuale ...

L’interesse dell’architettura dovrebbe andare anche verso le discipline dell’immagine legate alle arti plastiche alla scienza, alla tecnica,.. Si assiste, attualmente (aggiunge ancora Nouvel), al deterioramento di tutti i modelli culturali, come il postmoderno in architettura, che è solo la parodia e l’indebolimento dei modelli storici e culturali... "Sostengo" dichiara anche "che la storia e la modernità sono amiche e che la sola cosa che ci interessa nella storia dell’architettura è un susseguirsi di modernità. Sostengo che la modernità di ieri non e quella di oggi perché essere moderno consiste nel fare il migliore utilizzo possibile della nostra memoria, nell’andare il più velocemente possibile nel senso di una evoluzione delle tecniche e del pensare. Tutto ciò che è nell’ordine del neo-, dunque della copia, è nell’ordine della necrofilia e della rinuncia del proprio ruolo sociale e morale" ...

E ancora: ci interessa, oggi, il simbolico, i problemi connessi alla luce, quelli della materia. "Vogliamo entrare nell’estetica del miracolo, dove non si capisce come le cose sono fatte, dove tutto accade nelle interfacce, unicamente perché c’è un piccolo punto: si capisce che l’elettricità si trova lì, e che l’edificio tiene".

Dall’inizio della storia dell’architettura l’architetto si batte contro la pesantezza, contro il caldo, contro il freddo. "Perché ci sono tanti docenti di architettura, altrettanti architetti, che rifiutano di vederlo? E perché ce ne sono altrettanti, in Italia che sembrano come accecati dalla storia?"

Mi sembra un’analisi esemplare, e una conferma di quanto vorrei definire la "memoria del futuro".

Nella nostra cultura, in cui si è proposta, come ha scritto Lyotard "la liquidazione dell’eredità di tutte le avanguardie, l’intellettuale, l’artista, hanno assunto l’atteggiamento di un nomadismo culturale che ha permesso loro di ripercorrere il passato attraverso fughe di memoria, e di riproporre, in termini antistorici, ogni momento della storia in contemporanea con gli altri, annullandone le valenze temporali.

Si tratta di una memoria intesa come recupero di brandelli del passato, che si riusano come orpelli privi di contenuti, a fini solo simbolicamente ironici, decorativi, che si impongono con una loro presenza allo stesso tempo "anomala" (per i suoi riferimenti a momenti diversi, lontani dal nostro vissuto) e "consueta" (perché composta di frammenti noti alla memoria collettiva, seppure in contesti storici diversi).

Credo che, a questo punto, occorra uscire da questo impasse, per recuperare il tempo e la storia non come campi di spigolature, ma nelle loro potenzialità di svolgimento lineare, non accelerato quale quello che, invece, viviamo.

Si tratta di riconquistare un altro concetto di memoria, di quella che vorrei definire "la memoria del futuro", una memoria non ripiegata su se stessa, ma usata come stimolo per il recupero di una creatività nutrita di una linfa nuova, che ritrovi, anche nel passato, una sorta di preveggenza di un futuro non scontato.

La memoria del futuro così intesa ha un D.N.A. la cui struttura è formata da tratti lineari discontinui, legati insieme da nodi di raccordo. La sua complessità richiede perciò una analisi diversa da quella che si identifica (si e visto) con l’idea stessa di memoria. Partendo da questo quadro di riferimento bisognerebbe parlare di selezione o di trasmissione genetica. Questo perché la memoria trascina con sé anche brani di realtà, ormai perduti, che non arrivano ad essere geni, poiché restano elementi frantumati, per se stessi di assoluta inutilità.

La memoria del futuro appartiene più all’anno mille che al duemila in quanto la moltiplicazione della quantità corre ormai con un rapporto di accelerazione costante, che condiziona fortemente la qualità.

La memoria dell’anno mille è invece costruita sulla linearità costante del tempo il cui nodo di raccordo è rappresentato dalla cultura conventuale.

L’accelerazione è invece la grande mutazione che si è verificata nel nostro tempo, ed è con questa che l’artista deve confrontarsi, per cui il suo territorio si allarga insieme alla sua curiosità: in questo senso l’artisticità acquista una dilatazione espansiva che va dallo spazio architettonico, alla comunicazione, alla scienza. Questo tipo di rapporto, che è in fase di assestamento, non ha niente a che fare col concetto di integrazione che era alla base del programma del Bauhaus e delle successive ipotesi di integrazione tra le arti.

