Architettura

Conversazione con Giancarlo De Carlo
a cura di Davide Vargas

Sullo sfondo dell’architettura appena ferita del Grattacielo Pirelli, con le emozioni dirette attutite dalle troppe immagini televisive rovesciate freneticamente nelle ultime ventiquattro ore, con il rammarico che deriva dall’essere ormai in possesso di una reattività anestetizzata dai media, con tutto questo bagaglio imbarazzante, l’incontro con Giancarlo De Carlo ha significato per contro l’incontro con un ragionamento che si articola esclusivamente sull’attacco diretto alle questioni, ne tocca sempre il nervo più vivo senza i filtri prefigurati del "già detto" e del "già visto".

De Carlo entra nel tema e mette a fuoco la ferita vera di cui soffre l’architettura di oggi , così prossima ai linguaggi della pubblicità e così sottomessa al dominio dell’immagine.

Palazzo Battiferri, Urbino. Fronte Ovest

Palazzo Battiferri, Urbino. Fronte Ovest
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

"L’architettura è fondamentalmente organizzazione e forma dello spazio", dice e precisa che tutto quello che si allontana da questo intento, sia pure di qualità, non è architettura.

"Una gran parte delle architetture di oggi si limitano esclusivamente a ricomporre delle facciate, come in fondo si faceva nell’ottocento quando in Francia venivano chiamate DECORATION".

L’immagine domina l’interesse dell’architetto di oggi, il "come appare", mentre sono strutture parallele, le società di ingegneria, i finanziatori e quanto altro, a realizzare l’opera.

Il sistema distributivo risponde a norme strettissime per cui occuparsene diventa secondario in questo panorama, e De Carlo puntualizza:

"C'è stata questa COSPIRAZIONE fra gli inventori delle norme e i fruitori dell’architettura in quanto prodotto di mercato. Si tratta di una cospirazione perfetta devo dire, che taglia fuori l’architetto autentico, il quale veramente concepisce lo spazio, dialoga continuamente tra interno e esterno, anzi non fa differenza fra esterno e interno, non fa differenza tra lo spazio costruito e lo spazio oltre il costruito, che non vi appartiene in senso economico ma appartiene in senso generale, figurativo e ambientale a tutti.

Palazzo Battiferri, Urbino.

Palazzo Battiferri, Urbino
Corpo scala Nord, veduta notturna
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

Palazzo Battiferri, Urbino. Vetrata del corpo scala

Palazzo Battiferri, Urbino
Vetrata del corpo scala
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

Palazzo Battiferri, Urbino. Collegamento a più livelli

Palazzo Battiferri, Urbino
Collegamento a più livelli
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

Le norme danno in fondo all’architetto la libertà di non fare più architettura.
L’architetto è libero oggi di non fare architettura e di preoccuparsi dei problemi del mercato strettamente connessi a quelli dell’immagine. Alcuni molto lucidamente, per esempio Koolhaas, dicono che l’architettura è in fondo una forma di pubblicità. Si tratta di una pubblicità molto pregnante perché lavora su grandi dimensioni ed è presente nel quotidiano delle persone, quindi si imprime nel loro immaginario. Non c’è da illudersi che l’architettura sia molto di più".

Più o meno contemporaneamente, nel Palazzo della Triennale Rem Koolhaas teneva una conferenza, e una mostra psichedelica dell’opera di Jean Nouvel faceva da controcanto al pensiero di De Carlo.
Mostra interessante e fascinosa, immagini distanti e suggestive immerse come lampi in un percorso buio, didascalie come graffiti, videoconferenze e sonorità alternate.
Ma con le parole sulla architettura e pubblicità che risuonavano, la mostra ha suscitato un disagio pieno di salutari interrogativi.

Palazzo Battiferri, Urbino. Aula a tre livelli

Palazzo Battiferri, Urbino. Aula a tre livelli
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

"L’organizzare e dare forma allo spazio mette in relazione con la vita degli essere umani" e qui risiede per De Carlo la complessità dell’architettura che deve perseguire il contatto con l’essere umano e non considerarlo soltanto il "recettore di un’immagine".

In un‘architettura entrano esseri umani, si incontrano, intrecciano rapporti, usano lo spazio e ne vengono influenzati, stabiliscono con lo spazio una dialettica "partecipativa", intesa in senso moderno: questo è per De Carlo "il contatto con gli esseri umani" che l’architetto deve perseguire e questo è il "carattere umano" della professione.

Palazzo Battiferri, Urbino. Emeroteca

Palazzo Battiferri, Urbino. Emeroteca
Fotografia di Paola De Pietri
Cortesia Studio De Carlo

Nel suo vocabolario il tema della complessità si accompagna a quello della molteplicità.
Che cosa intende?
"Io credo" dice De Carlo "che la nostra società diventerà sicuramente una civiltà multietnica, multirazziale, multicolore; quella occidentale farà fatica ad arrivare a questo stadio, sarà doloroso e non così semplice, ma ci arriverà. La società tenderà a non avere struttura sostituita da fenomeni di movimento interno molto complessi e probabilmente turbolenti, ma non c’è niente da fare; qualunque tentativo di opporsi è inutile se non risibile.
Le persone che sbarcano a Otranto, diventeranno italiani, porteranno un’altra cultura, che si integrerà con le altre; del resto ad Otranto erano già sbarcati tanti secoli fa altre persone e hanno fatto poi la Cattedrale di Otranto che è uno dei grandi capolavori del mondo".

Così, secondo De Carlo il linguaggio non può rimanere monolitico e legato solo alle regole interne che si è dato; il linguaggio deve essere molteplice, stratificato, con un’ampia tolleranza, pertanto disponibile ad essere svelato e compreso da tutti e non solo da una minoranza.

Il linguaggio porterà valori universali al posto di quelli di una classe.

E precisa: "Questo diventa il nuovo obiettivo dell’architettura: un linguaggio che non sia eclettico, perché l’eclettismo è combinazione di vari stili; io parlo di un linguaggio senza stili, che anzi intrinsecamente repelle ogni innesto di stili, con infinite diramazioni e infinite facce che riescano a parlare agli altri".

Le porte di San Marino o il lavoro al Monastero di San Nicolò l’Arena a di Catania, che appaiono attraversate da nuove tensioni rispetto a tutto il suo percorso, sono da ricondurre a questa ricerca "tormentosa".

Questa trama di interessi è stata al centro di "Spazio & Società ", una rivista che De Carlo ha diretto per anni rendendola unica in Italia per la capacità di andare ad indagare culture lontane, di dare spazio a ricerche e ambiti che altri ancora trascurano.


Oggi che la rivista non esce più ,quali bilanci ne trae?
"La rivista si è interessata di un ampio orizzonte, non soltanto di opere.
Mentre l’architettura si andava globalizzando, noi eravamo alla ricerca di cose che avessero genuinità, freschezza e aderenza alle situazioni.
L’architettura deve avere questa radice di attività umana, in fondo fare architettura vuol dire proiettare il proprio corpo nello spazio.
Abbiamo cercato in tanti campi e le cose che ci entusiasmavano di più erano per un certo periodo le architetture di altri luoghi che non fossero l’Europa occidentale o gli Stati Uniti d’America; ci siamo occupati delle architetture Africane, Indiane o di architetti che in fondo erano africani o indiani pur essendo italiani, come i napoletani, perché avevano questa immaginazione e generosità che li portava a guardare al mondo nel suo complesso e a considerare l’architettura uno strumento importante per migliorare le condizioni umane o contribuire a ciò; quindi ci interessavano anche quelli che avevano più bisogno di avere il contributo dell’architettura per migliorare le proprie condizioni"

La rivista non esce più per molte ragioni, come lui dice :dai costi troppo elevati alla distribuzione faticosa e insoddisfacente, dal numero degli abbonati sempre più difficile da incrementare ma anche da conservare al gruppo redazionale attraversato, dopo anni, dall’appannamento degli entusiasmi giovanili.