Non si tratta, infatti, oggi, della creazione di una scuola integrata di arti applicate.

È proprio il tipo di artisticità che nel nostro tempo sta cambiando. Le nuove generazioni, infatti, non vedono alcun confine e non si pongono alcuna domanda a-priori sulle differenze tra quel che è arte, architettura, scienza.... Cercano un rapporto immediato, di impatto "sensoriale", qualcosa che "diventi loro" e nel quale riconoscersi.

Dal Rinascimento fino ad oggi, ad esempio, il Museo ha rappresentato il raccordo nodale che aveva, per così dire, sostituito il convento; oggi anche il museo, nonostante la sua continua moltiplicazione sul territorio, ha perduto il suo requisito nodale.

Duchamp per primo aveva intuito questa forma di accelerazione ponendosi ironicamente come un masso per arrestarla. Il suo museo è una scatola a sorpresa, una valigetta portatile.

La sua arte si svuota di tutto per diventare quotidiano, il suo pensiero si ferma ad un tavolo di scacchi.

Marcel Duchamp: L.H.O.O.Q (1919) ready - made modificato

Duchamp non aveva visto le immagini a catena della riproduzione contemporanea, ma le aveva avvertite attraverso il feticismo della Gioconda.
Con la sua Gioconda con pizzo e baffi del ‘19 Duchamp, come scriveva Argan "non vuole sfregiare un capolavoro. ma contestarne la venerazione che gli è tributata passivamente dall’opinione corrente"
Egli gioca, dunque, col disagio che l’accelerazione crescente comporta.
Non si tratta solo di un nuovo linguaggio, ma della presa di coscienza di una nuova apertura verso la complessità del reale, che egli indaga con una freddezza quasi scientifica.
E va notato che quello di Duchamp è un mondo legato, comunque, alla realtà concreta, il suo è un mondo che corre parallelo, senza che i due si tocchino, a quello dell’astrazione, che nasce, anch’esso dal confronto attrattivo che l’artista ha col mondo della scienza contemporanea.

Lucio Fontana: Concetto Spaziale: attesa (1963)

Basterà pensare, ad esempio, al tema del "Concetto spaziale" di Fontana.
O ai "Grandi Neri" di Burri, simili a macigni granitici posti a segnare un tempo inesistente o che solo l’artista, nel suo rapporto con lo spazio cosmico, conosce.
Oppure pensiamo alle opere di Richard Long o di Anish Kapoor che si riappropriano dell’indagine scientifica e investono tematiche inquietanti come quella dei Buchi Neri.
Questa accelerazione continua, che sembra girare su se stessa uccidendo il tempo e creando solo il disagio di un’attesa di qualcosa di sconosciuto è, nella maggioranza dei casi, rifiutata a-priori. L’operazione postmoderna nasce, in sintesi, da questo disagio, al quale si cerca di porre rimedio contrastandolo con nostalgie di memoria ormai in frantumi, o di culture passate. Il nuovo è costruito su una traslazione falsificata che diventa solo immagine spettacolare, immagine che, peraltro, non contrasta, ma aggiunge noia mortale al disagio di attesa.
È spesso ripetitiva.
Questo tipo di architettura è costituita di pezzi avanzati di memorie frantumate e di culture perdute.
Ed è, in ultima analisi, incongruente.

E mentre nuovi contenuti e nuovi profeti sono impegnati a intrattenere gli adulti, i giovani provvedono a se stessi attraverso la deformazione del proprio corpo. I capelli colorati, i tatuaggi, il piercing, cioè il forarsi tutto il volto con anellini, palpebre e lingua comprese, e ancora la droga, le fughe nel vuoto ... È brutto, fa male, è un indice drammatico della noia che è grande. È lo stesso contrasto che l’arte ci ha presentato quando ha allargato il suo dominio al territorio del corpo attraverso la Body Art.

Questo meccanismo che il nostro tempo genera ed ha generato, non ha ancora il suo punto nodale.

Ed è questo il grande interrogativo. Esso infatti ha dilatato il territorio in un area senza confini, e questo, se da una parte crea smarrimento, dall’altra genera anche una forma liberatoria. A tutto questo però manca un raccordo che, come si è detto, non è più, per l’arte, identificabile nel museo.

Il concetto stesso di museo, infatti, comporta quello di selezione; selezione che oggi è impossibile operare, in quanto operazione priva di senso, fuori dal nostro tempo frantumato.

Guggenheim Museum a Bilbao di F. Gehry

L’ultimo grande museo è quello di Bilbao, di Frank Gehry.

Ma quello non è più un museo, è un’opera, un simbolo, un grande fiore pop, molto americano. Il museo è fatto per un contenuto, per contenere. Bilbao è un’opera d’arte in quanto supera i contenuti. È quella trasfigurazione del territorio attraverso il gesto artistico che è presente in tutta l’architettura decostruttivista. È andare incontro all’esorcista che ci libera dall’idea del museo stesso.

il Guggenheim di New York di Frank Lloyd Wright

C’è stata, comunque, una premessa, che impressiona per la sua carica di anticipazione: è il Guggenheim di New York di Frank Lloyd Wright.

Anche questo lavoro è un’opera d’arte a se stante che, per essere utilizzata, è stata anche manomessa dal direttore, che era allora (anni cinquanta) Sweney; comunque la sua dimensione, ancora a misura d’uomo, rende meno evidente e meno impositivo questo suo carattere di "opera" fine a se stessa.

Ma c’è in Europa, un altro museo, quello ebraico di Libeskind a Berlino.

È in questo che, a mio avviso, si manifesta il profondo rapporto con le componenti artistiche della nuova architettura, per meglio dire con le connotazioni caratteristiche delle arti plastiche, che sono generalmente "altre" da quelle architettoniche: una profonda sensibilità europea, il senso "pittorico" della luce e dell’ ombra, una drammaticità quasi letterari. Ma anche questo non è un contenitore di opere d’arte. È, semmai, un grande archivio, una biblioteca, che può contenere ed esaltare i documenti drammatici della shoà.

Tornando al discorso iniziato sul Decostruttivismo questo, in architettura, ha due grandi punti di riferimento: il Costruttivismo russo degli anni Venti e la decostruzione poststrutturalista degli anni Settanta. E mentre in filosofia e in letteratura il tema si colloca all’interno del postmoderno, in architettura sembra voler riprendere l’eredità del Movimento Moderno, rifiutata dal Postmodern architettonico. In realtà il Decostruttivismo sembra voler rappresentare una cesura nella corrente del progetto, in quanto partendo da una "realtà decentrata", che ha come base la periferia nei suoi molteplici, e spesso disastrosi aspetti, stravolge l’immagine stessa - e il concetto – di architettura superando l’idea di Moderno. Non si propone come un nuovo movimento né‚ tantomeno, come un nuovo stile, essendo le sue basi soprattutto filosofiche e non teoriche (il suo esegeta, si sa, è il filosofo Derrida).

Si pone, peraltro, come atteggiamento, come spinta liberatoria, come un assurdo che diventa forma, per cui ogni progetto è un pezzo autonomo, che contiene in sé‚ tutta l’individualità del progettista. Si tratta di un processo progettuale che ha come base l’invenzione la leggerezza, perché‚ si presenta senza ideologia, in quanto vuole interpretare fino in fondo l’attualità nella quale siamo immersi. Basterà pensare, appunto, ai lavori di Gehry, di Libeskind, degli Himmelblau Coop, di Zaha Hadid, di Koolhas di Eisenman ...

Un altro passo penso sia stato compiuto dai Nuovi Postminimalisti che si rifanno allo strutturalismo tecnologico macrostrutturale dei primi del secolo. ai grandi costruttori di ponti, di sopraelevate, di shelters. Basterà citare i nomi di Foster, di Rogers, di Piano, di Nouvel di Fuksas ...

Tornando al tema del museo, il paragone recente che si può fare, è quello del Beaubourg che è un tentativo diverso, degli anni sessanta, che nasce dalla cultura della liberazione, che ha bisogno di ricrearsi dei nuovi parametri di riferimento tra i quali il museo è ancora un punto fermo. Pierre Restany ha dello che il Beaubourg è uno Stradivari che sta ancora cercando il suo Mozart.

Bilbao ha superato tutto questo; non ha bisogno di Mozart, non chiede, non sta attendendo. È completamente se stesso: ha solo bisogno di vivere. È, in ultima analisi, la dimostrazione evidente che il museo ha cambiato completamente il suo ruolo.

Forse il ciclo comincia a chiudersi e a formare le prime aggregazioni nodali, in quanto non si può non sentire ancora emozioni di fronte ad opere come queste, che si pongono come opere d’arte assoluta; emozioni che disgregano la realtà, e la invadono con la stessa forza dei Grandi Neri di Burri o del Quadrato nero di Malevic.