"L’entusiasmo è una cosa che si consuma con l’età e questa è una cosa strana; una persona che si occupa di questioni impegnate deve conservare la propria giovinezza o addirittura la propria infanzia, altrimenti si perdono alimenti fondamentali che sono l’entusiasmo e il disinteresse", dice De Carlo e aggiunge alle ragioni dette, la più importante, che riguarda la salute che ha allontanato dal lavoro la moglie Giuliana, per anni colonna della rivista e interlocutore "non architetto" indispensabile per alimentare i suoi caratteri originali e impedirle di diventare una rivista come le altre.

"Naturalmente " dice " per me è un dispiacere che Spazio & Società non esca più.

Adesso ci sono soltanto riviste patinate, che in fondo non dicono quasi niente, illustrano la situazione attuale ma non indicano orientamenti alternativi o mostrano la complessità dell’architettura.
Sembra che tutto sia molto semplice: si costruisce, deve essere bello, ma di tutto il problema vero dell’architettura non si parla; per ora almeno, poi le cose cambieranno".
In definitiva Spazio & Società ha sempre "girato il cannocchiale", dal titolo di un suo editoriale.


Nella descrizione del lavoro che sta facendo al Monastero di San Nicolò l’Arena a Catania, con parole di scrittore fa il punto su una misteriosa inquietudine che quello spazio trasmette.
Che cosa pensa del sud?
"Mio padre era nato in Tunisia, figlio di Siciliani; mia madre era nata in Cile ed era figlia di Piemontesi, e questo strano mescolamento mi ha dato il grande vantaggio di essere intrinsecamente cosmopolita, non per scelta ma per natura; un vantaggio anche penoso, perché io ho continuato tutta la vita a cercare la mia città, Genova dove ero nato un po’ per caso, Urbino, la Sicilia dove sto lavorando ancora con molto piacere.

Ogni volta che mi avvicino a una città penso che sia la mia città, e questo mi ha dato uno straordinario impeto interno a identificarmi, a cercare di capirla"

Per questo De Carlo dice di aver fatto poca urbanistica; non poteva consentirsi di distrarre la propria totale identificazione con la città oggetto del suo lavoro, verso nuove esperienze.
Un cosmopolita ha un bisogno profondo di radicarsi a un luogo, spera sempre di trovare finalmente la sua città, vive una sorta di nomadismo penoso.
Oggi, all’interno della cornice europea in atto, di cui riconosce le necessità ma non ne condivide l’identificazione con la risoluzione di tutti i problemi sul tappeto, all’interno di questa cornice sarebbe interessante collocare in primo piano la "città mediterranea" e le problematiche connesse.

È lì secondo De Carlo che bisogna cercare i modelli per nuove articolazioni urbane ed umane perché "con tutto il loro disordine, con tutte le loro intemperanze, sono ancora i luoghi che non hanno subito o hanno rifiutato o hanno subito il meno possibile il dominio dello zoning, che vuol dire divisione delle attività, distinzione tra spazio privato e spazio pubblico, ordine precostituito".

Il sud e tutto il mediterraneo non è ancora contaminato del tutto da questa distinzione autoritaria delle attività, nata per il controllo del valore dei suoli più che per le motivazioni igieniche affermate
"Ecco, nel sud che appartiene al mediterraneo, si vede una città molto più articolata, molto più complessa, molto più mobile, anche fatiscente, questo è sicuro, però carica di valori.
E occorre lavorare per eliminare la fatiscenza, ma non per farle diventare come Hannover o come Coventry, non per farle diventare città di plastica. Soprattutto le città centro europee, prima brutalmente distrutte dalla guerra e poi sconsolatamente ricostruite da finanziari e burocratici, hanno subito questa sorte.
Ecco questo io penso del sud, penso che lì ci sono ricchezze straordinarie.
Mi trovo bene nel sud, perché quando parlo con la gente ho immediata risposta ….a Catania ho lavorato con molto piacere, anche perché Catania mi fa pensare alla Grecia.
Io amo molto la Grecia, fra l’altro e spero che con l’ingresso nel Mercato Comune non disperda la ricchezza dei rapporti umani, per cui uno arrivava, fino a qualche anno fa, in un villaggio dopo una camminata e per prima cosa gli offrivano il pane appena sfornato, cose da mettersi a piangere per quello che abbiamo perduto".


Si sa che lei ha avuto un’intensa rete di rapporti con scrittori, poeti, artisti, se ne è scritto, sono state mostrate fotografie.
Tuttavia non si può fare a meno di chiederle di raccontarne.
Che cosa legge e che indicazioni trae per il suo lavoro?
"Io leggo molto e ho letto sempre molto. I miei migliori amici sono stati i letterati;" risponde De Carlo e racconta del suo intenso rapporto con Elio Vittorini con il quale per un certo periodo ha condiviso una casa di ringhiera a Milano, messa a posto da lui stesso, e ricorda gli ultimi anni dell’amico malato quando lo accompagnava a vedere le periferie della città che ancora gli interessavano.
Poi ha ricordato le vacanze a Boccadimagra, con Giulio Einaudi, Pavese e tanti scrittori che venivano da fuori, come Marguerite Duras, e poi con Italo Calvino, lo stesso Vittorini, Giovanni Pintori, Vittorio Sereni.

"Andavamo per fare vacanze e giocavamo continuamente, e questo io credo che sia importante perché uno dice "erano lì che discutevano tutto il giorno" , invece no, giocavamo molto.
Certo si discuteva anche, soprattutto la sera quando c’era il tramonto su quella fiumara che scende al mare. Ci sedevamo su un muretto e discutevamo e parlavamo di città.
Dopo sono uscite " Le città del mondo " di Vittorini e " Le città invisibili" di Calvino.
In quel periodo stavo realizzando i miei lavori di Urbino.
Era un grande nutrimento, credo per tutti, parlavamo di città da punti di vista completamente diversi, io parlavo della complessità delle città, Calvino parlava di i fili e del suo modo di vedere questa complessità e Vittorini delle città del sud, di Scicli, di questi tessuti urbani densi.
E’ stato un periodo ricco e di allegrezza".

De Carlo ha parlato dei suoi interessi e delle sue letture, recentemente gli è piaciuto Body Art di Don De Lillo per il suo modo di avvicinarsi al cuore della storia per frammenti significativi e intrecciati.
In questo diceva di trovare un corrispettivo nella progettazione, quando frammenti significanti si uniscono per dare forma ad un quadro unitario, che, attenzione, prima non c’era.
Tutti gli americani lo hanno interessato, da Miller a Kerouac a Ginsberg, oggi gli interessano gli Italiani per tastare il polso a quello che succede da noi, i napoletani e ha concluso:

" poi leggo mio figlio, lo leggo quando ha finito di scrivere e mi interessa molto…"

Infine ha ripercorso la straordinaria esperienza del suo incontro con Fernand Léger quando, giovane architetto, era andato a Parigi per chiedergli di dipingere una parete della turbonave Lucania, di cui aveva ridisegnato gli interni par degli armatori napoletani.
Questi ultimi gli avevano proposto una veduta del Vesuvio e lui si era assunto questo rischio che, dice De Carlo, solo un giovane può assumere: di promettere per lo stesso prezzo l’opera di Léger, il pittore che più amava in quel momento ed il segnale più pregnante che potesse lanciare per il futuro.

"Diciamo, un milione di lire di oggi" dice De Carlo e continua raccontando del suo arrivo nello studio di Montparnasse con il rotolo di disegni sotto al braccio e dell’incontro con un omone grosso e simpatico, che dopo aver ricevuto le informazioni sulle dimensioni del dipinto e sulle coerenze con l’architettura da ricercare, e dopo un simpatico scambio:

"…e ho lasciato questa parete pensando a un pittore come lei; se vuole sapere io avevo pensato o a lei o a Picasso"
"oh, ma Picasso, io lo so che voi amate queste cose in Italia", dopo questo scambio in cui faceva trasparire che Picasso non gli piaceva, trasale al prezzo proposto e lo guarda come si guarda un pazzo.

"Ma non ne parliamo neanche, non mi serve neanche per comprare i colori una cifra così" fu l’inevitabile risposta di Léger.
E ancora ricorda come il pittore fosse incuriosito dal rotolo di disegni e come chiedesse di guardarli, proprio mentre il giovane architetto stava per andare via, e come li sfogliasse interessato fino a dire "Il a du talent, le petit", e poi ad accettare la proposta ed anche, quindici giorni dopo, a comprendere l’incredibile insoddisfazione dell’architetto di fronte ai primi bozzetti che costringevano lo spazio piuttosto che esploderlo come nelle intenzioni progettuali, fino allo straordinario risultato finale e al rapporto tra i due che si dispiegava nelle passeggiate parigine : "… e poi passavamo per Parigi, mi ricordo che mi aveva fatto vedere la reclame di Dubonnet, che era Du Bon Du Bon Dubonnet, questi colori gialli, e lui ha fermato la macchina e ha detto "Guardi bene questo qui, è il più bel quadro contemporaneo", e somigliava poi ai suoi", o nelle visite all’atelier fuori Parigi, un piccolo albergo trasformato, dove, ricorda De Carlo: "nella sua stanza c’era solo un lettino di ferro da infermeria e un comodino con sopra il ritratto della moglie da poco morta, Léger era triste per questo, e un ritratto di Stalin, era un comunista molto credente ".


Ci sono architetti e architetture che l’hanno influenzata?
"Non trovo architetti che mi interessano molto in questo momento, gli ultimi architetti che mi hanno veramente interessato sono stati Aldo Van Eyck , o Erskine che mi interessa ancora.
Parlo di gente anziana come me; nella generazione dopo la mia c’è stata questa peste post-moderna che ha confuso tutto e ha spostato l’architettura su terreni che non le sono propri.
C’è stata poi questa ripresa neorazionalista dove sono in prima linea gli Svizzeri ed è naturale che lo siano perché sono stati razionalisti di qualità, inoltre la cultura razionalista è molto diffusa in svizzera, le case normali sono razionaliste, e questa mi ha interessato sì, ma non mi ha entusiasmato.
Quasi per le stesse ragioni mi hanno interessato i nuovi, o quasi nuovi architetti olandesi; ma anche loro non oltre la curiosità per la stravaganza."


La conclusione di questa risposta e di tutta la conversazione è stata degna di un pensiero sempre obliquo rispetto al flusso comune, che non conosce passive rassegnazioni, ed è carico dell’ottimismo di chi, come ha scritto una volta, "è affezionato ai ragionamenti limpidi che richiedono paziente lavoro e fervida immaginazione:

"Io ho fiducia perché i problemi che ci troviamo di fronte sono troppo grandi per non costringere gli architetti, prima o poi, ad affrontarli.
D’altra parte l’architettura non può morire finché ci sono gli esseri umani ".

Avrei voluto fare altre domande a De Carlo, per esempio se questo suo atteggiamento così intransigente è mai stato attraversato della crisi e in cosa questa si può trasformare o come si fa a progettare una committenza o ancora quanto si può incidere nella realtà o ancora intorno all’immagine della città definita per vettori che costituiscono un grafo variabile che non compromette mai la coerenza dell’insieme e quanto questo grafo può rappresentare una vita.
Tutte le risposte sono dentro la sua opera, limpide.

A Milano, il 19 aprile 2002